Le proteste dei terremotati hanno riconquistato le cronache, ed è bene. Ma al di là delle cronache, ci sono le vite. Come quella raccontata qui da Laura Capezzuoli.
RUMORI
Il terremoto frantuma. Non soltanto case ed oggetti, ma anche sicurezze ed equilibri personali. Scuote le menti e, come per i mobili rovesciati dai quali esce alla rinfusa il contenuto, così, ogni tanto, i ricordi e le sensazioni prendono un ordine diverso dal solito. In questo caso, tornano alla mente, con prepotenza i rumori che, dalla notte del 24 agosto, hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare questa esperienza.
La sera e la notte tra il 23 e il 24 le allegre chiacchiere degli adulti che, riuniti in gruppi sotto il gazebo del giardinetto pubblico, giocavano a carte alternando gioco a battute di spirito, a risate, mentre i bambini andavano in bicicletta, si sfidavano al biliardino o cuocevano al fuoco i marshmallow e passavano tra i tavoli per farli assaggiare. Erano i rumori, insomma, di una delle tante serate estive trascorse semplicemente con il piacere di stare insieme in quello che, negli ultimi anni, è diventato l’unico luogo di aggregazione dopo la chiusura del bar sulla piazzetta di Bolognesi. Quella notte, però, sapevamo che alcuni sarebbero partiti l’indomani, cominciando l’esodo che caratterizza la settimana successiva al Ferragosto, nella quale i borghi iniziano a svuotarsi dei villeggianti, e, per questo, cercavamo di allungare giochi e chiacchiere, per gustare ancora un po’ della compagnia gli uni degli altri. Non sapevamo, in quei momenti, che il piccolo esodo di ogni estate, questa volta sarebbe stato improvviso, disordinato e definitivo per non si sa quanti anni.
Il primo violento sobbalzo del letto quella notte e da quel momento una serie di rumori, forti, si affastellano gli uni sugli altri a creare un insieme inaudito e spaventoso. I colpi contro i pavimenti di tutti i mobili che saltano e vi ricadono continuamente, insieme a quanto rovina giù da tavoli, comodini e mensole, il sordo sbattere delle pietre della casa le une contro le altre continuamente, insieme agli infissi, ai vetri e agli “sportelloni” di legno. Su tutto questo, il violentissimo fruscio di un vento innaturale e fortissimo che scuote rami e foglie degli alberi a pochi metri da noi. Da quella notte, per settimane, ogni fruscìo improvviso o colpo (non importa quanto piccolo) inaspettato ricrea lo stato di allerta dei sensi, come se, in un attimo, da umani ci trasformassimo in animali braccati.
Usciti, finalmente, da casa, nel silenzio della notte, ecco i richiami verso i vicini, per svegliarli o per sapere che sono già fuori di casa e stanno bene e, subito dopo, la voce della radio della macchina per capire cosa fosse successo, o meglio, quanto grave fosse ciò che era appena successo. E poi, gli squilli dei cellulari o i bip dei messaggi che, dopo pochi minuti, partivano o arrivavano da e per parenti e amici.
Mentre eravamo in strada, a Moreggini, non molto lontani dalle nostre case di pietra e legno, i movimenti della terra, proseguiti per ore, quando non erano chiaramente espressi dai suoi sobbalzi sotto i nostri piedi, erano percepiti grazie ad un rumore che, di nuovo, non avevo mai sentito. Un rumore, leggero, brevissimo, ma inequivocabile: il “criiick” delle case che letteralmente scricchiolavano scosse dalla forza della terra. In pochi altri casi in vita mia l’onomatopea ha trovato un’espressione così evidente e terribile.
Un ultimo rumore riguarda quelle prime ore trascorse all’aperto nella notte già abbastanza fredda del terremoto: il tonfo sordo, durante una delle scosse più forti dopo quella delle 3.36. Sembrava quello di un grande mobile caduto all’interno di una delle nostre case. Con la luce del giorno avremmo capito che, invece, era il comignolo della casa alle spalle della nostra, rovinato sull’erba dello stradello che le divide; per tutti, il monito di quello che sarebbe potuto succedere ad ognuno di noi e che, fortunatamente non è successo, se soltanto una delle pietre grandi come sgabelli ci fosse caduta addosso.
Arriva la luce della mattina e andiamo in un paese vicino a fare colazione e, da quel momento in poi, sia nelle frazioni che attraversiamo in auto, sia nella nostra, l’immagine e i rumori sono gli stessi: macchine con il bagagliaio e sportelli aperti parcheggiate vicino a porte o cancelli spalancati, ed un viavai silenzioso, ma veloce, di persone con borsoni, buste, sporte, punteggiato dal rotolio delle ruote dei trolley e delle valigie più grandi sull’acciottolato delle strade dei paesi. Questa volta, l’esodo non è quello lento ed ordinato dei giorni di fine agosto , ma quello frettoloso di chi, impaurito, non vede l’ora di mettere chilometri e chilometri di strada tra sé e la paura.
Sono passati mesi, ormai, da quella notte e altri terremoti, più forti del primo, hanno attaccato le frazioni, radendole quasi al suolo o ferendone gravemente le case. Questa volta il rumore è quello di un distacco definitivo, di un’esclusione da ciò che ti appartiene: sono i colpi alla porta d’ingresso della nostra casa sferrati dai Vigili del Fuoco, nel tentativo, vano, di aprirla. Li ho sentiti dalla strada provinciale dove ero rimasta perché non c’erano abbastanza caschetti protettivi per entrare in zona rossa e, ancora oggi, non so descrivere il misto di sgomento, meraviglia, dolore che ognuno di quei colpi ha generato. Eravamo andati lì per tentare di chiudere, con l’aiuto prezioso dei Vigili del Fuoco, delle assi di un’intelaiatura e dei teli, il grosso buco aperto al secondo piano nella parete esterna della camera di nostro figlio. Volevamo, in qualche modo, chiudere quella ferita in vista di piogge e nevicate, restituire una parvenza di normalità a ciò che normale non era più da tempo. La casa, invece, non ci ha permesso di entrare. Mi piace pensare che sia stato il suo ultimo atto di protezione nei nostri confronti, per non metterci in pericolo o per non farci vedere la devastazione che deve regnare al suo interno. Nell’elegante fierezza delle sue pietre, non si è voluta mostrare nella bruttezza della distruzione, dandoci il tempo di immaginarla e di prepararci ad affrontarla, quando, per i sopralluoghi che, prima o poi, dovranno pur cominciare anche nelle zone rosse (per ora totalmente esluse da ogni provvedimento), la porta si dovrà sfondare.
Ho sempre sentito parlare dei boati che precedono o accompagnano i terremoti, ma fino all’11 novembre non l’avevo mai sperimentato. Stavamo pranzando con panini e tea caldo in piedi, soli, io, mio marito e suo zio, nella piazzetta di Bolognesi (frazione di Fiastra), nel silenzio assoluto di una zona completamente deserta per chilometri e chilometri. Sopra di noi le nuvole grigie di un cielo che promette pioggia tra poco e, in lontananza, nella valle, i nuvoloni neri di un temporale imminente. Improvvisamente, ecco il boato, lontano, quasi simile al rombo di un tuono (“Piove a Camerino” dice, infatti, lo zio), ma diverso, perché del tuono non ha l’evoluzione; è, invece, un rombo che, nel breve tempo della sua durata, non cambia né di altezza né di intensità. Subito dopo, infatti, il “criick” della casa vicina a noi toglie ogni dubbio così come , se non bastasse, contribuisce a svelare la realtà il comportamento del cane che, da sempre, staziona sulla piazzetta. Un cane grosso, peloso e molto scontroso, che abbaiava in modo deciso a chiunque si avvicininasse, veniva, tremando e guaendo, verso di noi in cerca di carezze e conforto. Siamo rimasti lì, per un po’, scossi a consolarlo, dandogli un po’ del nostro pranzo, dispiaciuti di doverlo lasciare a breve, unico custode del piccolo borgo.
L’ultimo è il rumore che li riassume tutti ed è quello del silenzio che regna incontrastato lungo le strade e nei paesi deserti, in intere aree nelle quali la natura ha ripreso il sopravvento sull’uomo e sulle sue opere. Il silenzio di un paesaggio immobile, nel quale, in questi mesi, mancano anche due componenti abituali: il fumo dei comignoli che, insieme al profumo della legna bruciata nei camini, annunciava la presenza degli abitanti.
Il silenzio, la sera, porta con sé il buio, ma non quello interrotto dalle luci delle case vicine e di quelle in lontananza che punteggiavano colline e valli, ma il buio uniforme che accompagna il viaggio in auto per chilometri e chilometri, che nasconde case e paesi come se non esistessero più o non fossero mai esistiti, perché, lo sappiamo, per i nostri sensi è la luce ad evidenziare l’esistenza di qualcosa. E allora questo silenzio perfetto e immutabile si trasforma in tristezza e nel grido di decine di piccoli borghi abbandonati che reclamano il riconoscimento di una presenza non destinata all’oblio.
Laura Capezzuoli
Il dolore provocato dall’oblio è quasi peggio di quello creato dal terremoto. La natura non si comanda e spesso è matrigna ma non si può lasciare che un paese scompaia per sempre.
Complimenti Laura per il tuo racconto davvero toccante, hai bene espresso il desiderio, che ci accomuna, che non cada L’oblio sui nostri borghi, evento che però io temo accadrà.
Sono incappata oggi per caso in queste storie dai borghi. le leggerò tutte. un colpo al cuore ognuna.
Stando lassù, sulla frazione più alta del Comune di Fiastra, ho sentito tanti boati, tanti “criiiick”, tanti scuotimenti netti delle pietre che rintoccano come gusci di noce in una terrina, tanti tintinnii degli oggetti più disparati. Ma i boati delle innumerevoli repliche (un giorno ne ho contate almeno 4 all’ora!) lassù sembravano dei colpi di cannone sparati nella terra, incapaci di uscirne fuori se non scuotendo tutto quasi contemporaneamente, come una potente metropolitana che scorre sotto il terreno e ti fa tremare senza requie mettendo a dura prova l’equilibrio fisico e mentale.
(e parlo “solo” di scosse di magnitudo massima intorno a 4, le più grosse le ho vissute a Macerata e a Osimo Stazione)