Le Sirene sono quelle di Laura Pugno. Nicola La Gioia ne ha scritto sul Riformista: e assai bene. Leggere qui sotto.
Sirene, il cristallino e sensuale
romanzo di Laura Pugno uscito per L’Arcipelago Einaudi in questi giorni, oltre
a essere un libro molto bello ha il merito di sgretolare ulteriormente gli
equivoci che (più frutto di ignoranza che di malafede…) continuano da circa
quindici anni a sabotare il discorso sulla narrativa italiana delle ultime
generazioni. Normalmente mi tengo lontano dalla letteratura fantastica o dal
realismo magico, di solito un espediente per sgonfiare le vele della narrazione
con la bonaccia di una retorica consolatoria che nasce e muore sulle strade di
Macondo – o, peggio ancora, per rifugiarsi nelle ormai rassicuranti distopie
manichee degli epigoni di Orwell. L’incubo ecologico immaginato dalla Pugno per
Sirene non ha invece nulla di retorico o di rassicurante, e soprattutto
non usa i modelli preesistenti come una stampella ma fa della propria lingua
uno strumento per rifondare un immaginario che solo un Paese a cui è mancato
l’aggiornamento per gli anni Ottanta di Apocalittici e integrati può
considerare di secondo piano: quello dei manga e degli anime.
Sirene si svolge a Underwater, una città
immaginaria costruita sotto l’oceano per sfuggire ai raggi del sole, diventati
letali a causa del buco nell’ozono. Il tempo della narrazione è il classico
“futuro possibile”, dominato dalla terribile epidemia del cancro nero,
scatenata appunto dall’esposizione alla luce del giorno. Sotto l’egida della
yakuza – una sorta di mafia governativa e ipertecnologica che domina le coste
di Underwater – gli uomini scoprono l’esistenza delle sirene, ferocissime e
sensuali creature sottomarine che, ridotte in breve a un innocuo stato di
cattività, vengono utilizzate come carne da macello o come amanti nei bordelli
per oligarchi. Samuel, quadro mancato della yakuza e addetto alle vasche di
allevamento, è il Sam Lowry della situazione (vedi Brazil di Terry
Gilliam…), la rotellina che cerca di sabotare l’ingranaggio ingravidando
clandestinamente una bellissima sirena e poi cercando di restituire Mia, il
frutto dell’accoppiamento – forse il prototipo di una nuova specie – alle acque
dell’oceano.
Questa,
molto brevemente, la trama del romanzo. La cosa interessante sta però nel fatto
che l’intreccio è più che altro un mezzo per far parlare il contesto. Meglio,
l’intreccio si discioglie in una soluzione salina che consente a Underwater di
fiorire lentamente nella mente del lettore attraverso un sapiente gioco di
descrizioni, di digressioni, di rimandi capaci di far scattare la sospensione
di incredulità rispetto ai personaggi, alle loro vicende, al loro mondo, fusi
nei momenti migliori del libro in una specie di “tutto” sinestetico e coerente.
Ecco che seguiamo le avventure di Samuel e Mia braccati dagli sgherri della
yakuza, ma tutto questo mentre scopriamo la fisiologia delle sirene
(sentiamo il loro canto, condividiamo le loro abitudini alimentari, ci
addentriamo nell’oscura fascinazione della loro sessualità…), mentre sperimentiamo
il decorso del cancro nero (la progressiva degenerazione della pelle che si
dischiude su una sorta di candore primordiale che precede la morte nel più
straziante dei modi), mentre respiriamo chiaramente l’atmosfera da
dopobomba in cui la civiltà è precipitata. Avete presente i cartoni animati di
Miyazaki in cui non esiste sfondo, non esiste un vero e proprio apparato
scenografico semplicemente perché ogni elemento dello sfondo è vivo e
parlante, dotato di un particolare codice linguistico capace di incastrarsi
chimicamente con tutti quanti gli altri dando l’impressione che il cinema,
attraverso il movimento, si plachi nella sua antitesi: un perenne stato di
equilibrio? Ecco, in Sirene ho avuto l’impressione che stesse lì lì per
accadere qualcosa di simile.
A questo
punto qualcuno potrebbe chiedersi che c’entri tutto questo con la letteratura
italiana. E qui torniamo al punto di partenza. Quando qualche anno fa Tommaso
Pincio mandò in libreria Lo spazio sfinito e Un amore dell’altro
mondo, i suoi detrattori si domandarono piuttosto acidamente perché mai un
trentasettenne nato a Roma dovesse scrivere romanzi i cui protagonisti si
chiamavano Jack Kerouac, Arthur Miller, Marilyn Monroe oppure non si chiamavano
in alcun modo ma assomigliavano decisamente a Kurt Cobain. Nel 1996 Tiziano
Scarpa (non a caso estimatore di Sirene) aveva pubblicato Occhi sulla
graticola, altro pastiche e di manga e sperimentazione linguistica, che, al
pari dei suddetti romanzi di Pincio, fu una ventata d’aria fresca per la nostra
letteratura, che troppo frettolosamente (e comodamente) fu assimilato agli
esperimenti del Gruppo 63 e la cui stranezza era tale solo per chi non
aveva mai frequentato i modelli estetici rivisitati dall’autore, a differenza
della maggior parte dei suoi coetanei e di pochi brizzolati happy few, che
invece li conoscevano benissimo. Se questo presunto esotismo dell’estetica è un
problema (e, letterariamente, non lo è), lo si sarebbe dovuto sollevare nel
1981 con Il nome della rosa. Ci si sarebbe dovuto chiedere: che cosa
spinge un cinquantenne di Alessandria a raccontare il Medioevo come avrebbe
fatto Steven Spielberg se, tra Incontri ravvicinati ed E.T., si
fosse laureato alla Statale di Torino con una tesi su Tommaso d’Aquino? Fu
sollevato questo problema, ma era quello sbagliato. La domanda giusta sarebbe
stata: magnifica l’architettura in stile Disney, ma come mai i bulloni sembrano
usciti dall’Ansaldo? Perché Eco scrive come un professore. La lingua, la
lingua…
Il
problema è che, da qualche anno a questa parte, si chiede agli scrittori under
40 di essere uno specchio sociologico della propria generazione così come
questa emergerebbe dalla povertà dei resoconti giornalistici. E cioè bypassando
ciò che gli darebbe o toglierebbe dignità letteraria: vale a dire una lingua
personale e la rielaborazione del proprio immaginario. L’immaginario di chi è
nato in Italia tra i Sessanta e i Settanta è inevitabilmente stato contaminato,
tra le altre cose, dagli anime, i cartoni giapponesi – così come quella di
Godard dai gangster-movie made in USA, trasfigurati nel big bang della nouvelle
vague con Fino all’ultimo respiro. A loro volta gli anime – che, per
complessità, raffinatezza, livelli di lettura, splendono cento volte più della Fiamma
della regina Loana – rielaboravano in molti casi genialmente la grammatica
di certe narrazioni europee che facevano parte del background dei loro autori:
basti pensare alle saghe di “Lady Oscar” o di “Remì”. Non c’è nulla di strano
quindi che una scrittrice come Laura Pugno, che ha fatto della ricerca
linguistica un punto d’onore (basti pensare alla precedente raccolta di
racconti Sleepwalking e ai recenti poemetti de Il colore oro)
utilizzi la propria lingua, la propria personalissima metabolizzazione della
lingua italiana, per rifondare appunto un immaginario che già le appartiene.
Siamo davanti a una letteratura di secondo grado (altro assurdo argomento usato
dai giornalisti italiani per svalutare un’opera letteraria)? Certo, dal momento
che la prosa ha questa caratteristica nel proprio codice genetico, e questo non
solo per amore delle teorie che la vorrebbero parodia e surrogato dei testi
sacri ma perché – molto concretamente –
il romanzo moderno nasce esattamente in questo modo: chiedere a Miguel de
Cervantes.
Così per
Laura Pugno, da semplice lettore, mi auguro soltanto che porti in territori più
vasti e radicali la ricerca iniziata con questo breve romanzo. Per il resto –
se proprio un intento sociologico ce lo devo trovare – Sirene sarà utile
per capire se il provincialismo di molti addetti ai lavori è fermo ai livelli
di quindici anni fa.
Nicola
Lagioia
Per me Sirene curiosamente ha concretizzato tanti miei pistolotti sull’importanza della narrazione di Igort e del giappone. La Pugno non ha passato come Igort anni in giappone a lavorare in una grande casa editrice come la Kodansha, eppure è riuscita a fare suo in modo cristallino il loro modo universale, sentito e fantasioso di raccontare, e di cui Miyazaki è un po’ il simbolo (Nicola Lagioia giustamente lo considera uno dei più grandi registi di sempre), e aggiungerei un mangaka: il grande Osamu Tezuka.
la figura della sirena su cui ruota la narrazione è di una profondità straordinaria, ogni aspetto di queste sirene tocca le immagini più riposte e rimosse del lettore. E’ curioso, ma proprio questa invenzione della sirena, che è un’immagine fantastica, riesce a scuoterci più di una fotografia iperrealista delle cose. E così si torna indietro nel tempo, questa volta dentro la nostra tradizione occidentale, a immagini potentissime – faccio solo qualche esempio – come quelle di Hieronymus Bosch o il Francesco di Giotto o Il grande libro di Matthias Grünewald.
Lagioia, da bravo nipotino di Arbasino, ci regala questo affascinante pistolotto sulla sperimentazione linguistica e la contaminazione. Poveri noi, siamo ancora a questo punto! Ma quand’è che finalmente la letteratura italiana si affrancherà da queste fruste teorie e da questi personaggi fintamente “moderni” in realtà di assoluta retroguardia?
Il debito principale, come ammesso dalla Pugno stessa, è nei confronti di Rumiko Takahashi!
con recensori del calibro del La Gioia in giornata riportato in queste righe apparirebbe non scevra di fascino persino l’ultima fatica della Braccobaldoshow production(“cosa ne dice Bubu”.Vent’anni di recensioni dei cestini raccattati allo Yellowstone”.Con prefazione chirografata di gnamy yumi e Illustrazioni di madama dorè)
«Marco entrò nella stanza. A quel tempo le stanze erano fatte di palta perché cinque anni prima era accaduto che le ditte di costruzione (seguono sei righe di spiegazione al lettore). Marco si sedette e guardò Maria. Maria aveva i capelli viola. Si deve sapere infatti che due anni prima i parrucchieri del nord del mondo (seguono 5 righe di spiegazione al lettore). “Come stai?” disse Marco guardandola con sospetto. Dovete sapere infatti che dieci anni prima c’era stata un’esplosione nucleare e la faccia di Maria aveva subito una mutazione che (seguono nove righe di spiegazione per il lettore)»
E così via.
Il testo che precede, si badi, non è di Laura Pugno; trattasi di un’ardita sperimentazione del sottoscritto.
Ecco, è una mia opinione, non per forza condivisibile, ma secondo me il punto qui non è la lingua, cui allude Lagioia, ma la padronanza degli elementi narratologici.
Uno che scrive così (a meno che non lo faccia consapevolmente per disattendere le aspettative del lettore secondo una poetica dello straniamento che, mi pare, e pare anche a Lagioia a quanto leggo, quanto di più lontano da Laura Pugno), cioè che scrive con un così scarso controllo del plot, infarcendo il testo fin dalle prime righe di analessi didascaliche di particolari funzionali alla trama che non si sa come introdurre diversamente (quelle che sempre Lagioia, evidentemente generoso, chiama “sapiente gioco di digressioni, di rimandi”, ma pensa te), saturandolo di sommari di spiegazione ad usum cretini che strangolano pressoché tutte le scene, e prosegue con questo andazzo per decine di pagine fino a provocare l’ira del lettore (un lettore decisamente snob ed esigente, non lo nego) che vorrebbe scaraventare il libro peraltro dal tema così promettente anche se non esattamente originalissimo, secondo me, dicevo, e si scusi questa prosa smozzicata, ansiogena e così evidentemente greve (ma qui lo sappiamo, almeno), uno che scrive così lascia un grande interrogativo nel lettore di cui sopra circa le strategie imprenditoriali e artistiche del suo editore, o la scarsa vena del suo editor.
Poi, per carità, la lingua, la lingua batte un po’ dove vuole.
Mi chiedo se il libro lo avete letto, perché dopo la lettura è difficile sostenere che “Sirene” sia una cosa da poco. La Pugno fa continuamente centro con immagini, situazioni che toccano davvero l’immaginario più profondo, la zona delle “potenze oscure” se Kafka per voi non è superato. Guardate sono un lettore esigentissimo, se Sirene fosse una “mangata” lo avrei tirato nel bidone, invece lo ripeto sono 160 pagine che fanno centro continuamente, sorprendentemente, e utilizzando una narrazione “orientale” “giapponese”, ma soltanto perché là è rimasto quel gusto per il fantastico, per il sogno e anche per un linguaggio universale, che in occidente abbiamo perso per strada.
Sopra ho fatto il nome di Tezuka, perché in Giappone è considerato – e credo valga anche per Rumiko Takahashi – un padre del manga. Tezuka, come Miyazaki, è una specie di eroe nazionale.
“Sotto l’egida della yakuza – una sorta di mafia governativa e ipertecnologica che domina le coste di Underwater – gli uomini scoprono l’esistenza delle sirene, ferocissime e sensuali creature sottomarine che, ridotte in breve a un innocuo stato di cattività, vengono utilizzate come carne da macello o come amanti nei bordelli per oligarchi.”
Tutto così stereotipato da apparire quasi una presa in giro. Ad papocchiam, è davvero soprendente che in qualche modo c’entri Miyazaki e la sua poetica di favole e leggende con uno scenario da fantascianza dopodisastrosa come quello in cui è ambientato il romanzo. Non posso esprimere un parere su “Sirene”, ma certamente questa recenzione mi ha infastidito.
Lui e lei vogliono sposarsi. I genitori si oppongono. Che stereotipo… E’ Shakespeare.
In un castello è rinchiusa una ragazza che un cattivone vuole sposare contro la volontà di lei. Poi arriva uno che la vuole liberare. Che palle. Ma è “Lupin III” di Miyazaki.
Uno scrittore della domenica si vede continuamente rifiutare i propri manoscritti, e allora si vendica mandando post anonimi pieni di rabbia ai siti letterari. Originale! Siete voi. Leggetevi “Sirene”, fessacchiotti, è un bel libro.
Quoto. Prima leggere poi parlare. O straparlare.
Massimo, io “sirene” lo lessi, altri non so. E non ho nemmeno mandato manoscritti a nessuno, dato che di domenica non ho tempo di scrivere. Ammetto di essere però fessacchiotto, infatti l’ho pagato in contanti. Complimenti comunque per gli argomenti puntuti.
(barbieri, il punto che ho sottolineato non è di contenuto o di immaginario – che ammetto anzi essere interessante – è di costruzione. Non è facile passare da racconti a un romanzo, e a mio parere il limite si vede).
W bg.
Non avendo letto “sirene” debbo attenermi ai soli commenti e il suo è molto più divertente degli altri, Lagioia in primis.
Scusa Nautilus, ma non è meglio starsi zitti anzichè fare il commentatore dei commenti senza sapere di che si parla?
Cioè, dico, è un ruolo un pò triste quello dei viva e abbasso da stadio senza nemmeno sapere che partita si sta giocando…
Davvero, non pensi di essere un pò triste?
Loredana: la recensione l’ho letta, e parlavo di quella.
Massimo: l’argomentare “ad personam” dando del fessacchiotto agli altri non ti conferisce grande autorevolezza. Potrebbe addirittura far nascere la tentazione in qualcuno di farti adirare un pochettino.
Caro Massimo, ma certo che son triste ! E’ ben per questo che quando qualcuno mi fa ridere, come il bg, gli son grato e lo difendo contro i detrattori !
Tu sostieni che non si possono commentare i commenti ma solo l’opera di cui si parla ?
Può essere, chissà, però personalmente trovo che anche i vs. commenti siano letteratura ed essendo questo un blog letterario mi permetto di recensirli.
A volte son più interessanti i commenti di certi libri, ho scoperto.
Capisco che tu possa non essere d’accordo e trovare fastidiose queste intromissioni, ma fra il mio divertimento e il tuo fastidio…beh mi scuserai se scelgo il primo.
Ma c’è america’s cup, ti lascio, per ora.
Mah, qua mi sembra che ci arrampichiamo sugli specchi… Adryx dice che si riferiva alla recensione, ma cita non un pezzo con le opinioni di Lagioia, ma una parte in cui descrive la trama del libro, e la definisce stereotipata. Dice di non voler esprimere un parere su “Sirene”, che non ha letto, ma di fatto lo fa.
Bisogna anche dire che la recensione di Lagioia è un po’ pressapochista, la Yakuza non è certo stata inventata dalla Pugno per l’universo del suo romanzo, ma è il nome della mafia giapponese reale (e citatissima in moltissime opere nipponiche), ma comunque mi sembra che come al solito si stia sviluppando un dibattito di tifoserie più sui dettagli che sul contenuto
Scusate se mi intrometto, ma mi pare che ci siano soltanto due commentatori che hanno letto il libro, l’uno entusiasta, l’altro dubbioso: il resto è la recensione della recensione che contro-recensisce l’anti-recensione. Insomma, se La Gioia ha le scarpe slacciate o le unghie sporche, chi se ne frega: se proprio si deve parlare del suo dito, e non di cosa indica, che almeno lo si faccia in relazione con ciò che indica.
come sempre(tipico dei fessacchiotti,credo)mi appello al principio d’indeterminazione di Heinseberg,a parziale scusante del fatto che mi sono permesso di dire che la recensione mi sembrava un po enfatica,quasi melodrammatica,senza avere letto il libro.Comunque mi fido abbastanza di Barbieri e andrò con piacere a sentire La Gioia nel festival di architettura che si terrà a cagliari sabato(basta che non venga mai meno il diritto di dissentire anche parzialmente da qualsiasi posizione).Salud
p.s. il miglior incubo ecologico romanzato che mi è capitato tra le mani s’intitola “la regola del silenzio”,di Enzo Fileno Carabba (1994)
@ diamonds
G. Ballard, “Deserto d’acqua”
Nemmeno posso sommessamente riaffermare che questa recensione mi invita fortissimamente a _non_ leggere un libro che potrebbe invece piacermi? E d’altronde una recensione di quasi 1200 parole, quasi 6500 battute, merita una piccola metarecensione, no? 😉