IL DISCORSO DI GIULI E L’ANALFABETISMO DI RITORNO

Da ieri mattina provo (quasi invano) a sostenere l’insensatezza dell’ondata di sghignazzo (tutt’altro che intelligente, come lo intendeva Dario Fo) seguito al discorso programmatico del ministro della Cultura Giuli. Si badi bene: nessuna critica (o rarissime) ai contenuti, un grande spanciarsi sul linguaggio. Inevitabilmente, si cita Amici miei (che, con il rispetto da tributare al capolavoro che è, viene svuotato di contenuti quando si riduce alla parola supercazzola). Inevitabilmente, si accusa chi si stupisce, nell’ordine: di difendere Giuli e questo governo (naturalmente il fatto che da quando si è insediato chi scrive non ha fatto altro che scrivere contro questo governo, cosa che gran parte degli accusatori si guarda bene del fare. Se non con i meme); di essere una “intellettualprogressista” da strapazzo e arrogante perché bisogna parlare chiaro per farsi capire.
Cosa che è ovvia.
Ma quello che non mi riesce di far capire è che non solo non difendo Giuli, ma che me ne infischio di Giuli, almeno finché non farà qualcosa. Sarebbe il caso, per chi lavora con i libri o nel mondo culturale, di presidiare il territorio, di intervenire sul punto, visto che di punti, dall’intervento sull’editoria o, come scriveva Nicola Lagioia, alle politiche inesistenti del governo sul mondo del libro, ce ne sarebbero parecchi.
Quello di cui non mi infischio è che un discorso non particolarmente oscuro o difficile viene salutato come il manoscritto Voynich, che come è noto è quanto di più enigmatico esista al mondo. Giuli ha citato, più o meno apertamente, Hegel, Miguel Benasayag, Gérard Schmit, Umberto Eco. Ovviamente non è la citazione che rende efficace un discorso, e ci mancherebbe. Ma anche non riconoscendo i citati (eppure gli apocalittici e integrati, magari, dovremmo conoscerli tutti), giudicarlo criptico è sorprendente.
Certo, sei un’intellettuale che coltiva l’orticello suo e non pensa alla gente, mi si dice. Col cavolo. Sono una donna che si preoccupa moltissimo della perdita di parole che stiamo subendo.
Ben quattordici anni fa Tullio De Mauro ci disse che cinque italiani su cento fra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera o una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta. Trentatre non riescono a leggere un testo scritto che “riguardi fatti collettivi”. Un quotidiano, per esempio. Solo il 20 per cento degli italiani, secondo De Mauro (che a sua volta si riferisce a studi internazionali) possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura e scrittura per orientarsi nella società.
Quattordici anni dopo, ho la sensazione che le cose siano enormemente peggiorate.
Qualche mese fa, uscirono articoli in cui si chiedeva a Elly Schlein di adeguarsi al linguaggio degli elettori: la stessa cosa che, non ovunque, si chiede agli scrittori per venire incontro alla diminuita capacità di comprensione di chi li leggerà, perché, insomma, è tempo di farla facile. Forse, allora, bisognerebbe chiedersi invece se questo processo vada sempre e comunque sostenuto: volendo guardare al passato – cosa che non si dovrebbe fare, lo so – il procedimento era, a grandi linee, l’esatto contrario, e si provava comunque ad alzare la famigerata asticella, magari un passo alla volta. Facciamo un esempio: mi è capitato di rivedere, in tempi non lontani, su YouTube, Allacciate le cinture di sicurezza (1987) di Solenghi-Marchesini-Lopez. Era uno spettacolo popolare ma coltissimo. Perché per ridere (e si rideva tanto) bisognava: sapere che all’inizio il Trio fa il verso a Ronconi (Anna Marchesini è una Marisa Fabbri impeccabile), che proseguendo è una parodia esilarante non solo del Giardino dei ciliegi, ma del modo in cui Strehler lo mise in scena. Conoscere il vaudeville. Conoscere il gotico. Avere, insomma, centinaia di riferimenti culturali. Si chiamava, appunto, alzare l’asticella, senza forzature.
Spero sia evidente che il problema non sta nella parola “infosfera” pronunciata da Giuli. Il problema sta nel fatto che molti non la capiscono. Questo è il punto e non altri: altrimenti, care e cari, non dovremmo emettere un solo lamento davanti a una classe politica che parla grugnendo, o ingollando bocconi di mortadella. State bene.

 

7 pensieri su “IL DISCORSO DI GIULI E L’ANALFABETISMO DI RITORNO

  1. Confesso di avere sghignazzato anch’io, all’inizio. Poi l’ho riascoltato… Non mi è piaciuto il neologismo, avrei usato altri termini (pessimismo apocalittico?) ma, al di là delle mie preferenze personali, quindi irrilevanti, restano i temi di fondo così ben analizzati da lei in questo articolo. È un mondo triste, per parafrasare il ministro, quello in cui ci tocca vivere. Un mondo di barbarie. Grazie, comunque, per le sue parole.

  2. Sono due giorni che rintuzzo a destra e a manca le canzonature al discorso di Giuli, che, al di là del linguaggio sicuramente un filo troppo ricercato, ha espresso un concetto largamente condivisibile. ora vediamo i fatti!

  3. Personalmente penso che sia stato solo un maldestro modo di dimostrare, con inutile tracotanza, il proprio livello culturale. Come se volesse dimostrare di essere all’altezza del suo ruolo. Ma lui é un Ministro, deve dimostrare di essere all’altezza di chi rappresenta, e non con discorsi, anche concettualmente scontati, di cui verranno ricordati solo l’uso inusuale di termini e costrutti.

  4. Un’intonazione monotòna, rende il discorso incomprensibile.
    Se lo è preparato, ma poi lo ha letto come l’elenco della spesa.
    E’ vero che “apocalittismo“ è già stato usato da Bobbio, ma Bobbio lo ha messo tra virgolette nel suo scritto, non lo ha biascicato.
    Il discorso se ascoltato è incomprensibile, solo leggendolo acquista un significato. E Lei lo conferma citando Tullio De Mauro che parla di comprensione di uno scritto, non di un parlato. E la ciliegina, è stata inserire Pitagora tra i grandi italiani, che per uno che vuole filosofeggiare….

  5. hahahahahahahaha un ministro di cinquant’anni che parla come un tardoadolescente neodiplomato al classico che ancora non ha capito come funziona il mondo, come Hegel sia morto da duecento anni e fosse un danno per le menti già al tempo in cui era in vita e che il linguaggio tecnico lo si usa solo nei contesti tecnici.

    “Chi sa di essere profondo, si sforza di esser chiaro. Chi vorrebbe sembrare profondo alla moltitudine, si sforza di esser oscuro. Infatti la folla ritiene profondo tutto quel di cui non riesce a vedere il fondo: è tanto timorosa e scende tanto mal volentieri nell’acqua!”

    Benvenuto fra la folla, Capra

  6. Dissento totalmente. Anni ’70 inizio ’80; il sottoscritto era adolescente però non disdegnavo di sentire le “tribune politiche” condotte da Jacobelli. I politici di allora erano sicuramente di altro calibro rispetto oggi, inutile negarlo ma, pur essendo giovanissimo e credendo di aver maggiore comprensione oggi, non ricordo di aver mai sentito qualcosa di così enigmatico e difficile da capire, almeno in prima battuta, tanto da farmi pensare che… il nome del “l’arcano incantatore” sia Giuli. Se parla come mangia, non oso pensare alla sua tavola imbandita.
    “La demagogia è la capacità di vestire le idee minori con parole maggiori.”

  7. Ormai se non parli come se fossi su tiktok sei un intellettuale assurdo e incomprensibile. Un discorso normalissimo per una persona di cultura, che non sta parlando al bar ma sta presentando le linee guida per il dicastero in parlamento. Il fatto è che è l’intervento è uscito dal parlamento e le persone comuni l’han pensato rivolto al popolo. ma così non è. Se avesse parlato alla cittadinanza avrebbe usato un altro registro, in un contesto ufficiale ha usato un registro forbito esprimendo concetti che in molti non conoscono ma che, se ti occupi di cultura, dovresti.

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