“In fin dei conti il drago è un predatore di ricchezze altrui, orrendo straniero nelle parole del poema, e inoltre sappiamo bene che i legittimi custodi dei tesori medesimi possono a loro volta diventare draghi comunque, come ci insegna la parabola di Thorin Scudo di Quercia”.
Così Edoardo Rialti nel suo discorso di accettazione del Drago d’oro per la traduzione a Dozza, poche settimane fa. Mi rivolgo alle parole delle storie perché non ne ho altre, e troppe ne verranno dette e scritte in queste ore. Non sono un’americanista, non ho le giuste competenze, e dire la mia conta come uno starnuto in una tempesta.
Però qualche sensazione posso condividerla, evidentemente a proposito della rielezione di Trump.
Certo che contano l’insensibilità e l’indifferenza della sinistra (?) o comunque della parte sconfitta verso tutte le questioni urgenti: povertà, mancanza di assistenza sanitaria, disuguaglianza sempre più marcata. Tristezza e solitudine, anche.
Certo che opporre al cosiddetto volgo il consenso di star e intellettuali è poca cosa e anzi rimarca quella disuguaglianza.
Tutto quello che volete, ma a me resta un dubbio.
Davvero chi ha votato Trump, come chi ha votato Meloni in Italia, pensa di ottenere una vita migliore alzando muri contro l’immigrazione e illudendosi di pagare meno tasse e avendo certezza di maneggiare più armi?
Perché a me continua a sembrare questo il punto: che cosa vogliono i votanti di destra per le proprie vite?
Ripesco un vecchio intervento di Girolamo De Michele (era il 2007):
” la paura non è più la risposta politica alla domanda di sicurezza, ma la situazione entro la quale viene contrattato un nuovo scambio sociale. Non la fuoriuscita dall’aperto indefinito verso il rifugio rassicurante, ma il permanere indefinitamente all’interno del Villaggio Globale pervaso dall’impazzimento sociale, ossia dalla paura senza oggetto. Lo scopo dell’offerta politica diventa non la rassicurazione, ma la proposta di un oggetto sul quale riterritorializzare la propria angoscia. È evidente che in questo nuovo paradigma ogni oggetto può essere reintrodotto nello scambio sociale: la mistica del suolo e del sangue, lo Stato nazionale, le piccole patrie, i piccoli e grandi uomini forti. L’intera sfera biopolitica è soggetta ad attraversamenti, segmentazioni, limitazioni (il baratto tra sicurezza e minore libertà negli stessi stati «democratici»).”
Poi, certo, c’è il fatto che votare una donna come presidente degli Stati Uniti è ancora difficile. E non perché le donne abbiano votato come volevano i mariti, ma perché in non pochi casi sono le prime a non volere che una donna abbia un ruolo di primo piano.
Poi, certo, c’è la questione di come le donne di potere gestiscono il potere.
E qui occorrerebbe frugare nelle biblioteche e recuperare un libro del 2009, La donna a una dimensione della filosofa inglese Nina Power. In parole molto povere, Power parlava di come la narrazione popolare avesse trasformato il femminismo in tendenza alla moda, che “crede di dover lusingare il capitale per poter vendere con maggiore efficacia il proprio prodotto”: sempre in parole povere, quel tipo di femminismo, quello del “purché sia donna”, era entrato a far parte dei meccanismi di controllo sociali, “rappresentando un ostacolo a una vera critica del lavoro, del sesso e della politica. Quello che ha le apparenze dell’emancipazione, nasconde un’ulteriore stretta della catena”, con la stessa “blandizie” di cui parlava Michel Foucault. Potere, tacchi a spillo, privilegi, ricchezza, vite performanti, avventure notturne, tailleur firmati, divertimento forzato, ansia da prestazione. Sex and the City, certo: un mondo dove le donne sarebbero potenti come gli uomini perché in grado di licenziare un subordinato con lo stesso cinismo, di usare una carta Amex nera e di consumare sesso in una maniera considerata maschile. Non si parlava di scelte individuali, o indotte da una determinata condizione sociale (essere molto ricche a Manhattan): ma di identificazione in un genere sessuale. Una donna che agisce come un uomo.
Non c’è da stupirsi se la rappresentanza, allora, aveva le sembianze di Sarah Palin, Condoleeza Rice e, sempre lei, Christine Lagarde. Non esattamente l’incarnazione di una politica diversa. Bisognerebbe, scriveva allora Nina Power, smettere di desiderare “un’esca democratica”, la donna-emblema nei luoghi di potere, ma agire sul piano della rappresentazione prima ancora che della rappresentanza. Rovesciare il tavolo, come diceva Ursula Le Guin, invece di twittare gioiose perché, guarda, al potere c’è una donna (poi ci sarebbe la faccenda dei poteri buoni che non esistono, come cantava Fabrizio De Andrè: ma arriviamoci per gradi). (se ci arriviamo).