DOMESTICITY

Sul New York Times, Nancy Folbre firma un articolo profondo e inquietante su classe e genere (grazie a Ilaria per avermelo segnalato). Fra le altre cose, Folbre sottolinea che la rivoluzione di genere non è finita, ma si è arrestata ben al di sotto dei propri ideali.  Denuncia che si sono intensificate le differenze razziali, etniche, di classe . Ricorda che ci sono donne che si preoccupano di non trovare marito in quanto troppo emancipate. Che si accontentano di “occupazioni femminili” (e bisognerebbe tradurre in italiano questo libro, per esempio).
Qualche giorno fa, sul Washington Post era intervenuta Emily Matchar: parlava di “new domesticity” e della tendenza di molte giovani donne di tornare (anche causa crisi) alle attività “naturalmente” femminili. Cibi fatti in casa, uncinetto,  conserve (la vendita di accessori per le conserve è aumentata del 35% negli ultimi tre anni, in America), educazione dei figli al di fuori del contesto scolastico (il numero dei bambini che studiano a casa  è passato da 850.000  nel 1999 a 1.500.000 nel 2011). Terreno di coltura, l’esaltazione della “differenza genetica” che vuole le donne “naturalmente” predisposte a queste attività. Si chiede Matchar: “Un passo dopo l’altro  arriveremo senza accorgercene a trasformare questi piaceri in una nuova forma di dovere?”.Belle domande, a cui vale la pena tentare di fornire una risposta. In Italia siamo lontani, ancora, dai dati americani, ma non dalla cultura della “new domesticity” (anzi). Peccato che se ne parli molto, molto poco.

45 pensieri su “DOMESTICITY

  1. l’articolo della matchar mi ha toccata molto. io dico solo una cosa. quel tipo di contenuti io tendo a veicolarli ai limiti della polemica, e puntualmente ricevo critiche di voi-sapete-cosa.
    perchè le circostanze e le scelte della mia vita mi hanno portata più volte ad essere una studentessa(dunque senza lavoro) convivente con convivente occupato e dunque “casalinga”. e sulla mia pelle ho vissuto moltissime problematiche che davvero sono state sconosciute ad esempio a mia madre. e quando oggi condivido su fb, o parlo di queste questioni con amici e conoscenti, non trovo mai, quasi mai, accoglienza. a volte respingenza, spessissimo indifferenza. da moltissime donne colte ed “emancipate” senza sperimentazione sul campo.
    la domanda che pongo è: è possibile che queste tematiche non tocchino le donne 30enni di oggi perchè di fatto quasi tutte ancora in casa o comunque prive di esperienza diretta di convivenza, e dunque, banalmente, rappresentanti della categoria “se non l’ho vissuto non lo capisco (e manco me ne frega niente chè non mi va di dire le cose “femministe” che se c’è una cosa che ho imparato è che i maschi detestano sti discorsi?”. (per dirna una mia cognata origine borghese appena sposati lei grandina lavora fa l’elogio della donna che sta a casa e sostiene che ci sia ingiustizia nelle retribuzioni e che dunque in una famiglia si lavora in due ma è una sorta di ricatto (ok, osservazioni condivisibili) dunque da qui elogio di un unico lavoratore stipendiato in maniera migliore e “l’altro” a casa a fare cose gratificanti quali prendersi cura della casa. ho passato un’ora della mia cena di natale a insistere sul concetto di “gratificazione necessaria all’essere umano maschio femmina di avere anche un lavoro”. lei che il lavoro lo ha e non ha MAI convissuto senza lavorare. io sì e passo per quella indottrinata dal femminismo (sic). dunque, ripeto: sono molto pessimista, ma non è che tutte queste cose, oltre alla sensibilità, necessitano di un minimo di esperienza di vita?). ho scritto male ma credo che esattamente QUESTO sia uno dei temi maggiormente delicati della questione, e credo che se ne debba parlare parlare parlare, e molto.
    Laura.

  2. Vittorio Zucconi ha dedicato la sua rubrica di D del 21 dicembre alla new domesticity (http://d.repubblica.it/dmemory/2011/12/21/rubriche/rubriche/028zuc77328.html)
    Tra le sue righe c’è qualcosa di interessante, o che almeno sento (dolorosamente) riguardare la mia vita, in questo periodo.
    Vale la pena riflettere e confrontarsi su cosa significa, nel profondo, per noi donne, poter dire: “i miei figli mangiano la mia torta, la mia marmellata, studiano con me, sui miei libri, si scaldano con i miei maglioni, le mie sciarpe”.
    Mi sembra che questo (lungo) periodo di crisi ci stia riportando “dentro”, ma un “dentro” difensivo, come un castello medievale con il ponte levatoio alzato e le scorte per resistere a un lungo assedio, in cui, certo, il piacere (che c’è, è innegabile) di fare una torta o lavorare a maglia una sciarpa diventa un dovere, un obbligo, “quello che ci si aspetta che facciamo”…

  3. E’ un tema chiave. In primo luogo, perchè non è detto che per TUTTE sia un piacere fare la torta o lavorare a maglia: dipende da milioni di fattori, ma non è “geneticamente” predeterminato. Il grande rischio è qui. Ed è speculare al discorso sulla seduttività (libertà di tacco a spillo ma non tacco a spillo come modello unico).
    Anche io temo che stia diventando “quello che ci si aspetta che facciamo” e non una libera scelta. Perchè ci saranno pur donne che al brasato perfetto preferiscono il free climbing, per dire, e uomini che preferiscono il brasato perfetto alla supercarriera. Si pensava che tutto questo fosse ormai chiaro: ma no, non è così.

  4. “in cui, certo, il piacere (che c’è, è innegabile) di fare una torta o lavorare a maglia una sciarpa diventa un dovere, un obbligo, “quello che ci si aspetta che facciamo”…
    esattamente quello che penso io. il piacere certo, c’è, figuriamoci. e non è che in una famiglia in cui ci si divide le mansioni chi fa le lasagne è il cretino-debole di turno. ma perchè se lo faccio per scelta, la cosa risulta solo a me, e a tutto il parentando appare come logica conseguenza del mio sesso? e perchè come dicevo sopra alle amiche colte e tutto il resto appare un discorso vecchio da femminista anni ’50?
    Laura.

  5. esatto loredana, non è così. aggiungo brevissimamente. il piacere può essere pure che non c’era, e lo abbiamo trovato, “per amore”. (per anni sostenevo che cucinare mi facesse schifo. poi ho capito che si poteva fare, e trarne piacere. PIACERE. non “prima o poi lo avrei dovuto fare”. ma risulta solo a me. e questa è la cosa che più viene malsopportata. io sono molto molto triste, davvero.)
    Laura.

  6. e non escludo che ad una stessa persona possa piacere tanto il free climbing quanto cucinare il brasato, le combinazioni possono essere molteplici. L’importante, come si è detto, è che sia qualcosa che si fa per amore, per piacere e non perchè sarebbe “un sacro dovere” del tuo sesso

  7. Da un po’ rifletto su quello che le donne, noi donne, vogliamo veramente. Dentro di noi. Perchè se l’obiettivo è quello di avere tutto il pacchetto (carriera, famiglia, vita sociale), non so quanto rimane per la cura del proprio mondo interiore.
    La frattura la vedo nella piccola piega d’espressione sulle sopracciglia di tante. Tutto è lì. La mente pianifica ogni momento della giornata per trovare il tempo per ogni cosa e alla fine gli impegni si prendono anche il tempo destinato alla riflessione con noi stesse (per intenderci, quegli spazi necessari per riattivarsi ed essere poi, più efficienti).
    Alcune sono toste, competenti, sanno organizzarsi e lottare per i diritti delle donne. Sono padrone del loro tempo, fari che ci illuminano.
    Altre, molte, non reggono il ritmo. Rinunciano, non perché non sono consapevoli, piuttosto perchè l’ambiente domestico diventa uno spazio accogliente e personale da rivalutare, dove si possono ritrovare ritmi più naturali.
    Queste sono osservazioni, si può essere d’accordo o meno o solo in parte. Forse basterebbe cambiare punto di osservazione. La richiesta di tante donne di avere asili per i figli nei luoghi di lavoro non è solo un diritto sociale e pratico, può anche essere visto come la necessità di portare l’ambiente domestico nei luoghi di lavoro (come è possibile trasformare l’ambiente domestico in ambiente lavorativo). Viviamo in una società che si trasforma e gli strumenti per acquisire un pensiero flessibile non mancano.
    Quando non sentiremo più l’ansia da prestazione morderci il collo, credo che saremo davvero a buon punto…

  8. Riflessione importante, Lavinia. Non siamo tutte uguali, e questo va sottolineato con forza. Però, dobbiamo avere a disposizione le opportunità e i servizi che ci permettano di scegliere davvero, e non perché non reggiamo alla fatica. Non li abbiamo, semplicemente. Per questo il rischio è che la scelta diventi obbligata, e il modello culturale impositivo (e unico).
    Altrimenti, quella piega d’espressione diventerà più profonda. Lo è già diventata.

  9. Sarà che in questo periodo sto facendo i conti con una separazione in cui questa faccenda del “prendersi cura” ha avuto un peso non indifferente, ma sempre di più mi rendo conto che è molto difficile, come dicevi, @Laura, comprendere e poi far comprendere che il piacere (dato e ricevuto) deriva da una scelta personale e riguarda anche la combinazione di mille fattori…
    Non so cosa ne pensate, ma credo che il “ritorno a casa” di molte donne (sempre di più, almeno negli USA) – voluto imposto “suggerito” – sia un elemento che complica la comprensione tra le donne…

  10. Non se si analizzano i modelli, non se si ha consapevolezza della libertà effettiva della scelta stessa. Ricordate? Un anno fa, esattamente un anno fa, facevamo un discorso identico sulla famosa mutanda Yamamay: anche in quel caso si parlava di riconoscimento dei modelli. All’interno dei quali si compie la scelta. Libere di farlo. Ancor più libere se si ha chiaro il contesto entro cui ci si muove.
    Tanto per chiarire, prima che qualcuna mi accusi di leso brasato come allora mi accusò di invidia del culo Yamamay. Siamo esseri sociali: la comprensione di quel che ci viene chiesto o suggerito è alla base della libertà personale di scelta. Così come l’avere a disposizione i servizi che la rendono davvero libera.

  11. Riflettevo sul “ritorno” della donna ai lavori domestici durante un incontro con dei lavoratori, attuali e futuri cassaintegrati.
    Notavo che la perdita del lavoro di un marito è percepita come più”disastrosa” rispetto a quella di una moglie. Questo accade anche a livello personale, ovvero un uomo senza alcun lavoro mi è sembrato entrare più profondamente “in crisi” rispetto alla donna. E non sto dicendo che la donna si rassegna, ma piuttosto che sa ritrovare una sua “utilità” all’ interno della famiglia.
    Forse qui sta la “differenza” tra generi, nel perdurare nell’immaginario di certi ruoli, che a volte possono diventare un “porto sicuro” in mezzo alla tempesta.
    Mi piacerebbe che esistessero dei corsi formativi per maschi, dove si insegni loro ad essere “casalinghi”, credo costituirebbe un primo passo per l’avvicinamento dei generi e un aiuto in molti casi destinati a sfociare in una profonda depressione.
    Insomma io mi auguro non un ritorno delle donne ai lavori “domestici”, ma una nuova entrata degli uomini.
    Poi, ovviamente, queste sono solo mie riflessioni personali, basate su sensazioni ancor più personali e limitate.

  12. Vivo una situazione anomala. Tra me e il mio convivente sono io la portatrice di reddito perché, dopo la cassa integrazione, abbiamo deciso insieme che lui potesse rimettersi a studiare per qualificarsi come infermiere. Sono molto orgogliosa del fatto che il mio compagno sia passato da un impiego commerciale allo studio per diventare un “operatore della cura”. La professione infermieristica lo sta appassionando parecchio, ma dietro molti commenti di apparente approvazione abbiamo spesso letto una specie di commiserazione, soprattutto per me, che mi accompagnavo ad un uomo al momento senza reddito. Le più ostili sono state proprio quelle che si sono fatte regalare per Natale la macchina per cucire…

  13. Non so Loredana, ma lo sai che ho scritto il mio commento un sacco di volte e poi l’ho cancellato? Sono cuciniera di ritorno, figlia di stirpe ostile a queste cose da femmine antiquate, talmente reazionaria nel mio piacere cuciniero che guardo con profondo disappunto questo tuo dato: cresce la vendita di strumenti atti alla preparazione di conserve: ammericani che popolo pessimo! – mi sono detta – E co che cazzo e fanno e conserve? Io detesto qualsiasi sostituto già della mezza luna, per capisse:) Per fare una conserva non ci vuole niente di più che un po’ de tegami.
    A parte gli scherzi – che questi erano scherzi.
    La questione nevralgica nel nostro contesto culturale per donne che non siamo nè te nè io credo proprio, è dove collocare nel tempo e nello spazio psicologico il modello in questione. Cioè no la cosa non è uguale alla mutanda di yamamay perchè il modello della zoccola – mi si perdoni nevvero ma daje e daje di quello si tratta – è posto davanti agli occhi, e non è riconoscibile dietro le spalle. Non giganteggia un esercito di soccole tra le mamme e le nonne, ognuna ne ha in media una o due tra il parterre delle zie. Qualche d’una ci avrà pure una sorella o una mamma, ma non fanno sta gran media. La cosa peculiare del modello unico della soccola che ha campeggiato nel nostro immaginario per vent’anni, e te non te preoccupà che riciccia, era simbolico, era la negazione del reale, era quasi un po’ onirico, ma altro dall’identità collettiva di un paese che ha le scarpe nella campagna e nella gloriosa demograzia cristiana.
    La domesticity da noi invece, non è di ritorno è tutta di andata, è radicata e ancora pienamente percepita come valore soggettivo. Basta mettere il naso un pochetto fuori dal nostro commentarium per scoprire madri che conservano panificano cucinano, e anzichè allevare in casa i bimbi che diventano adulti pagano gioiosamente esami per far passare i figli ciuchi. Il contesto economico la rinforza, ma il contesto economico varia anche molto relativamente dove non c’è attenzione al mondo che cambia, ma una specie di rassegnato disincanto e una percezione delle iatture, delle perdite del lavoro, come niente di nuovo, come ordine delle cose a cui ci si è da tempo abituati. Diventa allora molto problematico intavolare un dialogo con questi assetti mentali, quando ci si prova – perchè il tuo desiderio di lotta, di articolazione della vita anche per l’altro è variamente liquidato o come una forma di arroganza (quando sei una pivella della dialettica) o come una forma di gentile e tenera ingenuità che fa pensare tre nanosecondi e poi via, aristamo come prima (quando sei una consumata stratega der sindacato).

  14. La domesticity italiana,infatti, è radicata. Ma si sta radicando ancor di più, e viene circondata dal saggio assenso di chi la considera la “vera” natura femminile. Come se ne esistesse, appunto, una sola.
    So perfettamente che affrontare questo aspetto dell’immaginario è infinitamente più difficile, meno popolare, infine ingrato. Ma va fatto.

  15. forse non sarebbe male spostare qualche riferimento parlando per esempio di Giovanna Amati che fu l’ultima donna a partecipare a un gran premio di F1(non prima di essere stata vittima di un rapimento dalla trama romanzesca)e quindi non l’unica del solo sport,tra quelli che mi vengono in mente,dove almeno in linea di principio non si operano discriminazioni di genere(E lo sport è tra i più ficcanti strumenti di controllo culturale).Prima che torni definitivamente la DC
    http://fernandoz.no-ip.info/musicas/Bandas%20etc/AC-DC%20Rock/06.%20Thunderstruck.mp3

  16. io sono una di quelle a cui non piace il freeclimbing, ma che adora fare marmellate e tortellini. l’ho imparato in particolare da zie che si sono rotte la schiena per lavorare e nel contempo portare avanti questi saperi “femminili”, in almeno un caso accertato senza trarne piacere.
    nelle serate in cui non ho nulla da fare, accendo la radio e cucino. mi piace farlo da sola, quando non c’è nessuno che mi dice “guarda che brava che sei, io invece in cucina sono un disastro/la mia ragazza invece è un disastro/tua sorella invece è un disastro”. quando ero disoccupata mi sono sentita accusare di essere una casalinga frustrata aspirante moglie e più di una volta ho percepito in altre donne un’irritazione bifronte – come se mi mettessi in competizione con loro su in piano in cui loro non vogliono competere, ma allo stesso tempo che percepiscono come un punto debole.
    per tutta questa serie di motivi vivo questo piccolo piacere in un modo schizofrenico: da una parte ne traggo soddisfazione, ma dall’altra so di dovermi difendere dall’immagine che restituisce di me.

  17. sembrava che ci si potesse rilassare un attimo perché yamamay questo Natale ha spostato il tiro mettendo in mutande sui quotidiani (benché a mezza pagina e in minori dimensioni) la nazionale di pallanuoto maschile, e O.T. per il 2012 ha conciato al vegetale dodici pelli maschili…(ma scommettiamo che i giornali non faranno a gara per pubblicarli?) e invece, si corre al fronte sul versante opposto.

  18. L’unica domesticity paragonabile al discorso americano, dalle mie parti è quella di chi viene dalla città e ha una seconda casa qui in campagna, e passa i week end a lottare furiosamente senza ausili tecnologici, con orto, marmellate e bricolage. ‘Staccando’ spesso anche da figli, nipoti o anziani, rimasti in città. Leggono molto, si riprendono il loro spazio. Spesso è un riprendere il filo spezzato di quel che facevano la mamma o la nonna.
    Le donne del posto sui 40/50 anni aderiscono invece al modello unico mai sostituito del tutto, che si specchia ancora perfino nel’edilizia, dove la villetta bifamiliare (nuova) ospita al piano terra i nonni e sopra la famiglia del figlio (maschio) con prole (la eventuale figlia femmina è andata via, in genere, al seguito di un marito). Un sistema funzionale perché così i bambini possono venir accuditi dai nonni, e quando sarà necessario i nonni verranno accuditi dalla famiglia del figlio. Lavorano tutte fuori casa, e tutte poi fanno le conserve e i dolci e la casa e i compiti e l’assistenza, ecc., procurandosi però, almeno, tutti i marchingegni tecnologici e umani esistenti in commercio. Come diceva Zaub prendono tutto con disincanto, come parte di una vita che è sempre uguale.
    Ecco, per le seconde di cui ho detto, il rischio è che la crisi sia l’ennesimo nemico ‘esterno’ cui far fronte, non con la propria specificità di donne lavoratrici cui verranno negati dignità, diritti e supporto, ma con il proprio ruolo dentro la famiglia.
    Quel che vedo è che i due ‘gruppi’ (quando si incontrano) spesso si spalleggiano, si aiutano, e si riconoscono nei problemi comuni. E’ un ‘dialogo’ che potrebbe continuare anche in forma organizzata – perché ci sono veramente due mondi diversi fuori da qui.

  19. Paola e Adrianaaaa. Era quello che intendevo quando parlavo di liberare il modello. Di non legarlo all’inclinazione “di genere” ma alla propria storia personale. Ed è, secondo me, un punto molto importante per tutte e tutti.

  20. E’ un tema questo su cui sto riflettendo da tempo, perché l’argomento è complesso e coinvolge molteplici questioni. In Italia ci sono molti e variegati gruppi di persone che credono e praticano – a vario livello – la decrescita, promuovendo l’autoproduzione, uno stile di vita sano, non consumistico, di contrasto alle merci studiate per essere usa e getta al fine di far “girare l’economia”. Che credono nella necessità di rallentare o quantomeno ripensare i tempi di lavoro, per aumentare la qualità della propria vita usando parametri altri da quelli solitamente intesi o inseriti nel mitico “paniere”. Condivido molte riflessioni alla base di questi modi di vivere, che influiscono anche sulla mia vita.
    Purtroppo, come dice Emily Matchar, è vero che in queste dimensioni il passaggio da “vita naturale” a “ruoli domestici naturali” è breve. Conosco diverse donne che hanno fatto questa scelta ed è vero che la vivono come una sorta di empowerment: sono donne attivissime, piene di energie e che combattono battaglie quasi quotidiane per portare avanti le loro idee. Che si sentono rivoluzionarie, perché in opposizione a modelli dominanti di mercato e di consumo, e l’ambiente domestico ha permesso loro una realizzazione impossibile all’esterno. Non è un caso infatti che nessuna di queste donne fosse realizzata professionalmente e dunque dovendo scegliere tra dedicarsi ad un lavoro generalmente non gratificante e per di più sottopagato, o convogliare le proprie energie all’interno della famiglia, che offriva un canale di realizzazione ben più concreto, la seconda opzione ha avuto un potere attrattivo assai più forte… Penso abbiano colmato con la “domesticity” il vuoto lasciato dal mancato passaggio di testimone del femminismo tra le generazioni.

  21. Scusate se intervengo senza aver finito di leggere tutti i commenti (lo farò come sempre), ma non posso fare a meno di notare che ci stiamo perdendo la questione fondamentale che il post dovrebbe suscitare: perché l’alternativa tra la torta fatta in casa ed il lavoro retribuito fuori casa viene (ri)proposta solo (solo!) alle donne, e non agli uomini? Non era questo il punto? Non eravamo arrivate da tempo a porre la questione in questi termini? Comunque è illuminante apprendere che l’onda lunga del “tutte a casa” muove da oltreoceano: brutto segno, qui arriverà in ritardo e durerà di più. O no, se non ci faremo cogliere impreparate.

  22. Il dilemma è tutto femminile per due ordini di motivi, a mio modesto avviso. Qui in Italia – nelle famiglie contadine – quel genere di occupazioni erano anche le uniche in grado di generare quel poco di denaro occorrente. Mi spiego: le donne contadine non allevavano le galline per il km zero ma perché potevano vendere le uova al mercato e, insieme alle uova, altri pochi prodotti non regolamentati dal contratto di mezzadria (dove c’era, che spesso era una benedizione rispetto alla condizione contadina). Quindi quel lavoro domestico produceva un reddito vero: non un risparmio ma proprio un reddito. Soldo, denaro contante. Nei centri urbani e anche nei paesi intere generazioni di donne si sono mantenute – hanno pagato affitto e bollette – a colpi di uncinetto e ricamo. Era artigianato. Su questo punto c’è una bella testimonianza in Compagne di Bianca Guidetti Serra. Non ho il testo sottomano quindi cito a memoria, la storia di una emigrata politica che si mantenne con il ricamo e il rammendo a Parigi negli anni Trenta. La sua principale attività restava la politica tuttavia era il ricamo a sfamarla. Ora queste nostre antenate – non così distanti nel tempo – non è che non avessero marito, partner o figli ma forse erano più consapevoli di noi dell’importanza di avere un reddito.
    Solo di recente ricamo, allevamento di polli, maglieria e affini sono passati sotto l’etichetta di “lavoro di cura” – per i cambiamenti dell’economia e del mondo. Marginalizzati si sono fatti hobby e come tali ce li ritroviamo di ritorno. La stessa differenza che passa tra un amante del fai da te e un falegname.
    A me colpisce – soprattutto in tempi di crisi – quanto poco si rifletta sulla capacità di produrre reddito, di avere autonomia. Non resterei stupita se qualcuna proponesse, prima o poi, l’abolizione del divorzio.

  23. “La domesticity italiana,infatti, è radicata. Ma si sta radicando ancor di più, e viene circondata dal saggio assenso di chi la considera la vera natura femminile”. Vero, e basta leggersi qualche blog italiano pro-domesticity, con commenti annessi, per farsene un’idea: ad es. questo
    http://costanzamiriano.wordpress.com/
    (leggere per inorridire, ma davvero)

  24. Quoto molto Barbara, dice qualcosa a cui giravo intorno ma che non afferravo. Si trovo la differenza tra fai da te e artigianato un paragone calzante, e trovo che è nella retorica dell’hobby che si insinua di più la retorica di genere, come dimostra il modo in cui in contesti rurali è percepita la produzione di beni alimentari da parte delle donne: è cosa sera, funzionale all’economia equiparabile e necessaria quanto le attività maschie. In quella coltura la retorica della genetica di genere alligna relativamente di meno, e si nutre di altre questioni della vita contadina, nella sua riproposizione urbana invece si dilata: perchè la donna che fa marmellate per hobby, rincorre un modello che è retorizzato e amplificato ed epurato dagli aspetti di lavoro vero e schiena rotta. A questo anche partecipa il sinistro fenomeno delle macchine per fare la pasta, le macchine per fare il pane, le macchine per fare le marmellate: di poi ti si propone la foto di una gagliarda signora truccata e imperlata ma con la parannanza che assolve alla funzione genetica senza muovere una paglia.
    C’è un vantaggio però: come dimostra l’esistenza di mio cognato questi sinistri emissari del demonio (i macchinari) vengono usati anche da mariti di nuove generazioni. Il dato fornito dall’articolo da infatti una informazione di acquisto, non scorporata però nei generi: io non escludo che i maschi cucinieri siano il grande nuovo target del mercato.

  25. Ma non lo sono, non ora, Zaub. Come dice Paola, la tendenza (se di tendenza si può parlare) riguarda fin qui le donne. Ripeto, niente di male: io trovo tristissimo che ci si debba sentir colpevolizzate se si fanno le marmellate. Ma trovo preoccupante che si venga sospinte verso le marmellate in quanto “naturale compito femminile specie in tempo di crisi”, ecco.
    Davide. Letto. Letto soprattutto le simpatiche parti pro-life. E questo aprirebbe un ulteriore, terribile discorso (ma quante figlie spirituali ha Giuliano Ferrara?).

  26. Le parti pro-life non mi hanno sorpreso. E’ una strategia di questi anni, quella di attaccare i diritti all’autodeterminazione per linee interne. Invece inorridisco – e resto basito, manco fossi un personaggio di “Boris” – quando leggo cose come: “La sottomissione alla quale mi hanno invitato tante persone sagge che ho conosciuto, e che io a mia volta ho proposto nelle lettere alle amiche, è il desiderio leale e onesto di servire lo sposo. […] Può significare accogliere le inclinazioni dell’altro, per esempio non organizzare una cena che a lui non va, oppure organizzarne un’altra che lui vuole. […] Perché la donna? Perché abbiamo nel nostro equipaggiamento base un radar più sofisticato sui bisogni degli altri. Non siamo più buone, ma abbiamo il germe della nascita. Siamo noi che diamo la vita, quella del corpo e quell’altra” (metto il link perché è un discorso che bisogna leggere tutto, per rendersi conto di quanto sia sleale e insinuante)
    http://costanzamiriano.wordpress.com/la-sottomissione/

  27. Il caso Costanza Miriano non è che la punta dell’iceberg, però. La cultura della “naturale vocazione femminile” striscia un po’ ovunque (e porta anche alle prediche pro-life). Triste.

  28. Scusa Loredana ma non mi sembra che nessuna colpevolizzi chi marmellatizza, io non potrei mai – se non altro per uno straccio di coerenza. Però Zauberei ha in parte ragione – le macchine di ausilio hanno come target più gli uomini delle donne. Se non altro perché se hai un lavoro fuori casa (ciò capita più di frequente ai maschi) non puoi panificare accudendo il lievito madre come fosse un neonato. Il salto tra attività produttiva ed hobby, in mia modesta opinione, ci sta tutto. E ci sta anche una certa idea del mangiar bene (cosa sana e giusta), di un certo ambientalismo in un solo condominio, di certi stili di vita. Se dobbiamo ragionare sui modelli tanto più si impone una analisi delle cornici che li contengono.

  29. Ma altre commentatrici si sono sentite “colpevolizzate”, Barbara. Non sto stigmatizzando gli stili di vita nè le cornici, sia chiaro. Ma mi sembra che le famigerate “macchine” e comunque l’attività intera sia rivolta alle donne.

  30. Chiaro che sì. Lo abbiamo visto in questi anni, come – a forza di martellare cose dentro la testa delle persone – queste si trasformino in convinzioni diffuse. Citavo Costanza Miriano perché è un esempio pericoloso (ce ne sono altri, naturalmente) di quella che normalmente chiamo “falsa emancipazione” (non saprei come altro definirla). L’idea, a mio avviso molto pericolosa, che l’emancipazione consista nel raggiungimento di date condizioni professionali (ad es. fare la giornalista, il politico, l’imprenditrice o quel che vuoi…) mantenendo, al contempo, le presunte prerogative “di genere” per cui la donna sarebbe, secondo costoro, predisposte (il “genio femminile”). In soldoni: realizzati anche professionalmente se vuoi, basta che poi a dare il biberon al pupo ci pensi te, che sei predisposta a farlo in quanto donna. Preferivo il gretto maschilismo di una volta: era meno strisciante.

  31. Grazie a barbara per l’analisi che ha fatto prima. La ‘resourcefulness’ delle donne nella società contadina era vissuta in totale sudditanza però, come potere strisciante all’interno del clan familiare – ed era un potere vero, una cosa seria fare il pane, come dice Zaub, ma il contesto era una autentica gabbia, senza scelta. Quindi temo molto il fatalismo della domesticity, in tutti i suoi aspetti, compreso l’orgoglio dell’essere multitasking, come corollario all’ineluttabilità del proprio destino e di quello delle altre. Un destino a cui ci si ribella o ci si adegua, tuttora con gli elettrodomestici. Non credo che il valore dell’elettronica domestica sia lo stesso tra chessò, i novelli casalinghi di città e le figlie e nipoti di contadini.
    Fino a pochi anni fa da queste parti in campagna si compravano avidamente pentole da 300 euro e tutte avevano il ferro a caldaia – che io tapina a Roma non avevo mai visto. E gli amici ti regalavano uova (che avevano un valore accertato) ma non le marmellate (valore imparato solo dopo, dai ‘cittadini’). Quindi in molte realtà il concetto di ‘naturale compito femminile’ non si è mai del tutto dimenticato: ed è strettamente correlato, associato, incatenato, a tutto – dico tutto – quel che faceva parte della domesticity contadina. Come dicono qui “Eh, cocchina, ti tocca”. A me fa paura.

  32. Paola, ricambio i ringraziamenti – gli aspetti da te sottolineati sulla condizione di vita delle contadine sono autentici. Li avevo colpevolmente omessi per non appesantire l’intervento. Ma i due aspetti non si reggono l’uno senza l’altro -)
    Concordo con te ma la domesticity contadina – certo poi bisognerebbe anche dire dove e in che periodo – per lo meno era funzionale a un’economia e molto meno legato al concetto di natura e di cura. Lavoro – magari da femmine, ma lavoro. No hobby, no passatempo, no cura. Senza colpevolizzare nessuna – sia chiaro.

  33. Barbara, conta molto che fosse lavoro funzionale ad una economia. Secondo me anche per il rapporto attuale fra donne di ambienti diversi che però lavorano e sanno cos’è il lavoro, e tutto il resto. Qui l’incontro chessò, tra braccianti e donne di città, che in realtà dovrebbe essere uno scontro, al di là delle posizioni ideologiche, porta invece spesso a consigliarsi sul fatto se sia meglio la forca o la vanga, e a volte produce un reale avvicinamento, quantomeno rispetto. Il chè non è affatto scontato. Il concetto di lavoro cioè apre la comunicazione e lo scambio. Più forse di quanto successo agli uomini, che qui vanno a caccia anche e forse soprattutto perchè un tempo ci poteva andare solo il padrone. Con meno capacità di riflessione e scambio, perchè c’è in ballo più il potere che il fare.

  34. e allora vi chiedo, a proposito di età pensionabile, cosa ne pensate della riconferma, da parte dell’attuale governo, di un trattamento differenziato – anche se solo per alcuni anni – riguardante le donne?
    No perchè non mi pare di aver sentito lamentele al riguardo.
    Grazie.

  35. effettivamente trovo anch’io pericolosa la Miriano:
    è realizzata sul lavoro, ha scritto un libro di successo, è felice di essere moglie e madre…cacchio veramente subdola!!!
    chissà strisciando strisciando dove ci porterà….

  36. i contenuti mi sembravano chiari (ma forse ti premeva etichettarmi come un fan quindi sostanzialmente poco obiettivo) ma ripeto il concetto senza citare la Miriano:
    trovo incomprensibile chi considera pericoloso un modello di donna che desidera realizzarsi nella maternità, nel matrimonio ma senza rinunciare al lavoro e alle soddisfazioni professionali.
    Comunque grazie per avermi dato la possibilità di intervenire.
    PS rancore??? mi sembrava di essere stato ironico, evidentemente non ci sono riuscito o non sono stato capito

  37. Paulbratter, è che gli IP esercitano un irresistibile fascino su di me e chiedo venia 🙂
    Temo che lei abbia letto male. Il pericolo non è nella persona dell’autrice, ma nei contenuti del blog, ribadisco. Incluso l’anatema sulle abortiste.

  38. La Stasi non c’entra niente: quando si posta, si accetta che l’amministratore di un blog possa avere visibilità sulla propria provenienza, che per discrezione non rendo pubblica. E dal momento che non accetto off topic, nè ignobili semplificazioni sul tema dell’aborto, le annuncio che da questo momento lei è bannato da Lipperatura.

  39. Io sono sfiduciata. Non ci sarà mai pari diritti ed opportunità fino a quando non s’insegnerà agli uomini che ogni aspetto della vita quotidiana li riguarda. Se una donna deve costantemente occuparsi di faccende domestiche, bambini e vecchi bisognosi in casa come riesce ad essere libera per una carriera di alto livello? Me lo immagino nel mio piccolo di persona che riesce a gestire a malapena il tempo libero con attività normali…immagino con molta ambizione e molto tempo da dedicare a una carriera? Senza supporto domestico come fai? Io ho cercato fin dall’inizio di coinvolgere il mio compagno nelle faccende domestiche…è stato impossibile…anni di litigi a cui lui ti guarda chiedendoti perchè si discute di così poco? Per qualche lavatrice da fare o un pavimento da pulire….e ha capito che odio pulire ma fa spallucce…tanto quando si potrà si potrà prendere una domestica a ore…nel frattempo le scarpe, i vestiti le cose che sporca non si puliscono magicamente e trova gradevole averle pulite…adesso ho aperto una attività da poco e anche li’ devo occuparmi tutto da sola con ore notturne da dedicare alla casa e al resto….finisci con il farlo per non litifìgare più…ma è deprimente. Capisco che se devi occuparti anche di bambini e anziani genitori alcune donne si avviliscano e facciano le casalinghe per avere qualche ora per se’ ma è abberante? Se si separano dai mariti chi le tutela, la pensione dove finisce….ma come cambiare gli uomini e la mentalità che della casa e connesse fatiche siano appannaggio femminile? E’ un muro fortissimo da infrangere…

  40. @Nadia, sciopera dai tuoi compiti di servizio domestici, lava e stira solo le cose tue, fa’ da mangiare solo per te, pulisci solo il tuo pezzettino di casa. E vedi poi. Chiedo scusa alla titolare per questa risposta personale che non sarebbe di mia competenza, ma il commento di Nadia sembrava un appello 🙂

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