L’ultima cosa che si può dire tornando dal Salone del Libro di Torino è che manchi una comunità letteraria. Non vedi? C’eravamo proprio tutti, chi a presentare il proprio libro, chi a presentare il libro altrui (alcuni bellissimi, come Triste Tigre di Neige Sinno, che ha vinto il Premio Strega Europeo). Eravamo insieme nelle code interminabili per i bagni, insieme nelle code per il caffè, insieme a fumare una sigaretta agli ingressi dei padiglioni. Ci siamo salutati e abbracciati, con la promessa di vederci e sentirci presto. Abbiamo sospirato sul mondo che ci circonda, riso per una battuta divertente, ci siamo immalinconiti per gli anni che passano. Abbiamo bevuto. Siamo andati a cena. Siamo andati alle feste. Abbiamo condiviso un taxi.
Abbiamo contato i poliziotti presenti (alcuni). Abbiamo ascoltato (pochi) con sconcerto Faccetta nera dagli altoparlanti dello stand Città di Torino (hackerato, è intervenuta la Digos).
Ah, due di noi, Zerocalcare e Christian Raimo, sono usciti per parlare con le ragazze e i ragazzi che manifestavano in favore della Palestina.
E’ che il Salone, come altre grandi occasioni d’incontro (il Festival della letteratura a Mantova) ti porta a interrogarti su quella che un tempo si chiamava comunità letteraria. Che secondo me esiste, e non è solo quella che ci si immagina leggendo le cronache, con le mani occupate da calici di vino e stuzzichini al formaggio. Ma che forse non trova ancora il modo di riconoscersi fino in fondo, e di incidere fino in fondo.
Passo indietro. Nel 2011 Andrea Cortellessa e Luca Archibugi realizzano un documentario dal titolo Senza scrittori, sull’idea del catalogo di Alberto Arbasino in Un paese senza. Quello che manca, insomma. Allora, riferiva Francesco Erbani, nel documentario si raccontava del “predominio che la macchina editoriale, soprattutto quella dei grandi gruppi, ha assunto nel mercato della letteratura, dove non ci sono più opere o scrittori, critici o riviste, ma solo libri, solo produzione industriale, solo una filiera perfettamente assestata, e nella quale, però, quella che un tempo si chiamava la società letteraria ha pensato bene di accomodarsi, spintonando un po´ e anche dando di gomito, ma trovando un cantuccio nel quale sistemarsi”. C’erano i commenti. Per esempio, quello di Valentino Zeichen, che diceva “non è una società di grandi decadenti, questa è una società frolla, senza scheletro morale, priva di grandi progetti, di idealità. Una società stanca”. E Francesco Cataluccio: “La società italiana è diventata più cinica, non poteva che diventare più cinica anche l´editoria”.
Nel 2019, di ritorno da Mantova, avevo nelle orecchie le parole di Dave Eggers e Ian McEwan, che ricordavano che certamente possiamo e dobbiamo criticare Trump e Boris Johnson, ma che anche noi italiani abbiamo un paio di problemi. E altri due autori, Jonathan Safran Foer e Fritjof Capra, ricordavano che “abbiamo bisogno dell’esatto contrario di un selfie per salvarci” (Foer) e che fare rete, comunità letteraria, anche frequentare i festival è un primo passo (Capra).
Di ritorno dal Salone, che è stato bello e grande e partecipato e fitto di voci anche molto, molto politiche, non si può che pensare che tutto questo sia possibile, e che la comunità letteraria possa essere l’esempio virtuoso, il cerchio formato dal sasso gettato nell’acqua che si allarga e si allarga fino a formarne uno grande. Può essere così, naturalmente, ma non è sempre così. E’ vero, esistono molte fiammelle di forza e attivismo e attenzione fra scrittrici e scrittori. Ma cosa manca?
Me lo chiedo come me lo sono sempre chiesta. E mi viene sempre in mente quello che diceva Margaret Atwood: “Non ho mai pensato che la mia scrittura riguardasse me. Non penso che il mio lavoro sia “esprimere me stessa”. Il mio lavoro è evocare storie per i lettori. Potrei certamente raccontare ogni genere di cose su di me, ma vi annoiereste. Tutto questo “esprimi te stesso” è noiosissimo”.
E ancora: “I miei sentimenti, le mie emozioni non sono al centro del mio lavoro. Come mi è stato detto una volta: se vuoi “esprimere te stessa”, vai in un campo e strilla”.