Confesso che mi costa molta fatica dare parzialmente ragione a Filippo La Porta su un punto dell’intervista che ha rilasciato sabato a Leopoldo Fabiani per Repubblica e dove si parla del suo ultimo libro “Meno letteratura, per favore”. Il punto in questione è il seguente:
«Esistono siti web che pubblicano qualunque testo ricevano. Che senso, che valore ha? Non abbiamo piuttosto bisogno di qualità, di selezione? Nei forum letterari come quello di aNobii, prevalgono giudizi sbrigativi, lapidari, espressi in una lingua sciatta, dove l´interesse primario sembra l´esibizione di sé invece della comprensione dei testi. Manca completamente l´argomentazione, che è la base del giudizio “autorevole”. Beninteso l´autorità è qualcosa che si conquista faticosamente, una competenza che poi ogni volta bisogna sottoporre alla valutazione del pubblico. È questa la responsabilità del critico».
Ora, quello che La Porta sostiene non è vero e insieme lo è. Non è vero perchè la rete è vasta e non è giudicabile dalla consultazione di due-tre siti o blog letterari o da due-tre-dieci discussioni avvenute in seno ai medesimi. E’ necessaria una frequentazione quotidiana e una partecipazione in prima persona che non mi sembra che appartenga a La Porta. E’ però vero che la tendenza all’esibizione del sè, in moltissimi casi, prevale non tanto sulla critica e l’analisi, ma sul sempllice giudizio su un testo. E questa non è responsabilità della rete, naturalmente: la rete amplifica quel che già esiste. Se conquisto audience (o contatti, o seguaci web) dicendo: “l’autore è uno stronzo” (esattamente come fece Sgarbi qualche lustro fa in televisione, iniziando così la sua sciagurata e folgorante carriera), perchè non dovrei farlo? Su aNobii, in particolare, è molto facile che questo avvenga (complice anche la famigerata antologia che osannava la recensioni “urticanti”).
Il punto è che santificando il diritto INDIVIDUALE del lettore si mette in secondo piano una dimensione collettiva e comunitaria della lettura e della condivisione dei testi. Vecchia storia? Vecchissima. Inutile parlarne? Direi di no.
Non “all’altezza di De Sade”, chi l’ha detto? All’altezza, da “critici” e da “filologi” (ma in realtà da semplici lettori intellettualmente curiosi), della conoscenza più approfondita che abbiamo oggi. Qualunque cosa possiamo pensare di Sade. E Bataille c’entra poco, al massimo c’entra la biografia scritta da Geoffrey Gorer (anglosassone, umanista, ostile a Bataille e ai surrealisti). Comunque, questa non è una “lettura” di secondo grado, questo è proprio Sade: quello che scrive nei suoi libri (l’utopia descritta in “Aline et Valcour” etc.) e il Sade nella sua vicenda storicamente riscontrata. Peraltro, Valter, il Sade storico (non quello mitico) dovrebbe piacerti almeno un po’, dato che si oppose al Terrore (la sua contrarietà alla pena di morte è espressa in modo inequivoco in molti scritti e nel suo carteggio) e per questo fu arrestato e sbattuto al gabbio a Picpus. Condannato alla ghigliottina, fu salvato dal Termidoro. E mica ho detto che è applicabile o applicando oggi, ho fatto notare che da Praz in avanti, almeno in Italia, si è ripercosso un grande malinteso. Perché continuare ad attribuire a un autore molte posizioni che in realtà combatté per gran parte della vita, sia come autore che come “militante”?
personalmente sono contento che ti interessi al pensiero di Sade, Wu Ming 1 immagino rientri nella vostra riflessione sul Settecento e la Rivoluzione Francese.
Chapeau!
Oh yeah.
Magari perchè ha scritto cose turpi e degradanti, che il suo libertarismo non redime ma anzi ne risulta compromesso irrimediabilmente.
Come ha scritto il mio amico Riccardo De Benedetti, ex redattore della storica rivista “Aut Aut”: “Il permesso di fare quello che si vuole di un’altra creatura, per esempio, un cardine della prospettiva sadiana, non appare così antitetico alle attuali condizioni umane, determinate, lo si voglia o meno, dalla comparsa del nazi-comunismo e dal suo troppo imperfetto superamento democratico. Il mondo plasmabile e riformabile che ci è stato consegnato dalle palingenesi politiche contemporanee, più o meno fallite, si sposa perfettamente con la sovranità assoluta del sadico nei confronti delle sue vittime”
(La Chiesa di Sade, Medusa Edizioni)
Poichè sicuramente avrai da obiettare che anche De Benedetti è vittima di storici malintesi, ti dico in sintesi (da amico) che di De Sade m’importa poco. Quello che m’importa è che portare avanti una buona causa non significa raccattare e valorizzare tutto ciò che vi ha inciampato prima o poi, dandogli per forza dignità culturale ma, come diceva il signor Nereo Rocco, “palla lunga e pedalare”
“nazi-comunismo”??? bah..
senza contare poi che il modello di riferimento di ogni regime totalitario del novecento è lo stato teocratico.
Massima fraternité con Wu Ming 1 per i suoi giudizi su De Sade. Devo però aggiungere che quando mi sono distratto dalle sue opere e mi sono letto le Lettere dalla Bastiglia, con le sue prescrizioni per la moglie, mi è caduto il mito. Teniamoci gli scrittori come scrittori, è sempre meglio evitare di indagare sulla loro vita privata.
Che De Sade sia in autore politico è cosa sconosciuta ai più, che Praz abbia oscurato questo aspetto é altra cosa nota, che poi ci sia chi giudica le consapevoli notazioni di Wu Ming 1 come delle belinate , è triste, ma non sorprendente, dopotutto “Aline e Valcour” credo che l’abbiamo letto in dieci persone in Italia. Chi all’epoca si comprò l’edizione della Sugar forse credeva di trovare un romanzo erotico e di fronte a un trattato filosofico post-Rousseau in forma romanzesca, sia rimasto piuttosto confuso. Questo ci dice quanto sia difficile comprendere, persino oggi quando dovrebbe risultare scontato, l’arte della mescolanza e dello spiazzamento. C’è chi legge e c’è chi leggendo si chiede: ma questa roba a cosa appartiene, a quale genere si riferisce? Alla scrittura, signori, che senza pensiero è una misera cosa.
Parole sante, maestro.
Valter: “il permesso di fare quel che si vuole di un’altra creatura” è una cosa che Sade *denuncia* con veemenza in tutta la sua opera, e per accertarsi che questo venga capito, costella i suoi romanzi di note e digressioni teoriche in cui *lo spiega*. Che devo dirti più di questo? Nel “Saggio sul romanzo” che funge da prefazione a Les crimes de l’amour scrive: “Non voglio rendere amabile la turpitudine… A differenza di Crébillon e Dorat io non desidero che le donne adorino i loro ingannatori, bensì che li disprezzino… Ho reso quelli tra i miei personaggi che prendono la china del vizio tanto spregevoli che certo non ispireranno né comprensione né amore”. Per non dire della dichiarazione di poetica all’inizio di Le centoventi giornate di Sodoma, dove si capisce benissimo che i quattro zozzoni per lui sono i *nemici*, rappresentano tutto ciò che lui odia e considera marcio nella società divisa in classi. Confondere un autore coi suoi personaggi è un errore piuttosto grossolano, a mio modo di vedere.
P.S. Quindi la resa cinematografica di Pasolini è *spiritualmente fedele* al libro, ne condivide lo spirito e l’intento. E’ un film che produce schifo morale per l’abiezione dei personaggi, per quello che fanno, per il sistema che ha permesso loro di accumulare potere per poi usarlo in quel modo. E’ esattamente il fine che Sade si proponeva.
Vuoi dire che ho letto i romanzi senza le glosse? E con me due secoli di lettori sono caduti nell’equivoco? E l’insistenza ossessiva con cui il Marchese mette in scena stupri e umiliazioni sono una sottile parodia del sistema capitalistico?
Interessante. Però, lasciami dire, che scarsa fantasia!
Se non era quel pervertito che si dice ma un fine critico dell’alienazione almeno qualche volta poteva uscire dal boudoir e visitare che so, una tessitura, una miniera, che dici?
Vabbè, dai su questo tizio non saremo mai daccordo e non sarà l’unica volta. Bisticciare con me ogni tanto ti tocca, sono il tuo mal di denti, La Porta ci ha messo pure nel medesimo capitolo : -)
Valter, ma quale boudoir? Nei boudoir ci stanno i suoi personaggi, lui invece quando non era in prigione stava per strada.
Quando esce di prigione il 2 aprile 1790 (obeso, per via della forzata inattività), Sade non vede l’ora di dare il suo contributo alla Rivoluzione. Crede senza infingimenti negli ideali repubblicani e si impegna a fondo come membro della Section des Piques, un club rivoluzionario. Nonostante il suo status aristocratico non ci pensa nemmeno ad emigrare (mentre il resto della sua famiglia lo fa e questo più tardi lo metterà nei casini). Come militante rivoluzionario, compie opere civiche meritorie, come un’inchiesta sugli ospedali di Parigi. Il suo rapporto e una petizione da lui promossa ottengono come risultato che, pare per la prima volta, a ogni ricoverato sia garantito il diritto a un posto-letto.
Sade in questi giorni ha già espresso idee socialiste, proto-comuniste. Non ci sono pervenuti suoi giudizi sulla Congiura degli Eguali, ma anche a detta di diversi biografi molte sue idee combaciano con quelle di Babeuf e dei babuvisti. Idee che ha espresso in una delle sezioni di “Aline et Valcour”
Nei mesi della sua attività nella Section des Piques pubblica vari pamphlet con proposte su come estendere la rivoluzione. Nel 1793 si oppone agli eccessi del Terrore. Molte delle cose che scriverà in seguito conterranno allegorie di denuncia. Lo stesso pamphlet “Un ultimo sforzo…” ha parti leggibili in quella chiave.
Nel dicembre 1793 viene arrestato con l’accusa di moderatismo. Nei mesi successivi passa per quattro diverse prigioni: sei settimane alle Madelonettes, otto giorni ai Carmelitani, due mesi a Saint Lazare e quasi sei mesi a Picpus, praticamente nel “braccio della morte”, potrebbe andare al patibolo da un giorno all’altro. Dalla sua finestra si vede la ghigliottina e, nei mesi che trascorre lì, vede o sente l’esecuzione di 1800 persone.
Il 24 luglio 1793 Sade viene condannato a morte, tre giorni dopo lo cercano per eseguire la sentenza ma, grazie al caos amministrativo, lo cercano nella prigione sbagliata. Il 28 luglio, prima che lo trovino, c’è il Termidoro, che gli salva il culo. Un mese dopo, la sua Sezione gli rilascia un certificato di buona cittadinanza. Ma viene liberato soltanto ad ottobre. Trascorrerà gli ultimi (pochi) anni di libertà nella miseria più nera, eppure *non emigrerà* e continuerà a dire che la Repubblica è comunque una conquista ed è preferibile al regime che c’era prima. Questo finché non verrà di nuovo perseguitato e rinchiuso in manicomio a Charenton, dove morirà.
Altro che boudoir.
Va ricordato che quest’uomo trascorse la maggior parte della vita in galera senza che gli fosse mai formalizzato alcun capo d’accusa. In prigione ci finì per via di una “lettre de cachet” ottenuta chissà come da sua suocera, che lo odiava.
Adesso sei riuscito a incuriosirmi.
Giuro che mi documento.
Spero di non trovare solo rivisitazioni a-posteriori (magari scritte in carcere) delle oscenità scritte in precedenza, per darsi una patina rivoluzionaria e scampare la ghigliottina.
Guarda, ti copio un brano dalle conclusioni di Gorer alla sua biografia, che non è recente (1962) ma fu scritta tenendo già conto di tutte le scoperte documentali di Maurice Heine e del monumentale lavoro di Gilbert Lely. Corsivi miei:
–
“As a revolutionary thinker de Sade was in complete opposition to all his contemporaries, firstly in his complete and continual denial of a right to property, and secondly in his view of the struggle as being not between the Crown, the bourgeoisie, the aristocracy or the clergy, or sectional interests of any of these against one another (the view of all his contemporaries), but of all these more or less united against the people. By holding this view he cuts himself off entirely from the revolutionary thinkers of his time to join those of the mid-nineteenth century. For this reason he can with some justice be called the first reasoned socialist. In his attempt to concilate the conflicting demands of the individual with political fairness for all, he stands alone despite Kropotkin and the anarchists.
Writers about de Sade invariably reproach him for the mild way in which he conducted himself during the Revolution and call him merely a parlour revolutionary. Apparently, they expected this man of over fifty to indulge in the torture and rapine that legend has associated with his name; they would not understand that a person who could analyse so clearly the brutality of others should find such brutality disgusting and abhorrent. As a matter of fact de Sade did all that was humanly possible in the way of speaking and writing to persuade his fellow-citizens to follow him in his well-developed plans; but he spoke a language which none then, and too few now, can understand.
It was inevitable that he should be merely a theoretical and Utopian socialist. But as a theoretical socialist he saw extraordinarily justly, as can be seen by his prophetic deductions concerning the immediate future of France, and also his extremely apt criticism of the League of Nations and the United Nations which another century would realize with all the inherent faults he detected.”
WM1 ha già detto quasi tutto quel che c’è da dire sull’aspetto politico di de Sade, mi limito ad aggiungere una piccola spiegazione circa gli equivoci in cui molti cadono quando leggono o parlano di de Sade. Nel 1962 la Feltrinelli (quella di Giangiacomo) pubblicò un’antologia di Opere Scelte di De Sade, proponendone una lettura diversa dal consueto. Cito un piccolo frammento dall’introduzione di Gian Pier Brega che si propone di smentire “la sciocca favola di un Sade maniaco”: ” Si viene posti di fronte a una fittizia alternativa: o gettare anatema su di lui o di farne il capostipite dei tenebrosi eroi romantici, una specie di San Giovanni Battista dell’irrazionalismo e del decadentismo. Anche chi ha voluto istruire un processo di canonizzazione di questo singolare personaggio settecentesco non si è curato di conoscerne a fondo l’opera, di aprirsi un varco fra il grossolano turpiloquio, le oscene nudità, gli ostentati sacrilegi, e cumuli e cumuli di macerie, rovine di istituti sociali, di valori morali, di consuetudini, di necessarie menzogne e di vane fantasie. Ma perché occuparsi di De Sade? La domanda cela in realtà la invitta riserva del moralista borghese cui ripugna, per spregiudicato che sia, di maneggiare panni tanto immondi.” Questo moralismo borghese, in Italia, vorrei aggiungere, riveste ancora panni “manzoniani”: è da qui che nasce l’equivoco secondo cui uno scrittore che descrive l’immondezzaio sociale sia egli stesso monnezza. Simili sprezzanti giudizi vennero rivolti anche a Curzio Malaparte, per dirne uno, e a tutti quelli che nel panorama edificante-progressista della letteratura italiana, hanno tentato di introdurre elementi “neri”, del resto propri da secoli della nostra cultura, ma costantemente (da Manzoni in poi) espulsi dalle nostre accademie. Ora: in America si troverebbe ridicolo dire ad esempio che Jim Thompson, scrivendo dell’Assassino dentro di Noi, fosse un propagandista dell’omicidio efferato. Da noi magari non lo si dice, ma lo si sospetta, e l’autore di testi simili viene tacciato amabilmente quanto meno di “morbosità”. Tornando a De Sade, altra confusione si è gettata su di lui, grazie alla definizione non letteraria di “sado-masochismo” , Non letteraria perché non ha davvero nulla a che vedere con la letteratura. De Sade e Sacher Masoch non potrebbero essere più diversi tra loro. E non solo perchè un intero secolo li separa. De Sade , per dirna una, era ateo e razionalista, Masoch devoto e mistico. De Sade (in particolare il suo Aline e Valcour) potrebbe casomai essere avvicinato a Swift, che gli era precedente e assai prossimo. I Viaggi di Gulliver sono un tipico romanzo filosofico-politico che ci conduce in visita a una serie di “mondi possibili”, già in atto nel nostro mondo. Allo stesso modo, i regni utopistici di De Sade, ci presentano alcune opzioni radicali di “mondi possibili” già ben presenti negli scritti di Jean Jacques Rousseau , ma riprese alla luce della Rivoluzione. A De Sade, come ha giustamente rimarcato WM1, risultava intollerabile il Terrore, eppure aveva lucidamente previsto che quell’opzione possibile avrebbe potuto essere imboccata. Questo è del resto un tema che si proietta ben al di là del SUO tempo. La piega sanguinaria e tirannica che prendono sovente i Rivoluzionari al Potere (e che prima di Robespierre aveva preso Oliver Cromwell) dovrebbe farci meditare. Il tema che De Sade pone al centro delle sue riflessioni è l’intreccio tra Potere e Piacere, e la perversione reciproca prodotta dal contatto dei due termini. Questa è anche la lettura che ne ha fatta Pasolini e che dunque va ben al di là di Salò e di un quadro della perversione fascista. E’ un intreccio su cui ogni rivoluzionario farebbe bene a interrogarsi per tempo, pur sapendo che la Storia travolge per solito, i buoni propositi. Ma sulla “logica” di questa perversione De Sade scrisse pagine illuminanti. La sua lettura politica non è dunque per nulla pretestuosa. Tantomeno implica inclinazioni “sadiche” , contro le quali invece De Sade si batté per tutta la vita, a costo della galera e del manicomio. De Sade fu il Dissidente per eccellenza, perseguitato tanto dall’Ancien regime che dal Nuovo Regime nato dalla Rivoluzione. Invito infine a rivedere (perchè si trova anche in DVD) il Marat-Sade di Peter Brook, grandioso spettacolo teatrale, che per la generazione degli anni 70 è stato una Bibbia Politica.
Grazie, Gianfranco. Gran bella discussione, questa, e solo apparentemente OT. In realtà mette i piedi nel piatto, perché riguarda gli errori dei Critici con la C maiuscola.
Grazie anche da me, Manfredi. Anche se quando sento parlare delle nostre Bibbie degli anni Settanta (una delle mie era “Eros e civiltà” di Marcuse, che adesso detesto per il suo incredibile semplicismo) mi vien da pensare che, se di tutto quel discutere e glossare non sono rimaste che “lacrime nella pioggia”, assolutamente indifferenti alle generazioni attuali e incapaci di spiegare il loro dramma, forse qualche problemino c’era.
Comunque per me Peter Brook resta quello straordinario del Mahabharata.
Davvero complimenti a tutti e tre, bin wum e manf, per la qualità e le aperture di un dialogo che contiene cenni biografici straordinari e perle su cui riflettere per settimane.
mi inchino e ringrazio,
L.
Bisogna riprendere in mano Salò. Quel film è di importanza capitale.
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=114
Sai WM1, sui critici gli scrittori sono comprensibilmente cauti nell’esprimere giudizi, non tanto perché vogliano tenerseli buoni, ma perché “la critica della critica” rischia di essere un esercizio di cattivo gusto. Forse questo è uno dei motivi per cui preferiamo parlare di De Sade (ne vale la pena eccome) piuttosto che discutere delle tesi di La Porta che al di là di quanto scrive fuggevolmente a proposito del web, sviluppa riflessioni sul momento letterario che per quanto ne ho letto da interviste e anticipazioni giornalistiche mi paiono piuttosto svianti e anche fastidiose, ma attendo di leggere il libro per esprimermi. Posso solo dire che l’unico testo di critica letteraria recente che mi ha stimolato è stato quello di Giulio Ferroni ( pur non concordando su alcune cose) che ho letto in simultanea con il piccolo gioiello pubblicato da Adelphi cioè Il Reato di scrivere, raccolta di articoli di quel grande dimenticato che è J.Rodolfo Wilcock. Per il resto mi pare che molti dei contributi critici recenti soffrano, oltre che della venerabile età di certi autori, della sindrome da Difficoltà di leggere in epoca di Sovraproduzione, per cui il lavoro critico si tende a limitarlo al romanzo breve o al racconto, oppure a prendersela con gli esordienti in classifica, esercizio tutto sommato sterile. Ho invece rilevato che nei convegni letterari (anche quelli internazionali) la discussione tra scrittori attraversa un momento particolarmente intenso e benefico per tutti. Una delle cose che vanno recuperate senz’altro è il senso di comunità, non professionale, ma vocazionale tra chi partecipa della scrittura e vive la propria stessa scrittura come parte di uno scrivere collettivo. Di questo scrivere collettivo fa parte anche la riflessione sugli autori del passato, la critica delle vulgate, che è anche rivendicazione della libertà della lettura sottratta al comando (del mercato quanto delle accademie e della stampa). Cioè assumersi , insieme al compito di parlare al presente, anche quello di una ri-considerazione critica del presunto inattuale.
@ Valter. Non dico che non ci fossero problemi nei 70, presumo però che quanto a vivacità culturale ce ne siano più oggi, quantomeno sui media tradizionali. Per fortuna c’è la Rete che ci consente quantomeno di essere Pubblicamente Clandestini. (Tra l’altro, come titolo, tra “Meno letteratura, per favore” e “L’Autore è uno stronzo”, io preferisco decisamente il secondo, e non credo sia per caso che Loredana lo abbia scelto per questo thread).
Non avendo letto nulla del Marchese, evito di entrare nel merito. Intervengo solo per dire, ricordate l’ottimo film “Quills” con Geoffrey Rush nei panni di De Sade?
Non per insistere e diventare tedioso, ma c’è un aspetto del De Sade politico che vorrei esemplificare e che non risulta di facile lettura per un lettore contemporaneo. Quando leggiamo la matematica combinatoria delle torture inflitte nelle 120 Giornate di Sodoma, e delle situazioni più paradossali lì descritte, ad esempio i diversi modi per dare le vittime in pasto alle tigri, è bene ricordare che tra i rivoluzionari dell’epoca il mito dell’antichità classica era molto forte, i richiami al diritto romano (e repubblicano) insistiti, la riconsiderazione del senso popolare della figura del dittatore era più che esplicita, oltre a una pronunciata tendenza verso il modello Sparta, più che verso il modello Atene. Anche tra i philosophe spesso l’atteggiamento era contraddittorio e quanto mai ambiguo. Rousseau scrisse il Contratto Sociale, cioè una formalizzazione della figura del Cittadino, e delle leggi come contratto (appunto) fondato sul principio “la mia libertà si arresta lì dove comincia la tua”. Ma Rousseau scrisse anche un testo oggi quasi sconosciuto anche agli studiosi, il Trattato sulla Corsica, nel quale si proponeva di esplorare le condizioni “utopiche”, per edificare sull’isola una forma sperimentale di governo e di società ispirata a modelli classici e fondata sui contadini. Quel testo aderisce come un guanto alla società egualitaria, ma tirannica che De Sade dipinge in Aline e Valcour. Già da Sodoma, De Sade sembra avvisare, ed è un avviso tutto politico: occhio a non prenderci insieme al diritto romano anche i sacrifici umani circensi. De Sade intuì più di ogni altro che la Tirannia non è soltanto dominio sulle opinioni e limitazione della libertà del singolo e dei gruppi sociali, ma anche dominio sui Corpi.
Questo secondo aspetto oggi tendiamo a considerarlo accessorio (che si parli di Ceaucescu o dei farseschi festini di Berlusconi) mentre dovremo di nuovo imparare a vederlo come spia, cartina di tornasole, e insieme parte fondante ed essenziale di un esercizio del Potere come comando sulle persone ridotte a strumenti, e in particolare come Potere sui Corpi (delle donne, ma non solo). Senza i racconti di De Sade sulla sessualità come strumento ed esercizio di dominio anche tra religiosi, uomini di legge e difensori della pubblica morale, difficilmente si sarebbe arrivati al Conte di Montecristo, altro romanzo apertamente politico, che però tale non viene più, chissà perché, considerato.
La butto lì, lemme lemme.
Se il potere è stupro, il pudore (non nel senso di segregazione, ma di protezione dell’intimità) non è la migliore forma di rivolta?
Sottrarsi all’esposizione, alla visibilità estrema, all’inferno mimetico (Girard) che ne consegue…. Ritrarsi dal pubblico per ridefinire il Comune (non necessariamente nel senso in cui usa questo termine Toni Negri, penso più a Illich e Lasch)
Pubblicamente Clandestino mi piace assai.
Incuriosito da questa discussione ho tirato fuori un libretto comprato anni fa e, probabilmente, mai letto: Sade, Fourier, Loyola, di Roland Barthes e me lo sono finalmente letto per bene.
Però invece della parte dedicata a De Sade mi ha affascinato quella su Fourier. In fondo, anche se in maniera imprecisa o vaga, sento parlare di Sade da sempre, è nell’aria della nostra cultura, per un motivo o per l’altro. Fourier, no. Per ovvi motivi: a chi interessa una delirante, dettagliata, ossessiva anatomia della felicità? In fondo tutta la parte ‘avanzata’ della nostra cultura si appassiona all’horror ed alla descrizione di omicidi e catastrofi, no? A tutti piacciono le distopie mentre le utopie non hanno alcun mercato.
Così sono andato su un sito dell’usato ed ho comprato una antologia curata da Italo Calvino per Einaudi nel 1971. Il giorno che scrivo un romanzo fantasy lo baserò sull’Armonia, una Terra rigenerata dove si mangia cinque volte al giorno, i mari sono diventati di limonata e ci sono in cielo lune viventi e colorate invece di quella verdognola e spettrale che abbiamo adesso, per non parlare del sesso…
Io farei una distinzione tra “critica letteraria” e “opinione lapidaria”… Mi sembra evidente che si tratta di due cose differenti.
Un lettore, secondo me, ha tutto il diritto di esprimere un giudizio breve, conciso, senza alcuna spiegazione… Perché non è un critico. Può esprimersi senza essere obbligato a usare i “ferri del mestiere”.
Chi invece aspira a dare un giudizio più complesso, che possa essere largamente condiviso (non tanto nei contenuti, ma come strumento fruibile da altri), deve giustamente argomentare.
Però sottolineerei un’altra cosa: spesso chi argomenta, chi porta esempi, chi approfondisce ecc – e magari, essendo un lettore più smaliziato ed esigente, non si fa problemi a stroncare – viene attaccato proprio per questo. In rete, ho visto scatenarsi centinaia di flame del genere: se il critico argomenta, a quel punto sono l’autore e gli amici dell’autore che si inalberano. E più si argomenta, più si viene additati come “cattivi” o si scambia il giudizio per un attacco polemico (un commento frequente è: “Perché lo hai recensito se non ti piace?”; oppure: “Non sarebbe bastato dire solo ‘non mi piace’ e passare oltre, invece di approfondire?”).
@Elena, il lettore ha diritto a esprimere il suo giudizio, altri lettori – come me per esempio – hanno ugualmente diritto a non riconoscersi in giudizio tipo “ihihih ke kazzata” espresso da altri lettori. Senza essere nè un autrice nè amica di autori.
@vasily Secondo me le utopie, anche quella che vorresti scrivere tu, hanno tratti distopici.
Come un’utopia foureriana possa trasformarsi in una distopia lo racconta già Hawthorne in ‘Blithdale’.
D’altra parte in un altro romanzo distopico, ‘Il diluvio’, Maggie Gee, adombra nel premier Mister Bliss, seduttivo quanto pericoloso, il fascinoso Blair.
Vengo adesso dall’ascolto di ‘A3. Il formato dell’arte’ dove si è parlato anche della mostra ‘Ritratti del potere’ in corso alla Strozzina di firenze e s’è detto come il potere voglia mostrarsi oggi molto affabile e glamour, sorridente e domestici, sempre intento a promettere cinque pasti al giorno, lune colorate, ecc. ecc., insomma tutto quello che abita i sogni dei loro elettori.
E tu dici che le utopie non hanno alcun mercato oggi. Ce l’hanno, accidenti se ce l’hanno.
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Comunque, per rientrare in O.T., posso dire che i libri che ho citato sono belli, almeno a me mi sono piaciuti un sacco.
E pure la trasmissione A3 è fichissima. Proprio una cifra.
p.s. mi correggo: fikissima.
Una volta a un convegno sul cinema fantastico, udii l’intervento di un irato Lucio Fulci contro la critica cinematografica. In particolare se la prendeva con il fatto che alcuni critici, recensendo i suoi film e riassumendoli in modo sbagliato, dimostravano di non averli visti con attenzione e forse anche di non averli visti affatto. Lui li aveva denunciati. Ignoro come siano andate le cause. Comunque quel giorno dissi a Fulci che a mio avviso quando chiunque, un critico di professione o un semplice lettore, esprime il proprio giudizio , lapidario o meno, in qualche modo espone a giudizio anche se stesso. Dunque perché prendersela? Un giudizio stupido o superficiale, bisogna aver fiducia che si condanni da solo. E comunque un punto di vista, anche ferocemente critico, è sempre interessante da ascoltare perchè illumina una possibile, reale lettura di ciò che lo scrittore, o il cineasta, hanno prodotto. A un Festival dii Venezia, a una conferenza di Francis Ford Coppola, un giovane dal pubblico si alzò e squadernò una sua interpretazione di alcune sequenze di Apocalipse Now. Coppola rispose così: “Io quelle cose non ce lo ho messe, ma se tu le hai viste, vuol dire che ci sono.” Insomma in un “prodotto” culturale che ha anche una sua spiccata natura simbolica, ci sono molte più cose di quelle che l’autore suppone di averci messo coscientemente, e il punto di vista del lettore contribuisce parecchio a “fare il romanzo” (o il film). Altra cosa sono i giudizi liquidatori che appaiono su molti siti privati i cui autori si improvvisano, senza strumento alcuno, come critici. Sono siti chiaramente narcististici il cui “tenutario” si autoproclama autorità indiscussa dal sovrano e insindacabile giudizio. Leggendo su questi siti certe recensioni, non so se ci avete fatto caso, si capisce benissimo com’è fatto colui che scrive e giudica, quali sono le sue ubbie, qual è il suo livello di consapevolezza e di preparazione, ma non si capisce nulla o quasi nulla del romanzo recensito. Il punto è che il romanzo è usato come mero pretesto per poter rimarcare soltanto la figura Giudicante del compilatore. Bisogna prendersela? No, se uno è stupido, si vede. Perchè perdere tempo a litigare con uno stupido? Proiettando se stesso sul web magari crede di darsi evidenza e importanza, ma quello che evidenzia lo rivela facilmente come un totale incompetente. Quante volte, del resto, ci è capitato in una conversazione su un romanzo o su un film, che chi ha pronunciato un giudizio frettoloso e liquidatorio, poi si rifiuti di discuterne? Oh, insomma, per me è così, punto e basta. Una volta mi è capitato di sentire un mio collega fumettista dire che un certo film gli era parso un grande capolavoro. Ho semplicemente osservato: ” A me non è sembrato…” Mi ha interrotto subito precisando: “Per carità, non dirmi cosa ne pensi, se no magari mi fai venire dei dubbi e vado in confusione.” Questi atteggiamenti mi lasciano sempre allibito. Dopotutto ha senso discutere se si è reciprocamente disposti a cambiare opinione. A me è capitato tante volte, al termine di lunghissime e accese discussioni con colleghi, di ammettere : Sì, mi hai convinto, hai ragione tu. Mica mi sono sentito perdente” per questo, anzi mi sono sentito arricchito da un altro punto di vista che non avevo considerato bene.
Molto interessante il tema di Vasily sulla felicità, ma ho già scritto troppo e non voglio prevaricare. Accenno solo che a mio parere la felicità dopo un pò viene a noia. E c’è anche una sorta di “equilibrio” nelle cose, per cui più intense sono le fasi di felicità , più a un certo punto le cose precipitano , fino alla violenza insensata. Anche su questo tema Sade e gli utopisti hanno molto da dire.
@Manfredi – Wu Ming1 (e tutti)
Mi sa che è un po’ OT su questo thread, ma la discussione precedente mi ha stimolto a scrivere questo pezzuolo, che vi propongo
http://valterbinaghi.wordpress.com/2010/10/24/personale-comune-pubblico-di-valter-binaghi/
stimolto = stimolato
Caro Valter, tu proponi nel tuo pezzo alcune opzioni estreme. C’è naturalmente e ancora, per fortuna, un ritrarsi che non è cedere all’isolamento (peraltro spesso benefico) bensì libera scelta di non intrupparsi in compagnia sgradite. Ad esempio: se uno scrittore o un comico o un professionista, o un invitato non politico di qualsiasi genere ha avuto la grande fortuna di non incontrare mai in vita sua, che so, un Belpietro di turno, perché diavolo accogliere l’invito funesto ad apparire congiuntamente nello stesso programma? Certe benefiche separazioni sono migliori di un presunto dibattito democratico. In apparenza si accetta un invito a una trasmissione e uno ci va presumendo che per qualche motivo si sia scelta la sua presenza in segno di apprezzamento individuale . In realtà il programma sceglie gli ospiti con un criterio d’assieme, formando-costituendo scombinate compagnie di giro. Ora se di spettacolizzazione si tratta, come si tratta, in teatro chi accozzerebbe mai una compagnia di attori incompatibili, e incapaci dunque di rappresentare nulla di decente insieme, se non rimarcare la reciproca distanza? Il punto è che non c’è modo, nella discussione, di fare valere quella distanza e differenza, perchè all’occhio dello spettatore gli interpreti mettono in atto lo stesso identico spettacolo per il semplice fatto di apparire insieme. In sostanza, è bene non andarci in TV, per entrambi i motivi : personale (evitare di incontrare persone che non ti garbano) e pubblico (non faccio e non voglio fare parte di quello spettacolo). Si può aggiungere, riguardo al web, invece, che consente finalmente , certo nelle occasioni migliori (come questa ad esempio), uno stile di conversazione lakota. Cosa intendo? I lakota prima fumavano insieme, poi parlavano. Quando uno aveva finito di parlare, si aspettavano dieci secondi (che a volte potevano prolungarsi per minuti e minuti) in modo da riflettere su quanto udito e su cosa eventualmente rispondere, solo allora un altro prendeva la parola. Perché non c’è vera comunicazione che non nasca dal silenzio. Ora sui forum, uno legge una cosa. Ha il tempo di rileggerla, di meditare se ha voglia di rispondere oppure no. Se raccoglie uno stimolo e gli va di andarsi a cercare, che so, una citazione da un libro, ha il tempo di farlo, di selezionarla, di riassumerla, magari, ad uso degli altri. E’ uno stile di conversazione lenta, e avvolgente, perché il cerchio tribale, tra l’altro, non è mai lo stesso, altri possono sempre aggiungersi . L’insieme è frutto di un fare collettivo, in cui anche i diversi tra loro, anche quelli che non si conoscono affatto personalmente, scelgono ciascuno e finchè gli va di restare in comune e di cooperare a un risultato appagante per tutti. Di fronte a questo, tutto il chiacchierare che si fa sul virtuale come contrapposto al fisico è fatuo. Credo sia grazie alla virtualità che riusciamo ad esprimerci, perché che ci piaccia o no, alle regole di una decente conversazione “in presenza fisica” abbiamo perso l’abitudine (anche nelle migliori famiglie, è giusto dire) e fortissima è sempre la tentazione centripeta cioè l’impulso a centralizzare la discussione, così che il più brillante o il più insopportabile finisce per monologare. Ci avete fatto caso che negli ultimi trent’anni il teatro stesso si è tutto sbilanciato dalle compagnie ai monologhi? Dunque teniamoci la virtualità usandola bene, in attesa di poter imparare di nuovo come si sta “fisicamente” insieme e come, con quali regole, si dovrebbe discutere insieme.
Uno stile di conversazione lakota.
Fantastico. E’ evidente che ci sto.
Mi ricorda anche cose belle, di anni fa.
Sul Web, resta il problema della tracciabilità di tutto.
Ma è evidente che questo rischio si corre, altrimenti è l’afasia.
Mi permetto di postare anche qui un commento che ho fatto su un altro thread (Letteratitudine di Massimo Maugeri) e che ha a che fare con lo stato della Critica Letteraria in Italia. Mi chiedo in proposito se WM1 la pensi come me e quantomeno se avverta lo stesso disagio. Ecco il post: il prossimo 3 novembre andò a Istanbul per la Fiera del Libro e del Fumetto. Sono molto curioso di vedere se in Turchia troverò lo stesso fattivo confronto tra scrittori, lo stesso cosmopolitismo aperto che ho trovato in altri convegni internazionali e che a mio parere caratterizza questo momento letterario, anche se i critici di casa nostra non se ne sono accorti e continuano ad andare in cerca dello “specifico italiano”, delle “nuove generazioni di scrittori italiani” (come se si venisse immessi in letteratura a ondate generazionali successive) e a valutare il lavoro degli scrittori in generale in relazione a “scuole nazionali” spesso del tutto inesistenti. L’ignoranza della critica accademica rispetto al quadro operativo della scrittura in questa epoca globalizzata, non manca costantemente di sorprendermi, anche nel campo dei riferimenti. Non riesco personalmente a dare la minima credibilità a critici e in particolare a storici della letteratura contemporanea, che MAI in vita loro hanno scritto qualcosa su autori come Ken Follet, Grisham, Stephen King, Chrichton, quasi la loro influenza sia stata nulla, o da confinare al dominio dei “generi” , a una sorta di campo “popolare e di mercato” inteso, da quella critica, come Pre-Letterario, e tutto sommato insignificante. Il risultato è che si occupano di opere DAVVERO insignificanti, coltivando e militando senza rendersene conto nel più assoluto provincialismo culturale, alla ricerca di una letteratura di cui in genere lamentano l’assenza, senza capire che è assente proprio perché non c’è. Non varrebbe la pena di occuparsi di quella che c’è?
@ Manfredi
Per carità, non pretendo di intermene quanto lei, però vorrei evidenziare due mie grosse perplessità.
La prima: secondo me Follet e Chrichton SONO insignificanti. Il fatto che abbiano venduto un bel po’ in poco tempo non ha alcun significato. Il tempo è galantuomo: Cechov vende 10mila copie l’anno, ma da 100 anni. È lui il best-seller. Quindi i critici fanno bene a orientarsi verso questi tipo di letteratura, lasciando la narrativa di consumo, ancora troppo vicina a noi, dove deve restare.
La seconda: Che l’ha detto che non c’è? Secondo me non stiamo affatto vivendo un periodo nero della letteratura, a livello mondiale sicuramente no, e anche in Italia ci sono voci originali, anche potenti. E in ogni caso viviamo in un Paese dove solo il 25% della popolazione è considerabile altamente alfabetizzata. Non sono la critica o la letteratura ad essere marginali. È l’Italia ad esserlo. E questa condizione dà forma a tutto il resto.
Parlare di questi generi e sottogeneri dai numeri muscolosi ci illluderebbe, ma il tempo e la sua capacità di far sopravvivere solo chi se lo merita davvero svelerebbe l’infingimento.
Ogni volta che si guarda alle classifiche dei decenni, o addirittura secoli passati, si resta di stucco per quanti scrittori mediocri sono stati portati agli altari, mentre l’autentica grandezza era appena riconosciuta (tranne importanti eccezioni). Perché dovrebbe essere diverso oggi?
Per non parlare della modificazione del gusto, che fa già il suo mestiere, molto meglio di quanto può farlo il nostro senso di colpa nei confronti dei contemporanei.
@ Marco. Il mio era un invito a considerare certi autori, non perchè bestselleristi, ma in quanto autori di indubbio rilievo. Domenica scorsa su il Sole 24 ore, è stato ripubblicato un vecchio articolo di La Porta (di cui qui si discute) a proposito della insanabile differenza tra Pasolini e Eco. Su Eco, La Porta riportava i soliti giudizi che lo dipingono come un erudito che sommerge il lettore della sua erudizione, al puro scopo di farne sfoggio. Giudizio, a mio avviso, piuttosto miope. Chrichton è assai più pieno di erudizione (scientifica, nel caso) di Eco. E’ un autore che premette a un’avventura tra dinosauri clonati, una lunga discussione sulla teoria del Caos e sui frattali. (Temi non certo da pubblico bue). E le lunghe, minute ricerche di Congo? Io ho la sensazione che una certa scuola critica italiana tenda a considerare la documentazione come un inutile fardello. Il loro interesse è rivolto a una narrativa nazionale che si occupi dello strettamente contemporaneo, raccontando vite e scorci sociali esemplari che ci raccontino “come viviamo”, il che intendiamoci, va benissimo , ma non esaurisce certo il compito della Letteratura, che è anzi pericolosissimo ridurre a sociologia. Dietro questo atteggiamento ci vedo una radice ancorata agli anni 60, al famoso anno ’63 in particolare, da cui Eco si è distaccato, ma cui altri sono rimasti avvinti. Nel gruppo 63 covavano pulsioni anti-romanzesche (riflesse dal titolo esplicito del saggio di La Porta) che hanno fatto danni negli anni seguenti, anche al di là della loro stessa responsabilità. Parlando con Paco Taibo II e con Luis Sepulveda, che hanno la mia stessa età, ho scoperto che di questo atteggiamento anti-romanzesco la nostra generazione (immediatamente successiva a quella dei 60) ha parecchio sofferto. Tutti noi, tanto in Italia, quando in Francia e in America Latina, nel decennio 68/78 abbiamo subito (e anche scelto, intendiamoci, e poi eravamo giovanissimi) una condizione di clandestinità rispetto al romanzo in generale e al romanzo popolare in particolare. Da ragazzi tutti noi avevamo adorato il romanzo francese alla Dumas, alla Hugo (quanta erudizione in Hugo e in Tolstoi!) e anche quello avventuroso e scombinato di Emilio Salgari. Però soltanto con il cosiddetto riflusso degli anni 80, ci siamo messi a scrivere romanzi. Prima il nostro interesse era rivolto alla militanza politica, alla contro-informazione, alla saggistica e, tra le “arti” alla musica, al teatro e al cinema. Sembrava allora (al di là di “Cent’anni di solitudine”) che il romanzo fosse finito, o da superare con Anti-romanzi. Se riaffiorava un romanzone ( “La Storia” della Morante) eravamo i primi a diffidarne, a restare più che perplessi rispetto alla retorica esibita, allo stile letterario indubbiamente d’antan, invecchiato, non più in sintonia con il nostro istintivo e più “ritmato”sentire estetico, e con il nostro gusto di lettori errabondi che mescolavano i Classici all’hard Boiled, senza trascurare i Fumetti. Ora: se si indaga la narrativa contemporanea alla ricerca di un modello letterario neo-sessanta, mi pare ovvio che poco si trova, e quel nuovo non è significativo delle tendenze in atto, casomai di una nostalgia. Leggiti, Marco, i romanzi italiani che elencano Asor Rosa e Guglielmi nelle loro rassegne critiche, ma davvero sono così esemplari? E come si connettono, se si connettono, al profilo della letteratura internazionale? Non è che gli è sfuggito qualcosa cui altri della loro stessa generazione (Eco, Dossena, Del Buono, Faeti) sono stati invece e per fortuna sempre attentissimi? Riguardo al caso King, non ritieni che lui e molti altri autori dell’horror reinventato degli anni 80, siano stati molto più significativi per la storia della narrativa americana, molto più sperimentali e innovatori, di tanti “minimalisti” nostalgici del Giovane Holden, incapaci di mettere in scena altro che se stessi, e che oggi risultano a distanza di un paio di decenni, quasi illeggibili anche perché il loro repertorio merceologico di riferimento somiglia a un Carosello di Loghi Defunti? E ti pare un caso che l’autore anni 80 di maggior rilievo (Bret Easton Ellis) sia visibilmente nutrito d’orrore più che di sociologismo spicciolo? Insomma, io spesso mi ritrovo allibito di fronte a casi tipici da “Lettera Rubata” di Edgar Allan Poe. Si va a cercare ciò che manca negli angoli più risposti e si trascura di considerare l’evidente, sotto gli occhi di tutti. Con la scusa del Best-Seller (da cui è più che comprensibile e giustificato prendere distanza) si ignorano romanzi di assoluto rilievo, dopodiché con essi (giudicati magari piattamente di consumo, quali non sono affatto) si buttano a mare anche il Rushdie dei Versetti Satanici, il Littell delle Benevole, il Pamuk di Il mio nome è rosso, e una quantità di altri romanzi che contengono Pensiero e Visione, oltre che documentazione unita a capacità espressiva. Però, come dico, la mia è un’opinione personale. Per il resto sono abituato a frugare in tutti gli angoli del Letterario, e non ho disegnato neppure la lettura di alcuni Harmony, per cui figurati… la lettura è bene sia onnivora, ed è consigliabile per tutti leggersi almeno ogni tanto cose che supponiamo “a priori” non debbano piacerci, perché questo aiuta a muovere i pensieri, ad approfondire altri punti di vista, e a compiere scelte più consapevoli.
“Disegnato” stava per “disdegnato”,
Sì, ma recentemente mi è venuta una curiosità ed ho controllato su Ibs: non sono più in commercio i libri di Harold Robbins che un tempo andavano alla grande ed oggi ingolfano le bancarelle. I lettori che lo amavano sono morti con lui, come un giorno moriranno quelli che amano Lansdale ed Ellroy. E’ vero che non bisogna snobbare la cultura di massa ma un minimo di conoscenza storica rivela che nel 99% dei casi il tempo la rende molto più illeggibile di quella ‘letteraria’. Discernimento sta nel distinguere quell’1% (gente come Dumas, per intenderci) a cui non succede perchè c’è qualcosa in più. L’ostacolo più grande a questo riconoscimento sono i nostri piaceri generazionali, le cose che un tempo ci servivano a fare status e che oggi alimentano il mercato della nostalgia.
E riguardo alla curiosità letteraria che dovrebbe sempre accompagnarci (anche perché se non si legge, si scrive roba brutta), vorrei ricordare i versi di de Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.
Ripeto. I nomi che ho citato, e avrei potuto citarne di più, non costituiscono per me “categoria”, ma autori. “I Pilastri del cielo” di Ken Follett è un grande romanzo. Wilbur Smith , ad esempio, non l’ho citato perché ne ho letto uno dei suoi romanzi, e mi è parso una cacata pazzesca. Poi in generale, come dice Vasily, ai posteri l’ardua sentenza, è evidente. Byron era il poeta più popolare e insieme più celebrato del suo tempo. Oggi è polveroso e davvero non regge il confronto con Shelley e con Keats. Noi però siamo responsabili dei nostri giudizi, non di quelli dei posteri.
Giù le mani da Lord Byron! Almeno una sua opera – il Don Juan – è sopravvissuta per chi chiunque abbia un po’ di spirito e gioia di vivere. Ogni estate, al mare, me lo rileggo – è perfetto per la spiaggia.
Sei uno spasso, Vasiliy! I consigli per la lettura in spiaggia sono sempre esilaranti, sono diventati un genere giornalistico. Sempre sul Sole 24 ore, prima dell’estate è uscito il rituale paginone con consigli di VIP di varia natura (tra loro anche la Meloni, quella delle politiche giovanili): c’era chi consigliava i Promessi sposi, chi la Divina Commedia… tipiche letture da Pinne Fucili ed Occhiali. Se mai qualcuno dovesse chiedermi consigli, prendo nota e gli rifilerò Byron! Così impara!
Ovviamente in originale – credo che al momento non ci sia alcuna traduzione italiana completa.
Comunque ad Auden piaceva: Don Juan è poesia leggera al meglio, puro ritmo e spirito ed è una grande disgrazia che Byron non abbia potuto terminarla come voleva, dandoci il primo grande romanzo dell’Ottocento…
Sai, confesso che mi hai incuriosito. Ci fosse un rinascimento byroniano, ne sarei così strabiliato che finirei per accodarmi! Ti confesso che “Il Corsaro” proprio non riuscivo a leggerlo da quanto mi sembrava enfatico, tronfio e vuoto… ma a volte lo stile può distrarre da altre valutazioni. Anzi, per me, è il primo scoglio. Adoro la varietà stilistica, ma certi stili mi urtano… e magari così mi perdo cose importanti.
Gentile Loredana Lipperini,
ho dato una scorsa ai numerosi commenti al Suo intervento circa l’affermazione del critico La Porta e sono rimasto stupito di non trovarvi alcuna riflessione sulla considerazione principale da Lei sollevata:
“Il punto è che santificando il diritto INDIVIDUALE del lettore si mette in secondo piano una dimensione collettiva e comunitaria della lettura e della condivisione dei testi. Vecchia storia? Vecchissima. Inutile parlarne? Direi di no.”
Nessuno ha preso in considerazione ed espresso la sua opinione relativamente alla suddetta “storia”, come mai? E Lei potrebbe esplicitare il suo pensiero in proposito?
Grazie e La saluto con simpatia (sto leggendo il Suo ultimo splendido libro sugli esseri umani – NON sui “vecchi”).
Florindo Pirone
@ Florindo. Forse, nessuno si è soffermato sulla questione perché in proposito siamo tutti d’accordo. Cos’è un blog (fatto bene) se non uno strumento per esplorare e diffondere la “dimensione collettiva e comunitaria della lettura e della condivisione dei testi”?
Gentile Gianfranco Manfredi, riporto la frase conclusiva di Loredana Lipperini: “Il punto è che santificando il diritto INDIVIDUALE del lettore si mette in secondo piano una dimensione collettiva e comunitaria della lettura e della condivisione dei testi. Vecchia storia? Vecchissima. Inutile parlarne? Direi di no.” Anche io direi di no, ma direi di si a riflettere sui motivi e le ragioni di questo no. Senza darli per scontati e senza trascurare di esaminare i motivi e le ragioni di chi sostiene invece “il diritto INDIVIDUALE del lettore”. Siamo sicuri di avere tutti le stesse idee in proposito e di star parlando della stessa cosa?
Grazie per l’attenzione e un cordiale saluto
Florindo