“Nella prima parte dell’articolo (clicca qui) ho messo in discussione l’idea che i rom rubino i bambini italiani. La seconda parte insiste nella sua pretesa di paradossalità rispetto al senso comune. Non solo non sono i rom a rubare i bimbi italiani: sono gli italiani a rubare i bambini ai rom. Secondo alcune stime si possono contare 500 casi registrati negli ultimi venti anni. Una statistica più dettagliata è in corso d’opera presso una università veneta, ma ancora non se ne conoscono i risultati”.
Così comincia il secondo intervento di Alberto Prunetti su Carmilla, a proposito dei luoghi comuni su rom e sinti: da leggere e conservare.
Poi. Mi piacerebbe capire se la senatrice Paola Binetti ha un consulente. E, se sì, mi piacerebbe capire se costui è un burlone, un imbecille o un espertissimo di black propaganda. Perchè se una lettrice qualsiasi apre il giornale di oggi, legge le dichiarazioni di Ignazio Marino («in Italia, nel 62 per cento delle situazioni di fine vita, i medici praticano la desistenza terapeutica, ovvero interrompono le terapie») e si imbatte nella replica della Binetti («La legge deve difendere il diritto alla vita fino in fondo. Il diritto alla morte non esiste»)…beh, cosa deve mai pensare di questa signora?
(Eppure prima o poi bisognerà parlare di come ci si riappropria, tirandolo da una parte e dall’altra, del concetto di “naturale”: è “naturale” nascere, ma non morire, evidentemente. Non morire con dignità).
Ps. Per consolarsi: su Liberazione, Girolamo de Michele a proposito di Serge Quadruppani. Riporto la recensione.
“Dopo un lungo purgatorio nelle estemporanee collane per edicole, Serge Quadruppani comincia ad avere lo spazio editoriale che gli è proprio, uscendo dalla nicchia dei suoi cultori per arrivare a un pubblico più vasto: merito della collana Marsilio Black, che pubblica la sua ultima fatica, In fondo agli occhi del gatto (192 pp., 13 euro). La scrittura è solo una delle attività letterarie di Quadruppani, che dirige in Francia una collana di narrativa italiana ed è traduttore di alcuni importanti narratori italiani (Camilleri, Carlotto, De Cataldo, Evangelisti, Wu Ming), ma anche di Stephen King e Philip Dick, nonchè attivista impegnato a tempo pieno sul piano libertario e anticapitalista (ha tradotto in francese l’appello “Triangolo nero”). Questi dati sono indispensabili per comprendere il background sul quale si muovono i personaggi dei suoi polar, eredi dei maestri Manchette e Malét. Con buona pace di certe facili categorizzazioni, questo In fondo agli occhi del gatto non è l’ultimo thriller scemo sorretto da una campagna pubblicitaria, né un noir d’eccellenza fondato sulla fondatezza referenziale scaturito dalla penna di uno scrittore-sgobbone: è un buon romanzo, di quelli che riescono a resistere in mano al lettore finché non si è giunti alla fine. Quadruppani non è un patito del complottismo, né è anzi un critico ironico: ma senza mai dimenticare che i complotti esistono. Non inventa falsi psicologismi: lascia che i personaggi agiscano, trascinati da una febbre che li mantiene in stato di costante sovra-eccitazione. Il mondo non è scomparso: è lì, in tutta la sua durezza e ferocia, a ricordarci che la società in cui viviamo è costituita dalle macerie di un conflitto di classe che ha diviso l’umanità in vincitori e vinti, padroni e servi. I segni sociali sono infidi e menzogneri, ci suggerisce Quadruppani: diffidare di loro non è solo una strategia di resistenza, è forse l’unica possibilità di condurre una vita degna di essere vissuta. Tale è la strategia di Michel ed Émile, i due protagonisti: investigatore in bolletta con ambizioni letterarie il primo, feroce killer a pagamento al soldo di ogni schifosa cosca malavitosa, di Stato e non, il secondo. In un crescendo di tensione, la trama avvicinerà progressivamente nel tempo e nello spazio i due, in apparenza accomunati dalla sola passione per i gatti: ma sarà proprio il diverso rapporto con l’amico felino a segnare l’ultima, irriducibile differenza quando tutta lascia credere che i due siano l’uno lo specchio dell’altro, a impedire la chiusura di un apparente gioco del doppio che avrebbe altrimenti reso indifferente il vissuto etico di Michel, sconfitto ma non vinto dal nemico di classe, e il cinismo di Émile, personaggio familiare a chi in Italia ha frequentato qualche contro-inchiesta sulla strategia della tensione. Ma familiare anche a chi, in Francia (come anche in Italia) deve a volte leggere tra le righe di un buon noir per intuire la presenza di trame oscure, legami innominabili tra la rispettabile élite politica, settori paralleli o deviati della gendarmeria e dei servizi, malavita organizzata: basta pensare al reseau neo-fascista di Marsiglia che veniva magistralmente descritto da Jean-Claude Izzo nella trilogia del commissario Montale. Il tutto senza appesantire il testo con inutili sociologismi o trattati moralistici da narratore onnisciente: perché – e questa scelta è stilisticamente etica – Quadruppani mette in scena un narratore insipiente, costretto a correre per non lasciarsi raggiungere, ma al tempo stesso per inseguire un senso degli eventi che si costruisce evento per evento. Non per caso capita a Michel di passare davanti a un manifesto o un cartello e coglierne il senso di sfuggita, in modo incompleto: ma al tempo stesso accade che sia la memoria del lettore-Michel a costruire quel vero testo che non compare. I manifesti, le insegne, le targhe che intitolano strade o piazze a personaggi noti scorrono, col loro carico di menzogne e ipocrisie, lungo la folle corsa di Michel. I personaggi secondari muoiono, uno dopo l’altro: come la gente comune, come i lavoratori in carne ed ossa nelle fabbriche o nei cantieri, come le vittime quotidiane di quel monopolio sanguinoso della violenza necessaria che è il potere che amministra le macerie dello Stato sociale. In questo romanzo persino gli animali sono asserviti al controllo paranoico del potere: come nella vita reale, dove l’essenza umana è ricondotta alla bruta animalità delle sue funzioni elementari, per aver diritto alle quali si rischia la vita. Quadruppani non rinuncia a dire la sua con commenti rapidi e taglienti – è un maestro della frase breve, il nostro autore: ma il più delle volte è la rappresentazione stessa di una vita indegna a parlare per lui. E a lasciarci, come spesso nell’ultimo Camilleri, con la bocca amara e una domanda che si risponde da sé: perché mai in un romanzo la vita dovrebbe essere migliore, perché mai non dovrebbe essere quella che è – uno schifo?”
La cosa che mi spaventa della Binetti è che con la storia del cilicio era diventata quasi una macchietta, e questo porta un alone lieve su di lei, che smorza la gravità delle cose che dice, che fa e che riesce a far fare al governo…
mi sono ricordato che quando ero piccolo il paradigma dei conservatori amanti del luogo comune era “i muratori rubano”.Lo scisma interiore di questa gente potrebbe procurargli guai seri,un giorno o l’altro
Naturale.
Ricordate b16 che parla di “naturale tramonto” della vita?
Naturale+tramonto+vita. Oh.
b-netti semplifica la furbata papista con la grazia di un colpo di mortaio.
Il problema è che nessuno risponde…