TORNA MORGANA, E C’E’ ANCHE ELENA FERRANTE

Oggi pomeriggio alle 18.30 torno a Spazio Sette a Roma per un appuntamento gioioso: presentare Morgana-Il corpo della madre di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri. Sarò insieme ad Alessandro Giammei e Valeria Solarino. Ci sarà molto, molto amore.
Approfitto per una nota. In questo ciclo di Morgana c’è anche un capitolo, ed episodio, dedicato a Elena Ferrante, come è giusto che sia. E per una di quelle straordinarie coincidenze (che poi tali non sono), esattamente un 3 settembre di otto anni fa esplodeva il “caso” Elena Ferrante. Ricordate? Fu il momento in cui si apprendeva quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avvenne con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate.
L’inchiesta venne condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump. Ferrante, che non fa altro che scrivere libri, viene trattata come una criminale: “le prove da noi raccolte puntano il dito su (perdono, ma io il nome non lo riporto, NdL), traduttrice residente a Roma la cui madre era un’ebrea di origine polacca prima sfuggita all’Olocausto e poi trasferitasi a Napoli”. Le prove da noi raccolte, e naturalmente si sappia pure che è ebrea, e naturalmente che è la moglie di, perché è evidente che il marito, maschio, ci ha messo lo zampino: “non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale”. Le prove da noi raccolte. Visure catastali, analisi della denuncia dei redditi. Tutto questo non per un criminale, ma per una scrittrice, vale la pena ripetere.
Il mondo deve sapere, sostengono i non molti difensori di Claudio Gatti, in una gamma che va da “il giornalismo mette le mani nella roba sporca” (e da quando in qua una scrittrice che vuole rimanere anonima è “roba sporca”?) a “le inchieste si fanno così, follow the money” (e da quando in qua si segue il denaro per entrare nel delicatissimo meccanismo dell’eteronimo o pseudonimo che dir si voglia e non per svelare una truffa, una storia di corruzione, un inganno? Perché, come si andrà a dimostrare, usare un altro nome non è un inganno).
Gatti gioca questa carta, in effetti. Scrive: “Mentendo – o meglio, annunciando che, qua e là avrebbe mentito – a nostro giudizio la scrittrice ha però compromesso il diritto che ha sempre sostenuto di avere (e che comunque solo parte del vasto mondo dei lettori e dei critici le hanno riconosciuto): quello di scomparire dietro ai suoi testi e lasciare che essi vivessero e si diffondessero senza autore. Anzi, si può dire che abbia lanciato una sorta di guanto di sfida a critici e giornalisti.”
In questo modo, il perfetto giornalista d’inchiesta commette due errori fatali: ignora che usare un altro nome non è menzogna, e che mai costituisce un guanto di sfida. Semmai, il pretesto che coglie – io, e solo io, vi dirò la verità – persegue invece e rivela quella che è l’ossessione identitaria dei nostri ultimi anni. Come scrissero sull’allora Twitter i Wu Ming, il sintomo di “una cultura reazionaria che aborre l’anonimato, le pseudonimie, le derive identitarie, l’opacità verso gossip e panopticon, cioè aborre tutto quello di cui si è nutrita la «cultura della rete» pre-Facebook, oggi rimpiazzata dal suo esatto rovescio”.
Da una parte, dunque, Gatti fa propria la vocazione questurina (cit.) di gran parte dei social (vogliamo sapere, vedere, toccare, farti male). Dall’altra non riesce a eliminare il retrogusto sessista dell’inchiesta stessa: ridimensionare Ferrante a “moglie” sembra portare non poche soddisfazioni al disvelatore.
Ora, però, vorrei soffermarmi sulla faccenda dell’anonimato come guanto di sfida o menzogna o inganno o, meglio ancora, come MARKETING, tutto in maiuscolo. Perdonate se uso parole che alcuni già conoscono, perché mi sono dilungata sul punto in un libro. Ma credo sia giusto riprenderle qui.
L’anonimato, dunque.
Anche Stephen King desiderò, a un certo punto, “dare un senso” al proprio lavoro. Capire se aveva talento o era stato fortunato. Per questo pubblicò i romanzi di Richard Bachman, inventandogli una vita dettagliata e chiamandolo così in onore di Donald E. Westlake, autore di romanzi gialli che a sua volta scrisse sotto il nome di Richard Stark. Bachman ebbe una falsa immagine di copertina, una dolente biografia e una carriera discreta, finché l’impiegato di una libreria, Steve Brown, sospettando che i due fossero la stessa persona, si recò alla Library Of Congress e trovò nei registri delle pubblicazioni che un libro di Bachman era stato registrato a nome di Stephen King. Da quel momento, Bachman muore per “cancro dello pseudonimo”. Accade la stessa cosa anche a J.K.Rowling, che viene scoperta quasi subito, neanche il tempo di inventare una biografia al suo Robert Galbraith, giallista.
Marketing? Le copie vendute di Bachman e Galbraith  sono state trascurabilissime, fino alla rivelazione. Quale operazione di marketing, di grazia, compie uno scrittore senza volto, possibilità di presentazioni, ospitate televisive? Quale marketing offre l’invisibilità? Chi sostiene che l’invisibilità porti attenzione mente. Sono i testi a funzionare, quando funzionano, non l’invisibilità.
Anche io, come ognun sa, ho usato un eteronimo. Per non avere il sia pur piccolo peso di un altro nome, come detto infinite volte. Ma ogni volta che nasce un eteronimo, gli altri si chiedono perché, e continuano a farlo. Perché? Rispondo per me: perché non mi interessava la visibilità che avrebbe avuto un romanzo col mio nome (basta guardare l’elenco delle recensioni dell’ortonima e dell’eteronima, e confrontarle, e il numero di copie vendute dell’una e dell’altra), ma essere una dei tanti esordienti che passa e va, lasciando tracce minime, e che prosegue comunque. Perché se avessi pubblicato con il mio nome, una lettura imparziale sarebbe stata impossibile: o almeno io avrei continuato a pensare di aver ricevuto lodi per compiacenza o stroncature per pregiudizio.
Non conta. Non importa. Il nome è importante, e nessuno viene perdonato per averne usato uno che non è il proprio, e di essere stato un altro se stesso con le persone con cui veniva in contatto. Nella prefazione a Uscita per l’inferno, Stephen King si rivolge ai suoi lettori. Che si sono ribellati. Che si sono sentiti ingannati. Usati per un gioco da scrittori. Ecco, dice, non ho ucciso nessuno. E non era affatto un gioco.
Non lo era per Romain Gary. Gary pubblica Formiche di Stalingrado nel 1945 adottando uno pseudonimo invece del vero nome, Roman Kacew. Gary scrive e scrive e vince il premio Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo, sposa un’attrice, una donna bellissima. Si chiama Jean Seberg. Arriviamo al 1973. Gary inventa Emile Ajar. E’ lui, e non è lui al tempo stesso. Al medesimo modo in cui, quando dipingi un falso Vermeer, sei molto più Vermeer che Van Meegeren che fu il suo falsario più grande. Quando si crea un eteronimo, si è sinceramente altro da quel che si è stati, e allo stesso tempo si è se stessi, ma una parte di se stessi cui non si è mai dato ascolto, o che si è seppellita. Ajar cerca una vita migliore, è un avventuriero, un assassino sia pure per caso. Nel male, ma ha avuto tutto quel che a Gary è mancato. La libertà della solitudine, per esempio. Gary finge che i manoscritti gli arrivino dal Brasile, ma è suo cugino Paul Pavlowitch a spedirglieli e a fingere di essere Ajar al telefono. Il romanzo di Ajar, che in realtà è di Gary, è un successo Ajar scrive, dunque, e scrive ancora, quattro romanzi, e vince anche lui il Prix Goncourt nel 1975. Ma come spesso avviene quando il successo arride, i cani diventano irrequieti. Giornalisti e soprattutto colleghi sospettano, accusano Gary. Lui smentisce. Viene incalzato. Ma tace. Perché tace? Poteva rivendicare con orgoglio di aver scritto, scritto bene e senza il peso del suo nome. Non era un inganno, era un nuovo inizio. Ma non vogliono capirlo. La moglie di Gary, Jean Seberg, si uccide. Dopo poco tempo, Gary scrive la sua confessione finale, Vita e morte di Emile Ajar, e si spara in bocca. Un messaggio bellissimo. “Mi sono divertito un mondo. Grazie, e arrivederci”.
Anche Alice Sheldon si suicida a settantun anni. Scriveva meravigliose storie di fantascienza firmandosi James Tiptree jr. e ritardando, e difendendo a lungo, la rivelazione della sua identità femminile, e addirittura rifiutando il premio Nebula nel 1974 perché le motivazioni per la segnalazione al premio (la storia era Le donne invisibili) dicevano che anche un uomo poteva mostrare empatia con il femminile. Alice era una donna, e comunque aveva già vinto il Nebula con Amore è il piano, e il piano è morte e aveva vinto pure il premio Hugo con La ragazza collegata. Infine, il gioco crolla, e si scopre che l’uomo fragile e timido con un cappello di paglia, l’uomo la cui biografia dice che ha vissuto in paesi esotici, che ha combattuto nell’esercito, che scrive a macchina con un nastro blu, è una donna. Quella donna si uccide.
Non era un gioco. Non lo è stato per me, che certo non ho avuto il successo di Elena Ferrante, e sono sicura che non lo sia per lei. L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. E in otto anni hanno continuato a saperlo: leggete Morgana-Il corpo della madre per capirlo. E, certo, non solo per questo.

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