QUEL CHE GLI SCRITTORI NON DOVREBBERO FARE

C’è qualcosa che, a mio umile parere, gli scrittori non dovrebbero fare. Non parlo nè di premi letterari, nè di gioiose o livide partecipazioni alle polemiche, nè di punture di spillo (o di sciabola) reciproche. Tutto questo ci sta, è nella norma, è, ahinoi, nella storia delle comunità letterarie, ammesso che quella presente possa definirsi comunità e non insieme di nicchie, ognuna scontrosa e diffidente nei confronti delle altre.
Quel che non dovrebbero fare è accettare la proposta del caposervizio del giornale a cui collaborano per prendere la parola (o meglio, per darla) in un caso di cronaca nera, specie a cadaveri ancora sotto i ferri dell’autopsia, specie con le ferite più che aperte di chi alle persone morte voleva bene, specie mentre la curiosità guardona di lettori e navigatori è alle stelle.
Non dovrebbero non per pudore (gli scrittori sono spudorati, e questo va anche bene, gli scrittori sono narcisisti, e magari un minor senso di onnipotenza al primo libro non guasterebbe, ma pazienza), non per deontologia (gli scrittori non ne hanno, in molti casi, e forse va bene anche questo), ma perché rischiano di scrivere di se stessi, e non della persona, o della storia, su cui gli viene chiesto di intervenire.  Dunque,  di trasferire un’idea circoscritta, limitata e infine inutile del male su una vicenda che è ancora in fieri, e su cui poco si sa.
Ci vuole tempo per trasformare il reale in letteratura: penso, senza scomodare i classici, a due magnifici romanzi come Il demone di Beslan di Andrea Tarabbia, o a Elizabeth di Paolo Sortino, e mi perdonino coloro che non sono stati citati.
Così, quando un paio di giorni fa ho letto su La Stampa il testo dove Andrea Vitali “si metteva nella testa” dell’assassino di Motta Visconti, ho pensato questo, ho pensato che avrebbe dovuto dire no. E non solo per la questione, qui più volte discussa, che riguarda la messa in primo piano, narrativamente parlando, di chi uccide, e l’oscuramento di chi la vita l’ha persa, e che da quel momento non conta più nulla, una foto tratta da Facebook, un ritratto con un paio d’ali tracciato da mano pietosa, e più nulla per l’eternità. Ma perché per raccontare il male, per respirare lo stesso respiro del demone, bisogna darsi tempo, profondità, linguaggio.
E un pizzico di umiltà che, ripeto, non guasta.
Ps. Comunicazione di servizio. Da lunedì a domenica 29 giugno sarò a Gita al faro, a Ventotene, di cui per quest’anno ho assunto la direzione artistica. I post su questo blog saranno dunque discontinui. Chiedo venia al commentarium, che come sempre non dimentico.

7 pensieri su “QUEL CHE GLI SCRITTORI NON DOVREBBERO FARE

  1. Tempo fa lessi su anobii un lettore commentare “A sangue freddo” di Truman Capote paragonandolo al salotto di Bruno Vespa: molto contrariata pensai, e penso, che la differenza tra i due approcci a un fatto di violenza sta proprio nel sangue freddo di chi lo avvicina. Capote, prima di pubblicare sul New Yorker la storia terribile del massacro della famiglia Clutter, narrandola dalla parte delle vittime e degli assassini, ebbe il sangue freddo di entrarci dentro davvero, in quella storia: parlò con le persone coinvolte, frequentò la comunità, consultò verbali e cronache e archivi, andò a trovare gli assassini in carcere, fino a raggiungere con uno di essi una certa intimità, e seguì passo passo il processo; per anni frequentò quei fatti agghiaccianti, e ne divenne parte e essi, sicuramente, parte di lui. Ecco per me mettersi nella testa di un assassino (e in quella delle vittime) vuol dire questo. Perciò sono molto d’accordo con te Loredana.

  2. Ho notato un dettaglio che i giornali sottolineano ossessivamente: i sei anni in più della vittima adulta rispetto all’omicida. A parti invertite, per concentrarsi su un dettaglio del genere il marito avrebbe dovuto avere almeno 25 anni più della moglie, altrimenti neppure si sarebbe menzionato. Invece viene ribadito di continuo, come a voler dire, si era messo con una “matura” che lo aveva ingabbiato, lui giovincello. Si ripete di continuo quanto lei fosse forte e dominante. Mi sembra una cosa particolarmente squallida.

  3. D’accordo anche con Ale. Tra me e la mia compagna c’è quasi una generazione di differenza: sarò forse un “giovincello ingabbiato”. Ma no.
    In riferimento a quell’incalzare giornalistico verso ciò che viene meno a certa convenzione, mi sembra espressione di una cultura che tende a rendere patologico quel che si mostra diverso.

  4. A volte ci sono certi off topic che non lo sono. Cosi` mi sembra pertinente parlare di un fatto che mi ha colpito durante i mondiali. Mentre si assiste al continuo sbracciarsi per salutare un pubblico imprecisato dei tifosi adulti inquadrati dalle telecamere, l`altro ieri durante la partita dell`inghilterra a un certo punto ho visto due piccoli tifosi uruguagi coi berretti da jolly che accortisi della loro presenza sui maxi-schermi subito si son fatti seri preferendo di fatto sedersi nel cono d`ombra dietro le spalle dei grandi. E cosi` mi sono domandato a che eta` si matura la convinzione che ci spetti il famoso quarto d`ora di celebrita` che prima ci pareva soltanto una solenne scocciatura, pari soltanto a quella che coglieva quando venivamo obbligati ad andare a messa. Questo e` un mondo rovesciato

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