La cronaca di Raffaella De Santis per Repubblica e i manifesti dei TQ sul loro blog.
Adesso il collettivo c´è. O meglio c´è, ma è dimezzato. Il movimento TQ da oggi esiste ufficialmente, con tanto di manifesto nero su bianco e documenti programmatici, ma all´appello mancano molti della prima ora. Erano partiti in cento, alla conta finale però la generazione degli scrittori ed editori “Trenta-Quaranta” ha perso molti suoi figli per strada e le firme ai documenti sono state solo cinquantadue.
Il “movimento” forse si è mosso troppo, forse ha subito qualche scossa imprevista, o forse più semplicemente, come dicono i suoi fedelissimi, si è andato definendo nella sua identità e quindi inevitabilmente ha finito per restringere i suoi confini. L´anima si è fatta sempre più politica e le prime discussioni letterarie sono state messe da parte. Critica aperta all´industria editoriale, occupazione degli spazi pubblici, lotta al degrado dell´informazione e della scuola, difesa dei diritti del lavoro. Addirittura azioni di “guerrilla” (“azioni di disturbo culturali e artistiche”). Il lessico dei TQ non fa sconti, e dunque è fatale che perda pezzi: da una parte i “letterati”, dall´altra i “politici”. Da una parte chi sperava in un nuovo Gruppo 63, dall´altra chi temeva un nuovo Gruppo 63.
Certo, qualche defezione era immaginabile, ma non la spaccatura tra i padri fondatori, coloro che il 29 aprile scorso lo avevano tenuto a battesimo nella sede romana dell´editore Laterza. Così dopo Mario Desiati, che da mesi si era defilato («non aderisco a iniziative collettive, perché tengo alla mia libertà individuale»), ieri anche Giuseppe Antonelli in dirittura d´arrivo ha deciso di non firmare i documenti finali.
«Siamo cresciuti in ordine sparso, senza un´ideologia comune. Senza metodi, strumenti, terminologie condivise e questo forse è stato un bene. Qui invece, non solo la premessa è politica, ma precede tutto il resto». Sono queste le prime righe della lettera di congedo di Antonelli dal gruppo. Per lo storico della lingua qualcosa non ha evidentemente funzionato come previsto. Così se ai tempi dei primi incontri si augurava di organizzare una sorta di “Woodstock generazionale”, adesso il professore TQ è tornato sui suoi passi e ha detto no.
La generazione del riflusso è comunque pronta ad uscire da dietro le quinte e a conquistare la scena, riscoprendo l´”impegno”. E per farlo si fa promotrice di una nuova visione della cultura. Una visione così espressa nel “Manifesto TQ Editoria”: «Nell´operare di TQ, due sono le preoccupazioni che ne dettano le scelte: etica e qualità». Come? Difendendo i “libri che valgono” e la “trasparenza” degli editori, combattendo la “concentrazione nelle mani di pochi grandi gruppi editoriali”, chiedendo soldi per la cultura (“contratti e tariffari di riferimento”), rifiutando il sistema delle recensioni a pagamento e così via… E qui si sono create le prime fratture.
«Non mi sento di condividere l´assolutizzazione che viene fatta del concetto di etica, che individua un´unica morale e elegge un gruppo di persone a garante e vigilante», spiega Antonelli, tenendo a precisare che la sua presa di distanza non è una frattura, ma semplicemente un altro modo per “mantenere aperto lo spirito del dialogo”. Ma chi è che può decidere se un libro è bello o brutto? Per Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Grazie, «non bisogna arrendersi all´idea di vendere solo la letteratura cattiva, quella digestiva». Insomma, per i TQ non solo si può, ma si deve stabilire in anticipo quali siano i libri che meritano e segnalarli. A Simone Barillari sarebbe piaciuto ad esempio inserire nel documento finale un “marchio di qualità” per i libri di prima pubblicazione, ma la proposta si è arenata lasciando il posto a una più generica “bibliodiversità”.
Un collettivo costituito da una generazione di individualisti è però una scommessa. Quasi una contraddizione in termini. Ma la virata politica dell´ultima fase a molti piace. Così a Gabriele Pedullà: «La nostra è una generazione di solitari che vuole ricominciare a fare politica», spiega lo scrittore, anche professore di Letteratura contemporanea. Dunque se qualcuno si è sfilato, altri, come Pedullà appunto, non solo sottoscrivono i documenti finali, ma ne apprezzano la distanza dallo spirito troppo vago delle origini: «C´è una maggiore attenzione ai problemi politici, dunque rispetto alle mie perplessità iniziali oggi sono più convinto».
Nessun dubbio. I documenti parlano chiaro. I TQ sono un gruppo politico e non un´avanguardia artistica o letteraria. Si dicono indignati e rivendicano “azioni comuni” per combattere il “diffondersi del neoliberismo come nuova epidemia dell´Occidente” (è quanto si legge in apertura del Manifesto politico). Parole che sembrano prese in prestito dal secolo scorso e che parlano della “responsabilità collettiva” di un´intera generazione chiamata finalmente ad “agire insieme”. Nicola Lagioia ha scelto di firmare, nonostante non sia d´accordo su tutto: «La nostra generazione è cresciuta nel vuoto ideologico degli anni Ottanta. Per anni abbiamo vissuto una situazione di prostrazione, come se fossimo usciti da una guerra, senza che la guerra ci sia mai stata». Insomma la grande sfida è quella di imparare a lavorare insieme. Ci crede Giorgio Vasta, tra i cinque che hanno lanciato l´idea del movimento, insieme a Desiati, Alessandro Grazioli, Lagioia, e al dimissionario Antonelli: «La nostra guerrilla è attenzione al valore civile della discussione». Concretezza, dunque: meglio pochi, ma buoni.
Sono assente dai commenti da vari giorni, e forse qualcuno lo avrà già detto: ma se vogliamo parlare di bibliodiversità come vuole TQ dobbiamo considerare l’ecologia del libro anche al di fuori della filiera produttiva-distributiva.
i “30 giorni” sono un collo di bottiglia, e strettissimo per i piccoli editori, ma è anche vero che distribuzione e rifornimento ormai molto rapidi: il problema è far sapere a ciascun tu-lettore che libri esistono un pochino oltre la fatidica soglia dei 28 giorni dopo.
Penso per esempio a che effetto avrebbe una legge che impone a tutti i canali TV generalisti di dedicare settimanalmente uno spazio ai libri, non dico in prima serata ma almeno in fascia serale, e magari ai libri non usciti negli ultimi 30 giorni. E magari su questi programmi ci sono sgravi fiscali di qualche tipo.
Mi chiedo se gli editori sarebbero in grado di inventare strumenti di promozione/visibilità per i libri di ieri. Anche qui, si possono immaginare vincoli+agevolazioni per rendre un’opportunità e non solo un gravame questo scenario.
Ci sono a volte, negli inserti culturali dei giornali, recensioni di libri usciti mesi prima, e magari anche già recensiti: anche questa “buona pratica” può portare il suo contributo: non mancano giornalisti e direttori di testata che potrebbero essere sensibili o sensibilizzati al problema.
Insomma, per me i casi sono 2: o player autorevoli nella filiera del libro e anche al di fuori di essa fanno mosse generose, innovative e lungimiranti, oppure il governo legifera obbligando con intelligenza tutti a farle.
Mah, vedremo ora se oltre al dire ci sarà anche il fare. Comunque è evidente che la “deriva libraria” si inserisce in un complessivo abbassamento della qualità a favore della quantità.Non dimentichiamoci che viviamo in un mondo in cui impera il capitalismo, e se si decide di lottare la lotta deve essere necessariamente “politica” o rivoluzionaria.
Poco fa leggevo un articolo sul design (di Stefano Giovannoni) in cui si dice: “In realtà le aziende storiche del design riescono sempre più raramente a creare “prodotti” degni di essere chiamati tali: i loro best seller in passato duravano decenni, ora nel migliore dei casi una o due stagioni! Gli stampi realizzati in Cina permettono spesso di moltiplicare il numero degli oggetti, con evidente abbassamento della qualità e della durata dei prodotti sul mercato. Ad esempio Alessi in passato sviluppava circa 20/30 prodotti/anno, ora le stesse persone dell’ufficio tecnico, con minori investimenti, ne sviluppano 60/70”.
Deve essermi sfuggito qualcosa. Leggendo il manifesto sull’editoria dei TQ ho trovato condivisibile buona parte dei principi che vi sono espressi, ma quando si parla di sostengo pubblico ai libri di qualità non capisco chi sarà a selezionarli. Spero non una commissione, perché nelle commissioni in generale non ripongo un gran fiducia. A perte questo aspetto, comunque, molte cose sono da condividere. Anzi, sono già condivise da chi da tempo parla di editoria digitale. Dalla “correzione delle storture provenienti dalle concentrazioni editoriali” fino all’ecosostenibilità, dalla longevità dei libri al “catalogo dei libri dimenticati”. Eppure, il digitale non è mai citato nel manifesto, a meno che non mi sia sfuggito qualcosa. Non so se siamo davvero “alle soglie della rivoluzione digitale” come afferma De Michelis, ma mi sembra quantomeno curioso che in un manifesto sull’editoria, oggi, non si faccia alcuna menzione di questo nuovo strumento.
Arma Letale 1: Mel Gibson, meno che trentenne, affronta a cazzotti e revolverate una decina di cattivoni. Gli sparano, schiva i proiettili. Si lancia dal terzo piano sparando a sua volta mentre vola come un angelo. Dietro di lui, Danny Glover più che cinquantenne, arranca e annaspa per stare dietro al giovane collega. Ma anche lui fa la sua parte. Prende e dà cazzotti, spara. Poi prende una randellata e va per terra. Dal suolo riesce comunque a mordere il polpaccio a un cattivone. Quindi, con la 38, uccide l’ultimo cattivone rimasto. Mel Gibson si avvicina al socio: “Visto? Per noi, dieci figli di puttana sono anche pochi”. E Danny Glover replica: “Sono troppo vecchio per queste stronzate”.
Ora, TQ non è una stronzata. Ma c’è davvero il rischio che chi sia “over” abbia qualche difficoltà a capire.
Se, per esempio, nei TQ esiste una sorta di ispirazione politica be’, sinceramente non mi pare la parte essenziale a meno che questa non sia una specie di tesseramento virtuale quanto obbligatorio. Personalmente credo che la “non-politica” sia cosa divera dalla “a-politica”. Per cui Liala è cosa diversa da Flaiano.
Poi, quali sono i “nemici”? Leggo (ma forse ho inteso male) riferimenti al Novecento. Leggo di scrittori e di scrittura “asservita” a non so cosa. Di cosa si parla? Certo, un manifesto ha valore in sé ma è auspicabile che negli incontri reali e “umani” si facciano nomi e cognomi. Il Gruppo ’63, per esempio, sparò a zero contro Cassola, Pratolini e Bassani. I TQ a chi sparano? A Eco? A Moravia? A Patti? Alla Ortese? Alla Sapienza? Ad Arbasino?
Dove sarebbe, per esempio, il “male” di un Ercole Patti? Un narratore come oggi ce lo sognamo. Così come ci sognamo Chiara e Gadda.
Poi, rivoluzione nella filiera editoriale. Bene. Devo quindi pensare che nei TQ ci siano editori e/o editor che, non solo aborrono l’editoria a pagamento, ma anche le scorciatoie. Meno male, Perché a me è capitato di parlare in camera caritatis (e quindi non faccio nomi) con editori grandissimi, medi, piccoli e piccolissimi. Una cosa, per loro ammissione, li accomuna nel 90 per cento dei casi: la falsità del “leggiamo tutti i manoscritti che ci inviate”.
In realtà mi è stato detto: “embe’, questo e quello che diciamo, ma come si fa a leggerli tutti? meglio se la persona è già conosciuta… se ce lo presenta qualucuno. si sa, no?”.
Diciamo che ufficialmente non si sa, ma si immagina. Si immagina che i manoscritti passino direttamente dalla “posta in arrivo” a “cestino”. Se il manoscritto è cartaceo, invece, va direttamente nella macchinetta tritacarta per ricavarne coriandoli per il Carnevale.
Ci sono editori che nel sito scrivono: “non si accettano manoscritti di esordienti se non espressamente richiesti”. Evidentemente hanno in redazione dei simil rabdomanti che riescono a carpire telepaticamente se a Cornillo Vecchio o a Pollena Trocchia c’è un esordiente che ha un buon manoscritto nel cassetto.
E poi i costi. Che il libro venga acquistato in una libreria in muratura o in un negozio virtuale, si spendono sempre e comunque degli euro, e non i soldi del Monopoli.
Per alcuni, il best seller deve e può costare di meno rispetto a una raccolta di mie poesie (non ne scrivo ma faccio un esempio senza tirare in ballo situazioni reali) perché di best seller se ne vende a tonnellate quindi il prezzo può essere contenuto. Per altri, invece, sono le mie poesie a dover costare poco se si vuole che le legga almeno il mio doberman.
Poi, come dice Loredana, “partirono in 100 e sono arrivati la metà”. Succede, per carità, ed è anche sintomo di fermento intellettuale. Ma i TQ non sono il parlamento europeo né l’Onu. Parlano di questioni importanti, va bene, ma non così importanti come l’opportunità o meno di sganciare un’atomica sull’Iran. Per cui, se si sono divisi già sull’incipit, c’è da temere che questo romanzo possa essere tormentato quanto mal assemblato.
Ciò detto, mi piace lo spirito. Mi piace il tentativo di essere nocciolo nella marmellata culturale italiana. Purché in buona fede (e non ci sono retropensieri né allusioni), altrimenti con il nocciolo ci si spacca i denti.
significativo (e positivo) che al tanto pubblicizzato “disgusto della politica” corrisponda parallelamente una crescente politicizzazione di soggetti “nuovi”.
E due. Non è mio l’articolo, è di Raffaella De Santis, Enrico. Dunque, la citazione non viene da me.
vabbe’ Lippa, intendevo dire che qui è riportato. e comunque, ovemai, non è che ti ho attribuito una bestemmia. orsù! 🙂
Ho messo lo stesso commento su NI e Vibrisse:
Di che si tratta infine?
Di autopromozione. Di sè e dei propri sodali. Di un “politicamente corretto” nel fare scrittura, editoria, cultura e spettacolo.
Sperando nel consenso e nello sfruttamento della militanza gratuita di un pubblico potenzialmente ampio, quello dei lettori “de sinistra”. E’ dalla fine del movimento che poteva ancora credersi rivoluzionario (cioè dal ’78 o giù di lì) che le conventicole intellettuali della galassia pseudo-radicale si comportano così. Il ragionamento è più o meno sempre quello: noi siamo i buoni, abbiamo provato a cambiare il mondo, se non ci è riuscito non è colpa nostra. Adesso potremo pure averne un po’ di rendita, in termini di credibilità e visibilità nell’inferno capitalistico, in quella nicchia dove si fabbrica l’unico prodotto per cui il concetto di merce vale e non vale, cioè quello culturale, o no?
Così gli ex direttori di Lotta Continua sono diventati anchorman, Attila uno scrittore di successo, i fuorusciti dai centri sociali presidiano le case editrici e i blog alla moda. Ma prima lo facevano da singoli, la novità è che in gruppo è meglio, chiedendo addirittura di rappresentare un’intera generazione anzi due.
Sotto un marchio che non essendo quello di una Chiesa o di un Partito può somigliare solo a quello di una loggia massonica.
Mi spiace perchè tra i firmatari ci sono persone e scrittori di cui ho stima (Raimo, per esempio). Ma è malcostume.
Non diverso dal familismo mafioso che dicono di voler combattere.
In fondo che c’ è di male a mettersi in luce firmando manifesti?
Forse oggi alcuni lettori oggi scoprono nuovi nomi, altri sanno meglio da chi girare al largo.
C’ è di peggio, per esempio pietire la leggina di casta pro tariffa minima (o anti sconto massimo).
Le vie per difendersi dalla concorrenza sono infinite, e alcune (quelle che evitano i Parlamenti) sono meno peggio di altre.
@ broncobilly:
dipende dai manifesti. ne scrisse qualcuno anche hitler
Già Hitler dopo 10 commenti? Reductio Precox.
@Valter. Permettimi semplicemente una nota, sul tuo commento, che cita esperienze politiche dalle quali TQ si allontana di molto (Lotta Continua, etc.). Tu dici: “Il ragionamento [di TQ] è più o meno sempre quello: noi siamo i buoni, abbiamo provato a cambiare il mondo, se non ci è riuscito non è colpa nostra.” Io mi sentirei di cambiare così la tua frase: “Siamo tutti collusi, tutti cattivi, se non facciamo niente. Se non riconosciamo un’autocensura, un’autorepressione più o meno diffusa nelle nostre e altrui pratiche. Proviamo a cambiare il mondo, o meglio alcune degenerazioni tutte italiche. Ma da soli non possiamo farlo. O la colpa sarà di tutti, in primis nostra.”
@Gregori.
E chi diavolo è Hitler?
Scusa il controfattuale, mi sono immaginato per un attimo la Storia con Hitler “firmatore” indefesso di pessimi Manifesti. E poco più.
Voglio dire, distinguerei le idee dai fatti e tenderei a dare una protezione in più alle prime.
Persino, e guarda fin dove arrivo, se non mi piacciono.
Pena slittare su un piano inclinato che ci porta dritti dritti in un mondo… con l’ “aggravante per omofobia”.
Mamma come sono fuori moda, c’ è qualcosa che non fila. Forse hai ragione tu.
Provo a ridirlo.
L’ idea di “guerriglia culturale” puo’ anche essere un’ emerita stronzata per darsi un tono e fare l’ occhietto. Resta preferibile all’ azione di chi, esempio, limitando gli sconti via decreto sfila banconote dal già esiguo portafoglio di noi lettori. [Il tutto con sermone annesso sul nostro sommo bene]. Ma si limitassero come tutti a “sfilare”!
Tra un’ idea maldestra e un’ azione prepotente, so ancora chi mettere per primo nel mirino.
“Questo non è un appello che basti firmare: questo è un invito, aperto a tutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e delle arti, a pensare e ad agire assieme, deponendo egoismi e rivalità; a mettere in gioco parte del proprio tempo e in discussione il proprio ruolo artistico o intellettuale, e a essere fortemente, fieramente cittadini, operando da mediatori tra i saperi, intervenendo nel dibattito politico, immaginando nuovi modelli di pratiche sociali. È un invito che estendiamo poi a tutto il Paese, un invito al dialogo e alla formazione di comitati TQ, rivolto a tutte le categorie di trenta-quarantenni che vorranno lavorare assieme a noi: dai ricercatori agli economisti, dagli artisti di altre discipline ai lavoratori dello spettacolo, dagli insegnanti agli operai, dai free lance ai precari del terziario avanzato – molti di loro, proprio come noi, alle prese con una somma ennesimale di ruoli distinti: nella stessa giornata, più volte al giorno
In questo tempo di emergenza l’adesione a TQ si fonda dunque su un impegno etico in vista di un’azione politica, su un passo personale in vista di impegni collettivi. Siamo ormai pienamente convinti, infatti, che non sia più sufficiente dedicarsi ciascuno per sé, con distaccata purezza, all’arte e alla letteratura: oggi più che mai è necessario praticare un’alternativa umana e comune al lungo sonno della ragione.”
Mi pare che questo estratto cancelli tutte le critiche, le obiezioni, i sospetti e le acredini nei confronti di questa iniziativa. E mi pare che sia la parte su cui si sia posta meno l’attenzione.
Ma santo cielo, è possibile che bisogna sempre tirare fuori la parte destruens che c’è in ognuno di noi? La mancanza di fiducia ed il complottismo hanno inciso così tanto sulle nostre personalità paranoidi da impedirci di rimanere lucidi almeno fino al momento di prendere una decisione?
Tutto quello che è stato scritto nei manifesti dei TQ sembra arrivare direttamente dalla sagra dell’ovvio. Non lo dico in senso dispregiativo, bensì voglio sottolineare il fatto che tutto ciò che in questi documenti si afferma di voler fare sarebbe condivisibile dal 100% della popolazione civile (e civilizzata) senza batter ciglio. Sono cose talmente tanto scontate da non dover nemmeno ragionarci su. Un po’ come la democrazia e la libertà: chi direbbe di no?
Ora, la questione non è tanto ciò che hanno detto e dicono (che sicuramente andrà modificandosi con il passare del tempo e lo scorrere degli eventi), ma ciò che faranno e come. E non capisco perché tutte le energie che spendiamo a farci delle serie pippe mentali non possano essere investite in una paziente e fiduciosa attesa o, meglio, in una fiduciosa adesione e contribuzione con un atteggiamento più costruens.
Anche a me non convince molto il discorso sulla decrescita e sulla qualità, come mi insospettisce non poco il “comitato etico” che verrebbe a costituirsi in rappresentanza di un mondo molto vario e vasto. È però pur vero che la situazione TaleQuale è fa letteralmente cagare. E piuttosto che stare lì a fare i soliti discorsi da bar di cui ne ho piene le palle (pardòn) e discutere con i soliti noti e meno noti sulla disastrosa situazione del mondo culturale, preferisco cogliere al balzo la possibilità di partecipare (direttamente o indirettamente) ad un discorso in fieri che non ha ancora deciso e fatto nulla, tranne invitare a decidere e soprattutto a fare qualcosa.
Mi sono soffermato anch’io sulla portata degli abbandoni o delle mancate adesioni di personaggi Della cultura absolutamente rilevanti. MA non avendo a disposizione un cuadro chiaro Della situazione hop referito anche in questo caso sospendere il giudizio ed attendere: cosa diavolo ne so io di Wu Ming e Genna e Antonelli? Li conosco forse personalmente? Ho forse parlato con loro? O forse pensiamo che essendo dei follower su Twitter basti a conoscere una persona?
Anche è abbastanza evidente la ristrettezza della cerchia iniziale che è un po’ dappertutto – TQ, Nazione Indiana, Alfabeta2 etc. Mi sembra però che la cerchia voglia allargarsi a chiunque voglia offrire il proprio contributo. Forse si sono resi conto che se davvero si vuole cambiare il mondo (culturale) c’è bisogno di tutti e non di quattro Robespierre che finiscono per cantarsela e suonarsela da soli mentre fuori si formano le fazioni dei pro e dei contro (ciò che invece sta accadendo prima ancora che qualcosa avvenisse realmente).
E dunque la mia conclusiones è la seguente: sospendere il giudizio o usarlo in maniera costruttiva, con suggerimenti, proposte e soluzioni alternative. Alla fine possono accadere solo due cose: che qualcosa davvero si muova, rendendo tutti un po’ più felici; che tutto gattopardianamente cambi per lascire tutto com’è e allora TQ avrà segnato la sua fine poiché le persone a cui si rivolge sono le stesse che leggono e comprano i libri (e non solo).
Luigi B.
yep, anch’io sospendo il giudizio ^^
Non convince affatto. Meglio esserne fuori che dentro. E’ solo autopromozione, come già qualcuno ha tentato di fare in passato.