La vostra eccetera sta mettendo carte e generi di prima necessità in uno zaino, per ritirarsi qualche giorno in vista della seconda e ultima stesura del libro.
Mi affaccio, non scompaio, resto in contatto (a proposito: ho pensato di inserirvi fra i ringraziamenti, caro commentarium. Mi avete fornito una marea di spunti e ve ne sono grata).
Intanto, vi lascio un regalino. Avevo accennato, un paio di mesi fa, all’intervista fatta a Francesco Piccolo per Mente e cervello. Ora ve ne posto una parte, come lettura per il week end. State sempre bene.
La tua esplorazione inizia dalla tv, fra gli spettatori di
Domenica In. Un pubblico che sembra fermo a trent’anni fa. Come è
possibile che ancora oggi si riscontri un’adesione così passiva ? Una platea
abituata ad offerte complesse, come E.R. o Lost, non dovrebbe
essere cresciuta sul piano qualitativo?
“Forse la risposta è dentro la domanda. Non è detto che
alla crescita della complessità corrisponda una crescita della qualità. In Lost
esistono cinquanta livelli di lettura, un vero e proprio acido narrativo. Ma
forse dobbiamo tornare a riflettere sul pregiudizio per cui se il mondo è più
complesso diventa automaticamente migliore. In secondo luogo, è venuto a
mancare un elemento importante. La televisione dei decenni passati aveva un
fortissimo indirizzo pedagogico: formava un’Italia pacata, ma la aiutava anche
a crescere. E dovevano crescere tutti, non solo i migliori. Tagliando la
pedagogia, non resta che la spensieratezza e un’idea crudele di
autoreferenzialità: prima gli spettatori erano più ignoranti e poco attrezzati,
ora sono meno ignoranti, più attrezzati, ma trattati malissimo. Con cinismo
veramente barbaro, quello che gli autori televisivi e gli stessi conduttori
fanno trapelare è il disprezzo. E’ come se dicessero: venite a vedere qualcosa
che mi fa schifo, così come mi fate schifo voi che la guardate. Ma dovete
guardarla perché l’ho inventata io. Tutto questo somiglia molto all’Italia:
dentro il livello di autopromozione televisivo, esiste il desiderio di creare
una differenziazione classista fra spettatori e attori”.
E anche fra spettatori e spettatori: come hai raccontato,
esistono alcune popolarissime trasmissioni che si fondano sulla messa in
ridicolo di altri programmi e del loro pubblico.
“Quella a cui assistiamo è la nascita di un’illusione
potentissima: quella dell’intelligenza. Mentre, fra il pubblico di Domenica
In, assistevo allo sbeffeggiamento dell’Isola dei famosi, mi sono
chiesto: ma cosa conta nella vita, cogliere il congiuntivo mancato di una
persona o imparare ad amarla? Invece, programmi come quelli della Gialappa’s
band, Striscia la notizia, Le iene, ci dicono che per sentirsi
migliori bisogna cogliere in fallo qualcun altro. E che chi lo fa, e chi
guarda, è automaticamente più intelligente degli altri. Sarà paradossale, ma
queste trasmissioni mi fanno provare compassione verso i ladri. Sento pietà per
l’impiegato delle poste che viene filmato mentre ruba un euro: perché va
condannato, certo, ma non da milioni di persone fomentate da una violenza
fascista, da una diabolica autoindulgenza narcisistica per cui, se passo le
serate davanti alla televisione e scopro che un calciatore non sa parlare, mi
sento più forte. Questa è la parte più pericolosa e condannabile della
televisione: e corrisponde alla parte pseudointellettuale del paese”.
Nonché ad un vizio antico. Perché gli italiani vogliono
sentirsi più furbi degli altri?
“Flaiano lo aveva capito benissimo. Perché questa è
l’anima profonda dell’Italia. Perché gli italiani non hanno voglia sentirsi
responsabili di quel che è avvenuto negli ultimi dieci anni. Dunque, ripetono
come un mantra: non mi riguarda, io sono intelligente, voto a sinistra, guardo
la televisione giusta. La colpa di quel che sta avvenendo nel mio paese ricade
sulla feccia che segue l’ altra televisione. Non è vero: ognuno di noi,
sia pure nella parte oscura di se stesso, aderisce a quegli stessi modelli. Lo
racconto nel capitolo dedicato a Natale a Miami: un film che, tra
l’altro, dimostra molto concretamente che l’Italia è ancora immobilizzata da un
muro invalicabile di maschilismo. Insomma, quando mi sono reso conto che tutta
la storia girava attorno al sesso, mi sono ricordato della famosa classifica di
Cuore, quella che chiedeva ai lettori la cosa per cui valesse la pena
vivere. Al primo posto c’era sempre la fica. E i lettori di Cuore erano,
per definizione, la parte intelligente dell’Italia. Dunque?”
Ma fra il pubblico dei programmi citati si verifica ancora
un altro fenomeno: si delega al conduttore di uno show un’idea malintesa
di giustizia e verità, gli si chiede di denunciare i crimini e di punirli.
Perché?
“E’ che gli italiani sembrano aver bisogno più di gogna
che di denuncia. E amano accarezzare l’idea del complotto ai loro danni perché
risponde alla stessa idea di deresponsabilizzazione: non mi devo sentir
colpevole della storia del mio paese, mi basta pensare che è stato tutto
concordato. Il complotto consola, ci conferma che se la storia collettiva viene
determinata in modo ineluttabile, possiamo anche non occuparmene. E che in
fondo neppure un voto è così importante”.
Questo schermo autoprotettivo si ritrova in molti punti
del tuo racconto. Per esempio, quando descrivi la signora che parla con il
marito attraverso il videofonino, e l’unico argomento del dialogo è la qualità
della visione. Mi ricorda quel che avviene nei saggi sportivi o scolastici dei
bambini: dove i genitori non guardano quel che accade perché sono concentrati a
filmarlo.
“Abbiamo un’idea fallimentare della memoria. E abbiamo il
problema-centrale- dell’esperienza. Se sostituisci altro all’esperienza,
non puoi averne memoria reale. Se elimini l’esperienza del saggio,
conservandone solo la memoria, elimini l’emozione: dunque, non ricordi il
saggio, e non riguardi nemmeno il filmato. Le case degli italiani sono piene di
film che non si rivedono: giustamente, perché non ti consentono di rivivere
emozioni che non hai vissuto. Questo, insieme ad una tensione per la felicità
divenuta ossessiva, è il dramma del mondo occidentale: eliminare quel che non funziona,
tagliare la scena del saggio dove il bambino inciampa, tornare con il massimo
dell’esperienza positiva dai viaggi sette-notti-otto-giorni. Quando scrivevo Allegro
occidentale sono andato in Australia, e mi è accaduto un fatto singolare.
Ho incontrato una coppia di Ravenna in viaggio di nozze: erano disperati,
perché l’acqua del mare, come avviene nella maggior parte delle coste
australiane, era marrone. Gli sposini non riuscivano a rassegnarsi: “lo stesso
colore dell’acqua di Ravenna. E adesso cosa facciamo vedere agli amici?”. Così,
affittarono un battello, andarono sulla barriera corallina e scattarono otto
rullini di fotografie all’acqua trasparente . Eliminarono la realtà, insomma. A
volte immagino che decine di coppie siano poi partite da Ravenna verso
l’Australia per cercare quella stessa acqua vista in foto: e che, non
trovandola, abbiano continuato a barare riportando immagini fasulle.
L’esperienza è conoscenza, ma l’esperienza negativa, ormai, non esiste più: ed
eliminando la noia, l’infelicità, la malinconia, perdiamo il nucleo stesso
dell’esistenza.
Il che ci porta a Mirabilandia e alla tua visita nel regno
dei bambini: e a tutti i genitori che, anche con questo gesto, intendono
eliminare per sempre ogni pur piccolissimo turbamento dalla vita dei figli.
Anche questo è uno dei problemi italiani?
“Non solo italiano. Ritrovandomi dentro questo enorme
luogo fisico dell’immaginario me ne sono reso conto. Una cosa sono le fiabe
raccontate, o viste al cinema e in televisione: una cosa è starci dentro. Una
cosa è crescere con Topolino, una cosa mangiarci insieme un hamburger. Da una
parte questo aspetto dell’esperienza è bellissimo, dall’altro è mostruoso e
frustrante. E in questo mondo impossibile ti rendi conto che stiamo
costruendo per i nostri figli un mondo senza traumi: ma la conoscenza
psicologica dell’Occidente si fonda sul trauma. Senza, si muore. Eppure, noi
continuiamo ostinatamente ad inseguire un’idea impossibile di felicità. Quando
ho raccontato l’Italia degli autogrill e degli esodi vacanzieri, mi sono reso
conto che, per quanto assurdo possa sembrare, esisteva un elemento di piacere
in chi faceva otto ore di fila per andare al mare: perché essere in fila
significava già essere al mare. Perché voleva dire staccarsi da casa:
essere, finalmente, fuori.
Ma, se questo è vero, significa che quell’idea di felicità
rappresentata dalla famiglia riunita davanti a Canzonissima non esiste
più: e che, anzi, bisogna fuggirne?
La famiglia è il luogo dove quanto più cresce l’amore,
tanto più cresce l’odio, a parità quasi matematica. Amare un figlio significa
ricattarlo col proprio amore: dunque, stare in quattro su un divano a guardare
la televisione è bello. Ma è anche mostruoso, sì.
Aggiungo una nota sulla cosiddetta esperienza dei concerti di massa: vent’anni fa ci si andava per ascoltare ballare sudare ammassarsi toccarsi baciarsi fumare e tutto ciò che sappiamo. Per esserci, insomma, per vivere l’esperienza piena, nel bene e nel male. Live, appunto.
Oggi… boh? Vai a un concerto e vedi che tutti si preoccupano di starsene, prima, con le mani alzate sopra le teste a scattare foto con i telefonini o le macchine digitali (i peggiori fanno riprese), poi, con le teste basse sul display a guardare le foto, mandare mms agli amici, e via dicendo.
Ma come fai a ballare sudare toccare se prima tieni le mani per aria, poi ti concentri sul display?
Crampi alle spalle e alla nuca tutto il tempo.
E al vicino? Pochi sguardi e qualche urlata nell’orecchio.
E quando dico concerti di massa non intendo robaccia per gente che guarda “L’isola dei famosi”, per carità, ma musica per giovani (e meno giovani) che la sanno lunghissima: dagli U2 ai Pearl Jam, fino agli Afterhours di casa nostra.
Non passerei, però, a dire semplicemente che l’esperienza live perde qualcosa (immediatezza? autenticità?) se ci si preoccupa della sua registrazione a futura memoria: a volte perde, sì, ma a volte ci guadagna, magari si raddoppia.
E’ un’esperienza diversa da prima, questo sì, ma questa diversità va indagata e capita.
Caro Francesco Piccolo,
Lei tratta in maniera complessa e approfondita un problema che infatti e’ tale: il rapporto fra desiderio di felicita’ e realta’. Ma forse non considera il fatto arcaico da cui il problema sorge e al quale il problema resta legato sin da quando l’uomo esiste: il rifiuto della violenza, del trauma, dell’imperfezione (noia, abitudine, conflittualita’ quotidiana, bruttezza estetica, eccetera) come unica possibilita’ della mente e dell’istinto di autoconservazione e miglioramento umano.
Infatti, l’Epoca Moderna, e la relativa trasformazione dei Popoli in masse che la caratterizza quintessenzialmente, andrebbe distinta da quanto esistito prima, sin da Adamo e Eva: e’ appunto questo l’aspetto che rende pazzo e delirante, omologato e industriale, seriale e plastificato, il desiderio di perfezione che noi vediamo, fra l’altro, nell’arte e nella poesia greco-romane.
E’ la fine delle piccole entita’ abitative, della polis e dei paesi, con la loro intimita’ e le loro tradizioni, ad aver prostituito tale naturale ricerca del ”bello totale, globale, armonico” e ad averlo inserito in un contesto globalizzato che non ha guida certa nell’epos e nei rapporti confidenziali tipici delle piccole comunita’.
La Civilta’ Occidentale, pertanto, si sta esaurendo per aver voluto aprire i propri confini naturali (fisici, mentali, psicologici, morali, religiosi, della fenomenologia quotidiana) a tutto un Mondo a noi sconosciuto.
Il risultato si chiama Gardaland e la famiglia – che io vedo piu’ positivamente delle Sue analisi imperniate sull’amore/odio – soggiace dunque a tale grigia omologazione da hot dog e tv. Un’americanata ci fara’ cessare d’essere europei, in conclusione: perche’ Gardaland e tutto questo continuo sottoporre alle leggi dell’economia le nostre leggi morali e sentimentali e’ piu’ propriamente un modus vivendi e cotitandi statunitense, piu’ che europeo o italiano.
Cordialmente
Sergio Sozi
L’intervista è interessantisima e in quanto operatore dei media temo di condividerla a fondo.
Anzi, credo che mi abbia aiutato a capire cosa detesto nella televisione ricciana: anche perchè poi posso aggiungere per esperienza personale la postilla “…da che pulpito…”
Trovo invece inquietante il commento del signor Sozi, che ancora si illude che in questo Paese esistano delle “leggi morali”, come tipica attitudine di questo periodo oscuro, dove ci si sente in dovere di appellarsi alla “morale”, specie se è possibile escludersi dal discorso stesso (naturalmente non mi riferisco al signor Sozi, che non conosco).
Personalmente ogni giorno che esco per strada vedo aggressività, spirito di sopraffazione (dal banale tentativo di sorpassarti in una coda in su).
E a volte i ragazzini cercano la telecamera per dire semplicemente, tutti gongolanti,”Italia Uno!”.
Di tutto ciò dar colpa agli Americani -che pure di colpe ne avranno, per carità- è un bel modo per risciacquare in Arno i panni della nostra coscienza di società, per creare una illusoria autoassoluzione e allocare -come tipico!- le nostre responsabilità al di fuori di noi stessi.
Cari saluti, e buon lavoro!
Egr. Sig. ”Nessuno”,
Lei non mi conosce, come ha precisato doverosamente. Allora posso anche dirLe che io non mi escludo affatto dalle leggi morali che personalmente tengo ben salde nella mia mente e nella mia quotidiana coscienza di cittadino italiano. La mia critica, inoltre, riguarda gli Italiani che hanno accettato le cose piu’ inaccettabili degli Statunitensi. Dunque e’ rivolta ad ambedue i Popoli.
Inoltre, preciso di considerare il nostro Paese meno brutale di quanto lo veda Lei. Ognuno vede quel che vuole, giusto?
Cordialmente
Sozi