Quando si intraprende una discussione, ovunque la si intraprenda (qui, sui social, su carta, in televisione), c’è un problema di cui non ci si rende conto, almeno secondo me. Le parole. Che non si rinnovano, che mancano, che vengono ripetute fino a sbiadire. Parto dalle parole della sinistra: ma non degli esponenti politici di primo piano, bensì dei militanti o simpatizzanti o votanti o quel che vi pare. Sono sempre uguali. Le sento ripetere fin dagli anni Settanta, e allora avevano forse un senso: ma oggi sono automatismi, meccanismi  vuoti, non aderenti al reale.
Grazie al cielo, non sono la sola a rendermene conto. Questa mattina, su Repubblica, è Paolo Rumiz a denunciarlo: “la politica è fatta anche di parole, e fino a prova contraria le parole sono il mestiere di chi scrive. Ebbene, mi accorgo che esiste già di fatto un’egemonia della destra sul piano verbale, un’egemonia tale che i partiti di governo sono costretti a inseguirla penosamente”.
In un accorato intervento su Minima&Moralia, Matteo Nucci ha riproposto il discorso su Gaza. Sull’assenza di parole ancora una volta incisive e corrispondenti al reale su quanto sta avvenendo, con poche eccezioni.
Ci sono quelli che continuano a farlo, certo, da tempi non sospetti: penso a Wu Ming 1 e ai suoi Uomini pesce che stanno arrivando, penso allo stesso Rumiz, penso a Claudia Durastanti col suo non abbastanza compreso Missitalia, penso a chi è consapevole che la lingua è resistenza, qualora la si usi bene. E mi chiedo perché non ci riflettiamo abbastanza, e perché lasciamo andare quel che ci caratterizza da millenni. Perché non curiamo la parola fino a quando, come diceva Emily Dickinson, non comincia a splendere. O, se lo facciamo, lo facciamo per raccontare noi stessi, e non tutto il resto.

Per uno di quei casi che non sono casi, ma che è giusto chiamare sincronicità, escono due articoli quasi contemporaneamente. Il primo è di Simonetta Sciandivasci su Specchio de La Stampa, e si intitola Diventiamo un villaggio capace e degno di crescere i figli di tutti. Il secondo è di Motoko Rich sul New York Times e si intitola I governi possono convincere le persone ad avere più figli? Entrambi dicono una cosa importante: gli incentivi non bastano. Non bastano gli asili nido e i congedi parentali e tutto quello che ancora non c’è e potrebbe esserci: ci vuole qualcos’altro, e quel qualcos’altro è nel nostro atteggiamento.
Sciandivasci scrive una cosa verissima, anche se fa male: il villaggio è ostile alle bambine e ai bambini (lei, giustamente, usa il femminile sovraesteso: io, che non voglio rotture di scatole nei commenti che parlano di questo invece che del contenuto, faccio l’ecumenica, per ora).
E’ vero. Rintanati nel mondo piccolo dove ci sentiamo onnipotenti, bravissimi, intelligentissimi e certamente poco compresi nel nostro fulgore, detestiamo persino le piccole persone, vedi mai ci rubassero aria e, crescendo, ottenessero più riconoscimenti di noi. O dei nostri figli e figlie, che spesso viviamo come nostra proiezione, come coloro che si faranno strada dove noi non siamo riusciti.
Insomma, in ballo c’è non solo il modo in cui vediamo il futuro, ma il modo in cui ci vediamo oggi. E se non riusciamo a vederci plurali, sarà un guaio: e dire che il mondo senza umanità starà meglio, perdonate, è una scusa.

Da ieri mattina provo (quasi invano) a sostenere l’insensatezza dell’ondata di sghignazzo (tutt’altro che intelligente, come lo intendeva Dario Fo) seguito al discorso programmatico del ministro della Cultura Giuli.
Quello che non mi riesce di far capire è che non solo non difendo Giuli, ma che me ne infischio di Giuli, almeno finché non farà qualcosa. Sarebbe il caso, per chi lavora con i libri o nel mondo culturale, di presidiare il territorio, di intervenire sul punto, visto che di punti, dall’intervento sull’editoria o, come scriveva Nicola Lagioia, alle politiche inesistenti del governo sul mondo del libro, ce ne sarebbero parecchi.
Quello di cui non mi infischio è che un discorso non particolarmente oscuro o difficile viene salutato come il manoscritto Voynich, che come è noto è quanto di più enigmatico esista al mondo.
Ben quattordici anni fa Tullio De Mauro ci disse che cinque italiani su cento fra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera o una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta. Trentatre non riescono a leggere un testo scritto che “riguardi fatti collettivi”. Un quotidiano, per esempio. Solo il 20 per cento degli italiani, secondo De Mauro (che a sua volta si riferisce a studi internazionali) possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura per orientarsi nella società.
Quattordici anni dopo, ho la sensazione che le cose siano enormemente peggiorate. 

Grazie a un post di Giovanni Arduino, sono andata a leggere un articolo piuttosto inquietante, quanto vero, su The Atlantic. Parla degli studenti di Letteratura alla Columbia University. Parla di quanto sia difficile, per loro, stare al passo con i libri che si chiede loro di leggere. Anzi, parla del fatto che non riescono proprio a leggere e non sono preparati a farlo quando iniziano l’università: una studentessa, infatti, confessa che a scuola non le è mai stato chiesto di leggere un libro per intero, ma solo estratti, o poesie, o articoli di giornale.
Sulla sua newsletter, Servizio a domicilio, Giulia Blasi ha scritto una confessione, lo scorso 1 ottobre, dove racconta di non riuscire più a leggere.
Due testi che ci dicono qualcosa di molto simile: la lettura intrapresa per puro piacere è seriamente insidiata. Dalla sovrapproduzione, dalle troppe richieste, dalla distrazione, da quel che volete. Ma sarebbe il caso di pensarci, prima che sia tardi (poi, certo, le storie possono trovare mille strade, e leggere romanzi o saggi potrà anche diventare una faccenda elitaria. Però. Però).

Ci tengo a dire una cosa, e riguarda la presentazione di Morgana-Il corpo della madre di ieri sera a Spazio Sette, con Chiara Tagliaferri, Alessandro Giammei, MP5, Valeria Solarino e tante, e tanti che erano presenti. Michela Murgia, non sembri retorico dirlo, su tutte, perché era presente davvero, con le sue parole e la sua voce e con qualcosa che non è solo ricordo, ma permanenza, non è solo nostalgia, ma riconoscimento e cammino comune.
Questo è quello che volevo dire, infatti: in un mondo spesso soffocante e a volte persino velenoso come quello della letteratura, può nascere e fiorire qualcosa che, banalmente, si chiama amore, ed è fatto di stima reciproca, di obiettivi comuni, di risate e di pianti, e di tutto ciò che si fa quando ci si vuole bene. Si dice così poco, quanto è importante volersi bene. Eppure, è quel che abbiamo.

Oggi pomeriggio alle 18.30 torno a Spazio Sette a Roma per un appuntamento gioioso: presentare Morgana-Il corpo della madre di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. Sarò insieme ad Alessandro Giammei e Valeria Solarino. Ci sarà molto, molto amore.
Approfitto per una nota. In questo ciclo di Morgana c’è anche un capitolo, ed episodio, dedicato a Elena Ferrante, come è giusto che sia. E per una di quelle straordinarie coincidenze (che poi tali non sono), esattamente un 3 settembre di otto anni fa esplodeva il “caso” Elena Ferrante. Ricordate? Fu il momento in cui si apprendeva quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avvenne con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate.
L’inchiesta venne condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump.
L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. E in otto anni hanno continuato a saperlo: leggete Morgana-Il corpo della madre per capirlo. E, certo, non solo per questo.

What I say is, a town isn’t a town without a bookstore. It may call itself a town, but unless it’s got a bookstore, it knows it’s not foolin’ a soul.”
Questo è Neil Gaiman, in American Gods. Ci ripensavo stamattina chiedendomi cosa avremmo detto, Federica Manzon, Rosella Postorino e io questo pomeriggio alle 19 alla Libreria Feltrinelli di Largo Torre Argentina, che giusto oggi si rinnova e apre nuovi spazi per gli incontri.
Così mi è venuto in mente Neil Gaiman e la sua famosissima lectio magistralis tenuta undici anni fa sulla lettura e sui libri. 
Dove dice fra l’altro: “Abbiamo l’obbligo di rendere le cose belle. Non lasciare il mondo più brutto di quanto lo abbiamo trovato, non svuotare gli oceani, non lasciare i nostri problemi alle generazioni future. Abbiamo l’obbligo di pulire dopo il nostro passaggio, e non lasciare ai nostri figli un mondo che in maniera miope abbiamo incasinato, deprivato, menomato.
Abbiamo l’obbligo di dire ai nostri politici cosa vogliamo, e di votare contro i politici – di qualunque parte siano – che non capiscono il valore della lettura nella creazione di cittadini consapevoli, e che non vogliono agire per preservare la conoscenza e incoraggiare l’alfabetizzazione. Non è una questione politica, è una questione di umanità”.
Ecco: le librerie e le biblioteche sono i luoghi dove noi che scriviamo e parliamo di libri dobbiamo essere. Per incontrare, per presidiare. Per essere, appunto, umani.
Ci vediamo più tardi.

Ci sarebbero molte cose da dire, su quanto avviene negli ultimi giorni. Non me ne vorrete se rimango sulla scuola. Anzi, dal commento al post di venerdì traggo l’articolo di Girolamo De Michele su Euronomade, apparso in versione più breve sul Manifesto, tanto per capire cosa ci sta accadendo.
“La pubblicazione del decreto contenente le “Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica”, lo scorso 7 settembre conferma, e in qualche caso aggrava, le preoccupazioni suscitate dalle anticipazioni dello stesso ministro Valditara, e dal parere del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, che il ministro in buona parte ha ritenuto di non accogliere.
Un rifiuto che riguarda anche alcuni rilievi tecnici, ad esempio sulla confusione tra finalità e obiettivi, tra contenuti e competenze: “approfondire il concetto di Patria” e “Riconoscere il valore dell’impresa e dell’iniziativa privata” competenze non sono, come ha rilevato il CSPI, ed è quantomeno problematica questa confusione terminologica e concettuale in un testo ministeriale”.
“Le Linee Guida dovrebbero offrire “una cornice efficace entro la quale poter inquadrare temi e obiettivi di apprendimento”: ma questa cornice diventa una strozzatura nella immediata delimitazione di questi obiettivi al “sentimento di appartenenza” che deriva dal nascere e vivere “in un paese chiamato Italia”. La stessa esperienze del mondo e del sé del bambino viene ristretta a questo contesto geografico, appiattendo la ricchissima esperienza della formazione del sé di cui si occupano una pluralità di discipline e saperi coinvolti in questa materia trasversale.

Ma qui incontriamo una seconda, più seria strozzatura: la reinterpretazione in chiave unicamente personalistica della Costituzione, cui viene correlata una rilettura degli artt. 41-42 che vede solo l’iniziativa privata e, di fatto, l’individualismo possessivo, tagliando via i limiti all’iniziativa privata, primi fra tutti l’utilità e la funzione sociale.”

STAGIONI IN CORSO: VALDITARA

E così il ddl Valditara è diventato legge. Tra l’altro, introduce già da questo anno scolastico, ” il voto in condotta nelle scuole medie e nelle superiori (si viene bocciati con il 5 in condotta e rimandati con il 6) e prevede, a carico degli studenti responsabili di aggressioni a danno di dirigenti scolastici, docenti e altro personale della scuola, multe da 500 fino a 10.000 euro. Il testo, inoltre, mette in soffitta i giudizi descrittivi e ripristina i giudizi sintetici nella scuola elementare (sufficiente, buono, ottimo). ”
Né i docenti potranno protestare più di tanto. Ho avuto già occasione di parlarne, ma esiste già da due anni e mezzo il codice comportamentale per i docenti adottato con D.M. n. 105 del 26.04.2022, che all’articolo 13 dispone che il dipendente sia astenga “dal pubblicare, tramite l’utilizzo dei social network, contenuti che possano nuocere all’immagine dell’Amministrazione”.

Non occorre stupirsi. La scuola di governo si delineava già prima della campagna elettorale. Ripubblico dunque qui l’articolo che scrissi per l’Espresso in quell’estate 2022 che sembra tragicamente lontana, e invece ne portiamo tutto il peso.
In un famoso libro del 2004, L’epoca delle passioni tristi, Miguel Benasayag e Gérard Schmit dicevano: “L’educazione dei nostri figli non è più un invito a desiderare il mondo: si educa in funzione di una minaccia, si insegna a temere il mondo, a uscire indenni dai pericolo incombenti”. Così è anche peggio: si insegna a desiderare un mondo di efficientamento, e non è un bel mondo.

A proposito di impegno e letteratura. Chiunque abbia letto i giornali, o l’equivalente, in questi giorni, sa perfettamente che ci troviamo in un punto tragicamente critico della nostra storia, e che si torna (ma si è mai smesso?) a parlare di nucleare. Ora, nel tempo, gli scrittori e le scrittrici ne hanno a loro volta parlato. Penso a Moravia e Cassola, proprio la “Liala” sbeffeggiata dal Gruppo 63 (insieme a Giorgio Bassani, peraltro). Dirà di lui Alfredo Giuliani: “Avrebbe voluto scrivere un romanzo puramente poetico. Ma il puramente poetico, se mai è esistito, oggi non lo puoi cercare più. Vagheggiarlo dimessamente colora la scrittura di rosa spento. Vorrei provare a rileggere Il taglio del bosco. Dopo tanti anni, quei racconti saranno svaniti o avranno ancora uno sfuggente bouquet?”.
Io sono cresciuta, peraltro, leggendo il “rosa spento” di Cassola, che è stato uno dei miei iniziatori alla lettura. Ma forse ero un’ingenua e un po’ sciocca ragazzina che non sarebbe piaciuta al gruppo 63. Pazienza.

Loredana Lipperini
Torna in alto