DIRE LE PAROLACCE

Premessa non richiesta: dico le parolacce. Forse perché appartengo a una generazione dove la parolaccia era  trasgressione da far cadere casualmente durante il pranzo con le zie per vedere l’effetto che fa. Dico le parolacce, però, quando so di poterle dire: a casa, con amici e amiche, o quando mi scappano perché un’automobile passa correndo a un centimetro dalla punta delle mie scarpe.
Non ne sono particolarmente fiera, intendiamoci: capita, quando ci penso mi rimprovero anche un po’, poi ripassa un’automobile a un centimetro dalle mie scarpe e io auguro al gentile guidatore di recarsi in un luogo non reperibile su Google Maps, ecco.
Però. Esiste una differenza che mi sembra a questo punto dimenticata fra discorso pubblico e discorso privato. E, no, non siamo negli anni Settanta di Zavattini e della sua provocazione radiofonica a due zeta. Nè, mi sembra, la parolaccia pubblica comporta la burinizzazione del mondo, né la solita divisione tra felici pochi e massa scellerata, dove i primi leggono Proust in treno e i secondi fanno i lanzichenecchi (cit.).
Mi sembra che l’uso della parolaccia in pubblico si debba a un motivo semplice quanto non nuovo: il cosiddetto popolo, di cui tutti facciamo parte, vive da un paio di decenni nell’equivoco che scambia spontaneità ed emotività della parola pubblica (ripeto, pubblica, sia essa scritta su un social, su un quotidiano, profferita durante un’intervista, pronunciata a un convegno) con la violenza verbale.
“Credo poco alle virtù del parlare francamente: molto spesso ciò vuol dire affidarsi alle abitudini più facili, alla pigrizia mentale, alla fiacchezza delle espressioni banali”. Questo era l’Italo Calvino de “Una pietra sopra”. Lo riporta la sociologa Graziella Priulla in un libro  uscito per Settenove, Parole tossiche.
Scrive Priulla:

“Il leaderismo finto-plebeo congiunto al voyeurismo televisivo ha forgiato una rozza mitologia della spontaneità, per cui l’abolizione dei freni inibitori si fa passare per rivincita degli umili o per rifiuto del perbenismo: sbandierata nei comizi, ostentata nei talk show, sgangherata fino all’impudicizia nei reality, questa vantata spontaneità ha riempito le nostre orecchie di parolacce e le nostre teste di luoghi comuni. Non tutti si accorgono che essa lascia inalterati i ghetti creati dalle vicende sociali e che la volgarità compiaciuta della propria arroganza condanna alla mediocrità e alla subalternità. Che a forza di sciatteria generalizzata e di sottovalutazione del rispetto, dell’attenzione, della precisione e della cura, questo paese ha finito per avere un pessimo paesaggio, dei pessimi professionisti, una pessima politica. La congruità dei contenuti, la sensatezza dei pensieri, la logica degli interventi non trovano più consenso e lasciano il campo all’esibizione di potenza, alla violenza della retorica, alla prosopopea, al protagonismo e a una buona dose di disprezzo dell’avversario, il tutto camuffato da ‘passionalità’”.

Quest’è, e peggiora giorno dopo giorno.  E se l’unica strada possibile è costruirne una propria, ignorare i violenti che si autodefiniscono portatori di libertà, disinnescare l’insulto mantenendo il proprio linguaggio, occorre consapevolezza piena, da parte di chi ha pubblica figura, di quel che sta avvenendo.  Come scriveva Doris Lessing, “regimi, paesi interi sono stati travolti dal linguaggio che si diffondeva come un virus”. Ma quel virus riguarda anche lo svuotamento di significato delle parole. O forse soprattutto, come ha detto Maurizio Maggiani su La Stampa: “Pronuncio e scrivo il più cautamente possibile le parole più preziose, come pace, come amore, libertà, giustizia, visto che pace è sulla bocca di tutti i guerrafondai, amore su quella dei peggio fedifraghi, libertà sulle labbra degli autocrati e degli aspiranti al ruolo, giustizia serrata tra le mani dei più sanguinari vendicatori. Questo è il vero, schifoso turpiloquio, questa la bestemmia senza nemmeno bisogno di un dio. Poi per vent’anni lasciammo impunemente la parola libertà sulla bocca del cavalier Silvio Berlusconi, e, ora, finalmente redenti dalla noncuranza con cui ci siamo titillati, discutiamo con foga del pubblico esercizio del turpiloquio per mezzo delle consuete “parolacce””.

Un pensiero su “DIRE LE PAROLACCE

  1. Trovo che le parolacce hanno sempre di meno effetto. Si sono banalizzate e non fanno più scandalo come quando ero ragazzina negli anni 80. Le canzoni sono infarcite di parolacce e di oscenità. Basta ascoltare il rap che piace tanto ai più giovani o vedere una serie di netflix.

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