NON CHIAMATELA NOSTALGIA

Nel film “La grande bellezza” c’è una frase equivoca sulla nostalgia: “Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro, l’unico”.
Naturalmente l’equivoco non si deve certo alla sceneggiatura, ma al significato che viene attribuito quasi unanimemente al sentire nostalgico: guardare indietro. E’ vero che nostalgia viene da νόστος (ritorno) e άλγος (dolore) e quindi indicherebbe letteralmente qualcosa come “dolore del ritorno”. Nel tempo, però, nostalgia viene a coincidere con passatismo. Ovvero ancora, la lagna di coloro che rimpiangono i bei tempi che non tornano.
Vengo al punto: ho viaggiato per le Marche, in questi tre giorni che andavano a coincidere con la tragedia della Liguria, della Lombardia, del Piemonte. Tragedie esemplari, che come alcuni (Settis e Montanari, per esempio) tentano di spiegare, si ripeteranno a meno di non invertire non solo la politica, non solo la destinazione dei finanziamenti, ma una mentalità che identifica il futuro con le grandi opere, e dunque con la cementificazione ulteriore di un paese già saturo, e con lo sviluppo a quelle opere legate.
E’ esattamente, dunque, il contrario: nostalgico, se vogliamo assumere lo stesso significato che viene dato alla parola, è  chi ritiene che il vecchio modello, quello delle grandi opere e delle superstrade e dei ponti sullo stretto, sia vincente. Scrive Tomaso Montanari su Repubblica di ieri:
“Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che — tra il 1950 e il 2000 — hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo”.
E spiega, benissimo, più avanti:

Quando, nel maggio scorso, un cittadino di nome Gabriele Fedrigo ha esposto fuori dalla sua finestra due striscioni con su scritto «Basta cemento» e «Acqua e aria sane», il suo Comune lo ha diffidato, perché avrebbe attentato al decoro urbano. Il comune era Negrar, in Valpolicella: quello che ha dato origine alla parola “negrarizzazione”, che vuole dire «urbanizzazione speculativa, e al di fuori di ogni controllo» (Dizionario Treccani).
È stato l’architetto veronese Arturo Sandrini a coniare questo termine, in un articolo del 1997 in cui invitava a ribellarsi al processo che ha trasformato Negrar, la Valpolicella e tutto il Veneto «quasi in un’unica immensa area urbanizzata, dov’è difficile trovare qualche zona non interessata da quel delirium edilizio, fatto di orridi capannoni prefabbricati, naturalmente uno diverso dall’altro, di ville, villette e villone, ovviamente non quelle venete, che giacciono invece impietosamente abbandonate». Sandrini non era solo. Quando Fedrigo (che non scrive solo slogan, ma ha anche pubblicato il libro di ri-
ferimento sulla Negrarizzazione. Speculazione edilizia, agonia delle colline e fuga della bellezza , 2010) è stato diffidato, la Valpolicella si è riempita di identici striscioni. Ne è comparso una perfino sulla villa Serego Alighieri: la residenza che nel 1353 fu comprato dal figlio di Dante, Pietro, e che dopo ventuno generazioni è ancora di proprietà dei discendenti diretti del poeta.
Ma se questa storia diventa esemplare, se si può parlare di una “negrarizzazione” dell’Italia intera, è proprio perché la sua morale risponde in modo concreto alle domande di queste ore: di chi è la colpa? A Negrar non c’è stato un singolo mostro, l’orco speculatore. Né c’era una povertà da cui riscattarsi di colpo. E non c’è stato nemmeno l’abusivismo: non c’è un solo edificio fuori della legge, a Negrar. La Valpolicella aveva una bellezza naturale struggente, aveva la storia, aveva un vino spettacolare: un’economia solida. Ma questo non è bastato: era troppo lento. La speculazione edilizia è come una droga: tutto corre più veloce. E allora una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente. Il motto del ventennio berlusconiano — “padroni in casa propria” — è stato applicato nel modo più radicale e devastante: fino a distruggere la casa stessa. E infatti il sinonimo perfetto di “negrarizzazione” è “irresponsabilità”: l’idea bestiale che non importa chi sarà a pagare il conto. Anche se saranno i nostri figli: anzi noi stessi, solo qualche anno — o qualche temporale — dopo. E non siamo usciti da questa storia: basta vedere quante resistenze, e quanto violente, sta incontrando l’ottimo Piano Paesaggistico della Regione Toscana, finalmente vicino all’approvazione.

Allora vorremmo che il Presidente del Consiglio pensasse al futuro, e non al passato. Che invece di sostituirsi ai giornali e agli storici nella ricerca delle responsabilità, egli si chiedesse cosa può e deve fare il suo governo. Che invece di pensare alle leggi regionali, pensasse a quelle che sta firmando lui.

Vezio De Lucia ha spiegato ( Nella Città dolente , 2013) che la storia del cemento cominciò davvero quando la Democrazia Cristiana rinnegò Fiorentino Sullo e la sua ottima legge urbanistica, che ci avrebbe lasciato un’Italia diversa. Era il 1963: cinquant’anni dopo il governo di Matteo Renzi fa lo stesso errore, approvando lo Sblocca Italia di Maurizio Lupi, che è una legge fatta per portare a compimento la “negrarizzazione” dell’Italia. Una legge che bisognerebbe avere il coraggio di ripensare radicalmente anche se è appena uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Anzi, una legge che bisognerebbe avere il coraggio di rottamare.”

Non vi basta? Leggete, vi prego, questo articolo sullo Sblocca-Italia: è pieno di rimandi e di link. Spiega cosa sono le famigerate “aree di cattura di valore” della Quadrilatero, ovvero “un meccanismo che si basava sulla previsione che in queste aree si sarebbero installati nuovi insediamenti produttivi, commerciali e di servizi i quali avrebbero beneficiato del potenziamento viario fra le regioni dell’Umbria e delle Marche”. Leggete e capirete anche perché non troverete una riga della protesta dei cittadini e dei gruppi che vi si sono opposti negli anni sui quotidiani locali, e perché parlare di Quadrilatero oggi  significa, in moltissimi casi,  incontrare diffidenza (e pure perdere sedici amici su Facebook in due giorni, il che è assolutamente irrilevante quanto assolutamente comico). Leggete, ancora, il libro di Luca Martinelli sulla Quadrilatero, sappiate che Martinelli ha appena vinto il premio Giorgio Bassani per il suo impegno.  Seguite il lavoro del centro sociale Sisma di Macerata. Leggete, cercate, informatevi.
Questo trenino a molla che si chiama il cuore è il frutto del lavoro fatto negli anni da tante persone a cui cerca di ridare una voce narrativa: non è un pamphlet, ripeto, ma una narrazione che ha dentro di sè altre narrazioni. Che provano a guardare, insieme, il passato e il futuro: perché nessun futuro, a dispetto di quanto si è detto negli ultimi anni, è possibile se non si guarda a quanto si è fatto fino a questo momento.

10 pensieri su “NON CHIAMATELA NOSTALGIA

  1. Tutto terribilmente vero. Solo su una cosa farei una precisazione: la “negrarizzazione” non è per niente idea “bestiale”, è idea umanissima, di quell’umanità che non considera il territorio la propria casa, il luogo in cui vivere (con cui convivere) nel rispetto, ma uno spazio da conquistare, sfruttare, colonizzare, e via col tutto il repertorio dell’hybris antropocentrica. Imparare dalle “bestie”: non sarà mai troppo tardi (o forse sì?).

  2. (preciso che è una mia piccola campagna sull’uso dell’aggettivo “bestiale”, che si trascina dietro una tradizione specista troppo lunga per poterlo – a mio modo di vedere – utilizzare senza una profonda riflessione sui significati deteriori che ha assunto dal punto di vista linguistico.)

  3. Ma a me pare che quando “una comunità — senza che nessuno la costringesse — ha deciso di eleggere politici disposti a corrompere le leggi, perché le leggi corrotte permettessero di corrompere l’ambiente. Legalmente.” siamo di fronte ad un fenomeno che si chiama “democrazia”, che è tale anche quando porta a scelte non da tutti condivise. (E aggiungo, se tutto era legale le leggi non sono state “corrotte”: sono state fatte – magari male, magari brutte, magari non ci piacciono…)
    Naturalmente se poi le scelte democratiche di una comunità proocano costi per la comunità stessa – una frana,poniamo – è altrettanto democratico che i costi siano affrontati da chi ha fatto le scelte (non da tutta la collettività).

  4. A me pare ci sia un doppio livello che ha concorso, in singolare simpatia, al disastroso esito: una politica che ha dato un esempio basato sul prono adeguarsi alla volontà speculatrice dei privati, lasciando che palazzinare e compagnia bella avessero mano libera nel sacco del territorio, dentro o fuori la cornice di una legalità comunque “corrotta” (dal punto di vista etico); e un numero abnorme (rispetto a qualsiasi altro paese occidentale) di appartenenti alla comunità che (per necessità o meno) si sono sentiti svincolati da qualsiasi obbligo verso i propri conterranei e verso un potere considerato estraneo (o comunque imitato nei suoi comportamenti deteriori), producendo la superfetazione abusivista che ben conosciamo. Un attacco da due fronti il cui risultato estetico è plasticamente evidente aprendo gli occhi su larghe porzioni del territorio italiano, e le cui ferali conseguenze presentano il conto a ogni pioggia solo un po’ fuori scala, a ogni sommovimento di terra, a ogni mareggiata.

  5. Preferisco pensare che ci sia dietro un enorme problema di ignoranza, di errori di logica pure, nel senso di non saper più unire un ragionamento ad un altro in maniera conseguente. Spiegano che faranno migliaia di metri quadri di area commerciale allo svincolo, e questo nel nostro cervello si connette automaticamente all’afflusso di turisti. Perché questo viene detto, saltando a piè pari le altre ipotesi (meno trionfanti) e un certo buon senso. Ma dietro c’è sempre il non sapere qual’è la situazione, quali sono i numeri e pure gli altri racconti che hanno radici nel territorio e in noi stessi. In questo mi sembra che il tuo Trenino riesca a raccontare veramente tante storie: la vita vissuta in quei luoghi, le leggende e i racconti delle persone, la nuova mirabolante strada che buca la montagna…. Senza l’anestesia e l’amnesia forzata a cui gli interessi di pochi vorrebbero portare intere comunità. Ecco, xché ci sono delle cose che non sono vere, non saranno mai vere e non sarebbe neanche difficile saperlo se accettassimo di capire senza mediazioni quel che accade. Proprio lavorando sulle informazioni, e perfino di nascosto. Perché ovunque viene detto che ‘qui tutti devono qualcosa a qualcuno’.
    Eh, se il tuo libro facesse venire qualche dubbio a qualcuno e indicasse pure un altro modo di vedere le cose…

  6. @Paola Di Giulio: mentre si mediat sull’ignoranza degli indigeni, può essere istruttivo farsi una spesa in una bucolica località di montagna – diciamo in Bassa Sabina, per comodità dei lettori romani.
    Facendolo, si scopre che un normale approvigionamento di generi di consumo quotidiano richiede una guidata di 40 Km su strade che offrono meravigliosi paesaggi – che però non sembrano più tali se uno è obbligato a vederli quotidianamente – per raggiungere un supermercato che ha prezzi medi superiori del 25% a quelli del centro di Bologna, e che lo si fa perchè l’amichevole macellaio a Km. 0 del paesello ci schiaffa su un altro 20%, che compensa abbondantemente il carburante che ci vuole a raggiungere il non-locale Giesse a km 40.
    Ed è una cosa che dà prospettiva, perché non è del tutto vero che ogni scelta che proviene dal contado sia dovuta a crassa ignoranza o mancanza di buon senso. Poi uno può sempre farsi la ricotta, macinarsi la farina, macellare il maiale, raccogliere l’oliva e spostarsi a dorso di mulo. Come si faceva in Arcadia, tanto, tanto tempo fa, quando stavamo tutti meglio.

  7. @H.L.M.: io vivo in campagna! E non per il week end! Devo pagarmi la benzina per qualsiasi spostamento anche piccolo e so quel che vuoi dire. (Ma questo discorso qui e ora non c’entra granché, forse c’è un equivoco. Quel collegamento tra Marche e Umbria già c’era, la strada nuova, doppia di quella che già c’è, è un passante per i tir e le auto che poco guarderanno le bellezze locali temo e non si parlava di centri commerciali per i locali temo…).

  8. p.s. non ignoranza del contado, per favore. Proprio il non sapere le cose, non avere le informazioni giuste, viziate da una visione altrui. Ne sapevo ben poco anche io che pure ho voluto parlarne qui e poi ho cercato di saperne di più, e a qualcosa serve.

  9. Ma ancora siamo a questo? Ancora siamo a “gli ambientalisti vendano la macchina e si spostino a dorso di mulo”? Suvvìa, pare di essere rimpiombati negli anni ottanta. Ma una critica che sappia tenere conto delle ragioni dell’estetica, dell’economia, dell’identità dei luoghi? a quando un salto di qualità in questo stucchevole fuoco di sbarramento?

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