ALLA FIN DELLA FIERA

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218 pensieri su “ALLA FIN DELLA FIERA

  1. Ieri nelle mie letture sistematiche sono arrivato alla lettera M e ho scovato in biblioteca un saggio che si intitola “Infanzia e genio – alle radici del talento individuale” di un autore giapponese Masayoshy Kiemon. Dice l’autore a pag. 98 dell’edizione originale “[…] molti raffigurano il cervello degli artisti come un immenso campo sinaptico capace di captare ogni segnale esterno, ma non è così, l’artista, il genio celebrato, ha ridotto il campo sinaptico fino ad ottenere poche sicure porte che fanno correre l’impulso esterno su altrettante poche sicure strade dell’immaginazione: togliere stimoli, non aggiungerli è il segreto del genio”.
    Non arrabbiatevi con me però, io riporto solo letteralmente il pensiero di questo studioso che alla fin fine ci dice che un artista può essere molto più limitato di un semplice mortale.

  2. CREATIVITA’ E FOLLIA COSTITUISCONO UN BINOMIO CLASSICO: LE OSSESSIONI DI SCHOPENHAUER, LE MANIE DI SCHUMANN, LE ALLUCINAZIONI DI VAN GOGH…
    Di Caterina Varzi – Tutto Scienze – LA STAMPA Mercoledì 5 giugno 2002
    L’IDEA della prossimità, o dell’apparentamento, del genio e della follia è un’idea antica. Ci è arrivata come un luogo comune attraverso i secoli, trovando una certa validità e conferma in biografie ed autobiografie di uomini illustri. Schumann riceveva visite dagli angeli, Schopenhauer visse nell’ossessione di complotti perpetrati dai suoi nemici, Kafka era un nevrotico ossessivo, Rimbaud soffriva di allucinazioni, Beethoven e Ghoethe di nevrosi depressiva. L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Personalità di grande talento hanno trovato modo di esprimersi nelle arti, procedendo sul filo della follia.
    E’ la follia all’origine del genio, o il genio per manifestarsi deve avere il sopravvento su di essa? In che modo genio e follia sono intimamente legati?
    Qualsiasi tentativo di comprendere il problema delle malattie mentali e dei loro rapporti con l’esaltazione creativa non può che rimanere tale. E’ questo anche il punto di vista adottato da Carl Jaspers in “Genio e follia” apparso per la prima volta nel 1992 e ripubblicato recentemente da Raffaello Cortina. Jaspers si propone di capire perché la follia e l’arte nella loro espressione massima coincidono. Così, ripercorrendo i momenti in cui la malattia penetra nella vita dell’artista fino a trasfigurarne l’0pera, ci offre un ricco materiale biografico da cui risulta come Strindberg e Swedenborg, Wan Gogh e Holderlin hanno vissuto la loro follia.
    Strindberg sapeva di essere malato di mente. Nell’”Arringa di un pazzo” scrive:” Cominciai a soffrire di questa misteriosa affezione in seguito ad una visita nel laboratorio di un mio vecchio amico, dove mi sono procurato un rossetto di cianuro di potassio, destinato a darmi la morte”. Sebbene la vita del drammaturgo fosse intessuta di elementi che attestano una coincidenza tra il più alto sviluppo creativo e la patologia, è sconcertante che questi elementi più che un disfacimento psicologico ed emotivo, conducano a una trasformazione del suo modo di interpretare e valutare l’esistenza, incomprensibile attraverso le nostre comuni esperienze.
    Questa constatazione induce Jaspers a introdurre, rispetto all’opinione tradizionale, una nuova visione della schizofrenia. Mentre le altre malattie dovute ad un disordine cerebrale “agiscono sulla vita psichica come una marmellata che centra un meccanismo di un orologio distruggendolo”, i processi schizofrenici “producono un’intricata modificazione del meccanismo: l’orologio continua a funzionare, ma in modo imprevedibile”.
    Si direbbe che una grande intelligenza al servizio di quella forza virulenta, che è la follia, possa neutralizzarne gli effetti devastanti.
    E’ sorprendente come gli evochi la tensione straordinaria che caratterizza lo stadio iniziale del processo. Molti schizofrenici sono dominati da situazioni che minacciano di dilaniare la personalità, perché costretti a vivere senza sosta nell’imminenza della fine.Eppure essi non si abbandonano, nonostante la tensione per non precipitare nelle tenebre dell’insensatezza sia molto forte.
    Nel momento in cui la dinamica patologica ha inizio, appare nell’opera un cambiamento, che vi apporta qualcosa di unico e straordinario. Ciò succede perché artisti di grande genio sono capaci di innalzare la malattia a un senso supremo, di congiungerla pienamente alla propria esistenza spirituale, di dominarla “per” e “con” l’arte.
    In realtà, la dimensione demoniaca, la tendenza a misurarsi con l’assoluto, si pongono al di fuori della psicosi. Ma tutto accade come se il demone liberatore, che nell’uomo sano è frenato, riuscisse a sfondare, per consentire alle profondità dell’anima di rivelarsi. Lo smarrimento si sottrae ai travestimenti e alla menzogna della vita, diventando il momento della verità: espressione artistica. E là dove c’è una ricchezza spirituale, la follia può consentire all’arte di approdare alle vette più alte.
    Le patologie, presunte o confermate, non riescono a spiegarci né la vita né l’opera di un artista. Il genio lo si constata, non lo si spiega. Non ci sono cause ed effetti, le une e le altre si raccolgono nella simultaneità dell’opera che è la formula eterna di quello che l’artista ha voluto essere e ha voluto esprimere. Da questo punto di vista, l’analisi di Jaspers è più che esplicita: “Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, […] può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita”.

  3. Scrive il giovane Roquentin (mettendo subito in pratica quel “diritto di contraddirsi” che suggeriva ieri):
    «Angelini: io non mi sono spacciato per geniale, MAI. Adesso, per favore, mi dici dove e quando oppure fai la figura dello stronzo… »
    E poco più giu:
    «Se prosegui, sappi che non ti leggerò.»
    Che fare? Tacere? … farei la figura dello stronzo.
    Proseguire? Ma se proseguo non mi legge. Insomma una nuova tragedia per un uomo in cui, con GENIALE intuizione, ha già intravisto la tragedia complessiva.
    Per quanto mi riguarda, invece, io trovo Roquentin abbastanza comico, soprattutto quando si prende sul serio e insulta stizzosamente quelli che non ne sposano i geniali input.
    Nell’intervento che mi precede leggo: “Il genio non si spiega, si constata”. Invece Roquentin lo spiega eccome: con la “teoria degli stimoli”! Più geniale di così?
    Sappiamo tutti che Musa, Ispirazione, Sacro Fuoco, Genialità, Talento, Vocazione, Attitudine per… sono termini di comodo per indicare qualcosa che si constata, ma della cui origine non si è ancora riusciti a dare una spiegazione soddisfacente. La pecora Dolly è stata clonata. Giacomo Leopardi, invece, ancora no. In compenso se ne sono riprodotte le opere, quelle opere evidentemente frutto di una ben calibrata stimolazione infantile.
    Roquentin è liberissimo di sostenere che il genio non ha nulla a che vedere con la particolare e IRRIPETIBILE combinazione genetica che ciascuno di noi è, bensì solo con gli stimoli ricevuti tra 0 e 3 anni.
    Io altrettanto libero di pensare al talento come a una fortunata combinazione di biochimica di partenza (a sua volta frutto di un irripetibile incrocio di millenarie catene genetiche)
    ed esperienza. Tutto qua.
    Se Wu Ming si sente più democratico a sostenere che nasciamo TUTTI UGUALI, con gli stessi DONI di partenza, anzi: SENZA NESSUN DONO! perché sulla tabula rasa di ciascuno di noi sono gli stimoli SUCCESSIVI ALLA NASCITA a costruire poi le varie abilità, io mi sento più realista a ripetere che la biodiversità esiste anche nei suoi risvolti individuali. Senza, peraltro, sottovalutare minimamente il GRANDE PESO che, sulle attitudini strutturali di ciascuno, hanno le concrete esperienze e interazioni col reale.

  4. Dopo tanta dimostrazione, il mondo capirà finalmente con chi ha che fare: niente POPO’ di meno che il grande Carlo Melloni, l’uomo che esiste veramente, la leggenda del suo pianerottolo.

  5. Dell’altro genio, il Carlo Melloni, non mette nemmeno conto parlare. Dice: «La “base” di intelligenza e sensibilità non è una cosa il cui sviluppo si possa prevedere o PREDETERMINARE.»
    È esattamente quello che sostengo io:-/

  6. Infatti io l’ho scritto per farti capire che stavi (e stai) attribuendo agli interlocutori posizioni non loro (cioè che chi dà gli stimoli sappia perfettamente quel che sta facendo, che il talento possa essere progettato etc.), ma evidentemente è inutile, perché tu non leggi, tu scorri il testo altrui in fretta e furia, in attesa spasdomica di scrivere a tua volta, per poter avere l’ultima parola e dimostrare che esisti. E allora io te la lascio, l’ultima parola, per dimostrare che NON esisti.
    Scrivi pure, adesso.

  7. Chiedo scusa se intervengo (pure in ritardo) sulla questione del * talento *, sono ‘gnurant e forse non dovrei neanche parlare. Ma dopo quanto avete deeeetto io non posso più stare ziiitto (pardon, Bennato mi ha preso la mano).
    Perché è così seccante per qualcuno ammettere che il talento esiste? Perché sostengono che chi non riesce ad esprimere a parole quello che *sente*, non si sta applicando con metodo e perseveranza, ar-ti-gia-nal-men-te?
    Serve eccome, lavorare duramente, ma solo per rappresentare, esternare, presentare, sbozzare quello che hai già in testa. Da piccola divoravo i libri in un giorno, tanto che la maestra mi accusava di essere una bugiarda perché non ci credeva, e allora? Se mi sforzo di mettere in pratica la mia voracità di allora, e mi ci metto per sedici ore al giorno, posso aspirare a scrivere I fratelli Karamazov, o piuttosto un romanzo dignitoso, che verrà rifiutato o accettato dagli editori a seconda di come si svegliano la mattina? Non stiamo parlando di gradi intermedi, ma di TALENTO.
    Una lettrice

  8. E chi ha mai detto che il talento non esista?
    Solo che non è un assoluto, non è un “dono” che ti arriva tutto e subito, in una bella scatola col fiocco, in un imprecisato momento tra l’entrata dello spermatozoo fortunato e l’inizio della fase di espulsione del bimbo.
    E’ un processo lento e complesso di coltivazione della curiosità, di scoperta del mondo, di apprendimento, di educazione, di auto-educazione.

  9. Non sono d’accordo. Il talento a mio avviso a qualcosa a che vedere con l’evoluzione: una sorta di accumulo costante, genetico, di stimoli, che si libera attraverso * scintille * non in rapporto di uno ad uno sulla base di esperienza, laboriosità ed apprendimento, ma di uno a centomila, o un milione (di esseri umani). Fortunatamente l’ha detto Jung, e quindi non posso essere tacciata di essere una visionaria o, peggio, negatrice dell’individualismo. Non sto affermando che non siamo tutti uguali, ma semplicemente che il genio è tutt’altra cosa dalle possibilità sacrosante che ciascuno di noi può e deve avere di entrare a far parte della cultura, della scienza, dell’arte, di scrivere e comunicare. È chiaro che nessuno nasce “imparato”: se non so usare un linguaggio comprensibile, se non possiedo sufficiente tecnica per liberare l’idea dalla sua forma istintiva, nebulosa ed indistinta e se non mi sforzo di trovare nuovi linguaggi quando quelli esistenti non me lo consentano, non vado da nessuna parte. Ma l’uomo che ha tracciato il primo graffito in una caverna non l’ha imparato da nessuno e probabilmente non era neanche un tipo curioso. Gli è venuto in mente, punto e basta. Vado ben oltre l’entrata dello spermatozoo, quindi, perché magari, vallo a sapere, il genio stava nel codice genetico della madre. 🙂

  10. artigianato e arte della scrittura. chiacchiere autoreferenziali, finchè non ci si pone il problema dell’artigianato (e magari un giorno dell’arte) della lettura. che parte non dal primo capoverso del romanzo, ma dalla scelta dello stesso. la scelta del lettore di oggi è quella di non leggere, oppure, nella migliore delle ipotesi, di leggere senza dover leggere a tutti i costi. colpa dell’editoria? della pseudo-critica che si ostina a considerare il pubblico una mandria di buoi incapaci di masticare qualcosa di più di un riassunto? colpa della televisione? è morto il romanzo? è morta l’intelligenza? o è morto il rispetto dell’intelligenza? ecco, io propendo per quest’ultima ipotesi. e sul banco degli imputati dovrebbero sedersi in molti, tra scrittori, editori, critici, e perchè no, lettori stessi. questi sono i temi. poi viene la distribuzione, l’artigianato o l’arte dello scrivere, ecc ecc.

  11. Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla suggestiva idea che lo scrittore fosse illuminato e, di conseguenza, custode di una verità che lo rendeva superiore ai propri simili.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla favola del narratore “sensibile ” come i suoi simili non lo sono e mai potranno esserlo.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla convinzione che il narratore abitasse nell’iperuranio quindi in una condizione dell’essere più elevata.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto all’assioma del narratore = creatura più “sensibile”.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto all’ingenuità del narratore sempre in volo oltre le “piccinerie” che affliggono l’umanità.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla fascinazione del narratore = pozzo di scienza.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla leggenda dell’onestà intellettuale del narratore che non confonde il suo bisogno di sentirsi l’ombelico del mondo con la materia da narrare.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla speranza che la cultura potesse avere una funzione liberatoria per l’umanità.
    Confesso, che la perdita dell’innocenza ha significato non cedere alle idee suggestive, alle favole, alle convinzioni, agli assiomi, alle ingenuità, alle fascinazioni, alle leggende, alle speranze.
    Confesso, che la perdita dell’innocenza non ha desertificato la mia anima.
    Confesso, che continuo a palpitare e guardare e aspettare e partecipare.
    Confesso, di non essermi mai considerata un’artista ma una semplice artigiana della scrittura.
    maddalena mongiò

  12. Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla suggestiva idea che lo scrittore fosse illuminato e, di conseguenza, custode di una verità che lo rendeva superiore ai propri simili.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla favola del narratore “sensibile ” come i suoi simili non lo sono e mai potranno esserlo.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla convinzione che il narratore abitasse nell’iperuranio quindi in una condizione dell’essere più elevata.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto all’assioma del narratore = creatura più “sensibile”.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto all’ingenuità del narratore sempre in volo oltre le “piccinerie” che affliggono l’umanità.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla fascinazione del narratore = pozzo di scienza.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla leggenda dell’onestà intellettuale del narratore che non confonde il suo bisogno di sentirsi l’ombelico del mondo con la materia da narrare.
    Confesso, di aver, per lungo tempo, ceduto alla speranza che la cultura potesse avere una funzione liberatoria per l’umanità.
    Confesso, che la perdita dell’innocenza ha significato non cedere alle idee suggestive, alle favole, alle convinzioni, agli assiomi, alle ingenuità, alle fascinazioni, alle leggende, alle speranze.
    Confesso, che la perdita dell’innocenza non ha desertificato la mia anima.
    Confesso, che continuo a palpitare e guardare e aspettare e partecipare.
    Confesso, di non essermi mai considerata un’artista ma una semplice artigiana della scrittura.
    maddalena mongiò

  13. Confesso? Essere semplici artigiani della scrittura non è una colpa. E’ un dato di fatto. E’ un’erbaccia che prospera nei campi mietuti dal mondo dell’editoria, che mira ad ammortizzare i costi delle rotative e che costringe chi cerca un messaggio, una verità, il senso in un libro (perché esistiamo ancora, noi poveri retrogradi illusi costretti a rileggere i “classici”) a buttar giù centinaia di pagine di frasi mozzate, di periodi che osservano la regola imposta dal mercato per cui meno subordinate ci sono e meno il cervello si sforza. Peccato che dopo essere scivolato sull’illusione di afferrare meglio e prima, chiudi il libro e ti chiedi: tutto qua? Sono io l’imbecille a non riconoscere ciò che tra cent’anni sarà considerato significativo quanto oggi l’Ulisse di Joyce? Posso ancora inchinarmi dinanzi alla superiorità degli scrittori illuminati, la cui grandezza sta nel possedere insieme la bravura del cesellatore e la capacità di scandagliare l’anima individuale e collettiva, o devo vergognarmi di non afferrare al volo certe verità da solo, visto che ho usufruito della scolarizzazione di massa? Ma sì, voglio scrivere un libro anch’io. Esisto. Ho il diritto di comunicare la tutti la sostenibilissima leggerezza dei miei limiti di artigiano.

  14. Scrive Wu Ming:
    “E chi ha mai detto che il talento non esista? Solo che non è un assoluto, non è un “dono” che ti arriva tutto e subito, in una bella scatola col fiocco, in un imprecisato momento tra l’entrata dello spermatozoo fortunato e l’inizio della fase di espulsione del bimbo.”
    Faccio notare che NESSUNO ha sostenuto questo. La mia posizione è sempre stata questa: il TALENTO è, si,
    un processo lento e complesso di coltivazione della curiosità, di scoperta del mondo, di apprendimento, di educazione, di auto-educazione, ma che si innestano su una particolarissima combinazione di fortunate circostanze vocazional-genetiche.
    Non è colpa mia se lui ragiona per AUT-AUT, o TUTTO o NIENTE eccetera.
    Quanto alla Mongiò: e chi ha mai detto che tu sei Lawrence Sterne?

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