PRENDERE LA PAROLA

Il ministro della Salute, Livia Turco, ha lanciato un appello: “È necessario che voi donne, italiane e straniere che vivete in Italia, prendiate la parola. Inventatevi qualcosa per parlare sul diritto alla vita, sulla maternità, per difendere la 194 e dire cosa significa l´esperienza della maternità”. Valeria Parrella ha risposto alle domande di Patrizia Capua, su Repubblica, raccontando come è nato il suo ultimo romanzo, Lo spazio bianco.

Aggiungo che mi sto accostando con molta esitazione al libro (amo moltissimo Parrella, è bene metterlo subito in chiaro) perché ho condiviso un’esperienza molto simile. Mia figlia è nata prematura, e so bene quanto la terapia intensiva neonatale sia un luogo di dubbi reiterati e di terribile solitudine. Dove si scopre, per esempio, che non esistono risposte certe (“Signora, non lo può sapere nessuno”, la frase che Parrella riporta nel prologo, è quella che scandisce le giornate delle madri). Dove si scopre, tra l’altro, che il famigerato progresso scientifico che spingerebbe a rivedere con urgenza la 194 è nella stragrande maggioranza dei casi impotente a prevedere quello che accadrà davvero (se vita sarà, e che vita sarà). Dove si scopre, soprattutto, che disbrigata la questione medica (etica, dirà qualcuno), dovrai vedertela con altrettante incertezze, e da sola. Questo, attenzione, vale per i figli che sono stati cercati, desiderati, attesi: per la scelta già compiuta, intendo. A maggior ragione, e fuori dai denti: l’ipotesi della rianimazione contro la volontà dei genitori è spaventosa, ipocrita, cieca. E’ l’affermazione di un diritto alla vita astratto, ideologico e ottusamente egoista: ma agli sciagurati teodem non basterebbe, per capirlo, mettere piede in uno di quei reparti. Quasi certamente, del terrore e dell’angoscia delle madri non avrebbero neanche percezione, e insisterebbero ad applicare la definizione indeterminata e certificata di vita anche a grumi di carne piagata e tormentata da una sofferenza atroce, quanto non comunicabile.

Di seguito, l’intervista a Valeria Parrella.

Sì, sono annichilita e furiosa.

 
Nel libro “Lo spazio bianco”, pubblicato da Einaudi, la scrittrice napoletana Valeria Parrella, 33 anni, racconta di Maria che partorisce una bimba prematura alla 26esima settimana. Anche Parrella è mamma di un bimbo nato prematuro, Andrea, che ora ha 19 mesi.
Che cos´è lo spazio bianco?
«Sono i tre mesi di terapia intensiva neonatale. Ne ho visti tanti di questi reparti, a Napoli, a Brescia, so come funzionano dal punto di vista della madre, da quando partorisce prematuramente a quando il bimbo viene dimesso. Di questa struttura ho evidenziato una cosa che non ho inventato io ma sta nel coro dell´Antigone, le antinomie: uomo-donna, giovane-vecchio, Stato-individuo. Ecco, a me sembrava che l´ospedale fosse proprio un luogo in cui precipita bene l´antinomia “Stato versus individuo”. C´è un apparato burocratico enorme che gioca contro».
In che modo?
«Tutto comincia quando lei partorisce, non c´è niente da fare, la bimba deve uscire fuori dall´utero. Viva? domanda la madre, sopravvive con handicap? Non lo sappiamo, risponde il medico. Lei lo sa? Poi si capisce che queste domande sono un gioco retorico. Quello mi aveva informato, io avevo dato il mio consenso, ma era un gioco retorico».
Poi che accade?
«Quello che non ti dicono è il costo umano che c´è dopo. Se questo bambino non si alzerà mai da una sedia, saranno i genitori non i medici a portarne tutto il peso. Lo Stato ti aiuta fino a un certo punto, con la legge 104.E quando i genitori non ci saranno più?».
Che cosa le ha insegnato questa dura esperienza?
«Come madre, istintivamente dico che se a una donna viene chiesto proviamo, nessuna dice di no, perché l´ha portato in grembo. Il punto è questo: i medici non ti informano su quello che potrebbe succedere perché non lo sanno. Somministrano ai bambini cure sperimentali. Se un bambino prematuro resta handicappato? Nei paesi occidentali il maggior motivo di cecità è la retinopatia del prematuro. Questo, durante la terapia intensiva, alle madri non viene detto. Bambini ciechi perché nati prematuri. Qual è l´incidenza? Se i medici hanno le statistiche, perché non ne parlano in quelle riunioni che si tengono con i genitori?».
Lei come ha reagito?
«Io ho gridato, ho minacciato denunce, ma una persona con meno mezzi non l´avrebbe fatto. Ho preso un aereo, sono andata al Niguarda a Milano dove c´è l´unica apparecchiatura specialistica con cui si studiano queste patologie. Fortunatamente non era una cosa così grave, ora il mio bambino è cresciuto e sta bene. Da donna e madre dico, però, che queste sono le cose che vanno spiegate prima di dire tentiamo di rianimare anche contro la volontà dei genitori. È un gioco sporco. È un ricatto morale. Meglio non riempirsi la bocca con parole come amore, speranza, vanno bene per la Chiesa, questa è tutta un´altra storia. Non è una coincidenza che questa vicenda emerga proprio nei giorni della moratoria sulla 194. Si sta facendo un discorso generale sulla vita, vita versus morte, ma quale vita?».

6 pensieri su “PRENDERE LA PAROLA

  1. Il confronto è tra individuo e istituzione, sempre e comunque, purtroppo.
    Nel caso della salute tutti noi sappiamo che quando ci si ammala,
    si entra in un pronto soccorso o si è in gravidanza (che per questa società è equivalente all’essere malate) appena si varca la soglia di un ospedale si smette di essere persone e si diventa numeri, pazienti che devono -appunto- pazientare.
    Corpi che perdono ogni diritto alla privacy e al pudore, creature in pigiama e camicione preda di ogni secrezione possibile di un corpo umano.
    Pochi sono quelli che hanno la forza e la possibilità di migrare verso quelle poche situazioni più evolute in Italia.

  2. “l’ipotesi della rianimazione contro la volontà dei genitori è spaventosa, ipocrita, cieca”, aggiungo, è una crudeltà contro la donna e contro la persona.
    A pelle direi che potrebbe essere anche incostituzionale, ma al momento non iresco a pensare che ai maltrattati “diritti del malato” e al raggirato “consenso dei familiari”.
    Sono furioso anch’io, e pronto ad auspicabili forme di contrasto.
    lucio

  3. Non ho figli.
    Non è mai stato il momento giusto, il mondo giusto, il partner giusto. Eppure sono circondata da tantissimi “figli adottivi”: allievi e allieve, figli di altre e altri, anziane e anziani, amiche e amici. A volte sono pure “figlia”, ma mi capita meno, non so perché. Per istinto (?) curo, proteggo, rassicuro.
    Insomma, mi pare proprio di “essere in regola”, con la faccenda dell’istinto materno, e tutti me lo ripetono : saresti una buona madre tu. Non so se mi sono spiegata.
    Invece non ho figli, né mai li avrò in un paese che mette l’angoscia se vuoi averli, e la mette pure se non ce li hai. Che ti alza intorno muri sanitari, legali, morali, che ti dice che sei *contro* la vita se osi soltanto pensare che vorresti un figlio o una figlia che sta bene, peggio ancora se desideri starci bene anche tu. Desiderarlo e basta, per carità, perché poi non sai cosa accadrà.
    Ma tutti quei muri attorno già te lo dicono chiaro cosa accadrà. I muri sono alti e bianchi e immensi, e tu li guardi e già stai male.
    Solo a guardarli, figuriamoci a sbatterci contro.

  4. E’ lo stesso stato, il nostro, che impedisce ai minori di 14 anni di vedere Into the Wild, l’ultimo, bellissimo film di Sean Penn, ma che li manda liberamente, ogni anno, a vedere i cinepanettoni natalizi, fiera assurda e volgare della peggio italianità.
    Sulla questione 194 mi sento in dovere di citare una delle più sottovalutate scrittrici italiane, Brunella Gasperini, che a proposito delle sue battaglie in favore della legalizzazione dell’aborto nel nostro paese diceva che nessuna donna è favorevole all’aborto in sé, ma che è necessario che questo sia una pratica legale e rispettosa delle esigenze delle donne. Perché il feto sarà sì una vita, ma della donna ci vogliamo completamente dimenticare?

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