Le cronache di nera sono spesso uno specchio interessante per quanto riguarda gli stereotipi. Questa mattina, leggendo un articolo sulla madre del piccolo di otto mesi ucciso dal di lei compagno, mi sono soffermata sui commenti che venivano riportati dalla stampa. Commenti di altre donne, che più che entrare nel merito della vicenda evidenziano altri particolari. Ovvero:
è impossibile perdonare una mamma così. Una donna che non si può neppure chiamare madre. Perché non è una mamma, una che trova il tempo di truccarsi lasciando la prigione.
Oppure:
Tutti sottolineano l´assenza di lacrime della giovane donna.
Sono già intervenuta su questo argomento, perchè mi turba la richiesta collettiva di un’adesione allo standard del lutto. Madre è chi si strappa i capelli, urla e offre le proprie lacrime in pasto agli altri. Il dolore esiste solo se è visibile. La stessa condanna toccò alla madre di Alfredino Rampi, il primo dei bambini morti per il quale lo Spettacolo ha preteso un comportamento materno conforme ai canoni.
Al di là del singolo episodio in questione, su cui nulla so e nulla dico, trovo spaventose non solo le reazioni, ma anche l’idea che il giornalismo, oggi, debba nutrirsi delle medesime. A proposito di dettagli. E a proposito del diavolo che li abita.
Il Lipper’s Army dovrebbe andare un po’ in giro a far notare queste cose, intrufolandosi trai commenti.
Non che tutti verrebbero conquistati, ma almeno qualche signora leggendo la frase “Scusi, mi saprebbe dire qual è il codice del lutto perfetto per una madre?”, forse – sottolineo forse – potrebbe trovarsi imbarazzata.
Però…
Qui a Genova ho seguito la vicenda con una certa attenzione sui media locali e nella zona in cui abito, la stessa in cui abitava la madre.
Da un lato, la prima reazione dei media è stata la convinzione, in una situazione incerta, che la madre fosse l’assassina. Dal punto di vista dei media, per qualche motivo, la madre che uccide un figlio fa molto più notizia del padre che uccide un figlio: la prima è snaturata, per il secondo si tendono ad accettare i ‘motivi’ del ‘folle gesto’. Quindi, da questo punto di vista, il pregiudizio tipico maschilista era più che lampante.
Poi, le indagini hanno portato ad accreditare la colpevolezza dell’uomo, un poco di buono da tutti i punti di vista (che sulla sua pagina di Facebook si accreditava come ‘di destra’ e ‘cristiano’). Però, innegabilmente, il comportamento della madre durante la notte fatale (e non solo), se non assassino, è da considerarsi pessimo: se il figlio fosse sopravvissuto le sarebbe stato tolto senza esitazioni e dato in adozione. Perchè non dovremmo definirla ‘pessima madre’ se tutto quel che sappiamo di lei va in quella direzione?
Io sono sconcertata da un altro evento sematico legato alla cronca nera della mattanza pasquale.
Un tot di donne morte ammazzate, tipo sport di pasquetta, tanto per non toglierci nulla. E tutti i TG di ieri notte si dilettavano con frasi tipo “dramma della gelosi”, “raptus passionale” e vai così.
Ora io mi domando se è possibile definire un omicidio come dramma della gelosia? Si può indicare uomini che commettono crimini come offuscati dalla passione o sconvolti dall’abbandono?
Se qualcuno etichettasse come dramma della passione religiosa l’ennesima bomba come reagirebbe l’opinione pubblica?
E perchè no, il mafioso potrebbe essere apostrofato come sconvolto per la passione “famigliare”.
Perchè quando si parla di omicidi perptrati da violenti sulle donne si usano termini indulgenti e molte volte si usa la parola amore?
“dramma della passione religiosa” è un piccolo capolavoro, Alessandra C.
mi viene voglia di confidarvi un pensiero di cui forse dovrei vergognarmi, ma visto che qui siete\siamo persone comprensibili…
allora, io quando sento che una madre ha ucciso il proprio figlio provo qualcosa per lei, mi dispiace per lei, penso al dramma che starà provando, dei figli, dei bambini non mi interessa granché. soprattutto un figlio, tanto più se piccolo, magari appena nato, io lo vedo come una cosa che appartiene ancora alla donna. ecco, vabbè, magari non era neanche il caso di scriverlo
anche per me il primo pensiero, quando sento di vicende come queste, è di comprensione per la madre che immagino talmente esasperata e sola da essere arrivata ad uccidere la fonte del suo male. Però non credo che i figli appartengano a qualcuno, a nessuna età. Per quanto riguarda il codice del lutto, personalmente trovo addirittura più naturale la reazione attonita piuttosto che quella sconvolta, ma capisco che ognuno reagisca a suo modo. Il problema è che la maggior parte delle persone non la pensa così, su nulla ormai. C’è una grossa parte di comunità che ha deciso che il suo modo di pensare è giusto mentre l’alternativa è impossibile; e chi sceglie l’alternativa mente. Esempio sciocco, solo per farmi capire: se chiedo “ti piace la cioccolata” le risposte possibili sono due, sì o no, ed una dovrebbe valere l’altra. Non si sa chi ha deciso che è giusto solo sì e se dici no te lo stai inventando, così, solo per distinguerti. Combatto ogni giorno in ufficio con gente così.
Quello che definivo un pregiudizio dei media in effetti ha radici più profonde.
Come ho detto, gli inquirenti si stanno orientando per la colpevolezza dell’uomo mentre la madre risulta colpevole ‘solo’ di estrema negligenza. Eppure qui i commenti sembrano dare importanza solo alla possibilità della madre assassina che, appunto, interessa ed emoziona di più rispetto al casuale omicidio di un bambino da parte di un uomo che non era suo padre e a cui dava fastidio il pianto notturno.
A me le vicende di bambini uccisi o maltrattati dai congiunti sconvolgono al punto che cerco di non saperne più di tanto, soprattutto i dettagli, quindi non so quasi niente di questa storia. E’ però anche per me penoso, per quanto è “peloso”, lo studio delle emozioni della madre. Il padre di una giovane vittima, o una famiglia nel suo complesso, si può “chiudere in un dignitoso silenzio”, ma da una donna la stessa mancanza di esternazioni pubbliche è considerata sospetta, troppo simile alla freddezza e alla mancanza di pietà.
e qui secondo me casca un asino. l’asino in questione ci vorrebbe tutti, divisi tra donne et uomini, ontologicamente, ormonalmente predisposti a qualcosa. Siamo così assuefatti (ed è anche abbastanza normale, e lo sono anche io) dalle convenzioni culturali, che una donna senza lacrime è una donna cattiva, che un uomo senza grinta è omosessuale, e così via. È solo negli ultimi anni che ho capito che molte delle nostre differenze di genere sono spinte non della fisiologia dei nostri corpi, ma da quello che c’è fuori.