Diversi anni fa, il filosofo Remo
Bodei parlava non di fine della storia, quanto di “fine di senso
dell’utopia nella storia” come di una delle esperienze più rilevanti di fine
secolo/millennio. Sul Corriere della Sera di oggi, Sebastiano
Vassalli si interroga sul rapporto tra “perdita del futuro” e, anche,
letteratura. Dall’intervento, che anticipa quanto Vassalli dirà domani a Milano
(nella giornata di studio dedicata a «Le tracce dell’uomo: memorie, ricordi e
narrazioni» che si svolge nell’ambito della manifestazione «Il futuro della
memoria»), traggo due passaggi:
Il progresso ha cambiato la nostra vita e ha cambiato
anche il nostro rapporto con il futuro. Io credo che Leopardi avesse ragione
quando scriveva (Zibaldone, 4190) che alla base del progresso del Settecento
non c’era la scoperta di una verità positiva, ma soltanto il riconoscimento di
un errore. La perdita di quel granello di stupidità che si riassume
nell’affermazione di Orazio “Non omnis moriar”, io non morirò del tutto. Ora
noi sappiamo, perché in questi duecentocinquant’anni siamo diventati
intelligenti, che gli uomini muoiono del tutto e che soltanto le loro anime,
secondo alcune religioni, possono sopravvivergli. Sappiamo che l’affermazione
di Orazio è sbagliata, ma sappiamo anche che è su quell’errore che si fonda
tutto ciò che di bello e di grande è stato fatto nel corso dei millenni,
nell’arte, nella scienza, nella conoscenza del mondo. Quell’errore era la
nostra scommessa sul futuro.
(…)
Il progresso ci ha fatto capire che la misura di tutte le
cose è il tempo della nostra vita: anche in quelle attività umane come la
letteratura e le arti, di cui in passato si pensava che dovessero tendere al
sublime, cioè a qualcosa di eterno. L’idea che tra i destinatari della nostra arte ci debbano essere i
posteri, da cent’anni a questa parte viene considerata con sufficienza, con
distacco, perfino con sarcasmo. L’arte e la letteratura moderne si sono
costruite un futuro di comodo, o, per meglio dire, hanno addomesticato il
futuro nei musei e nelle altre forme di storicizzazione, che servono a
imbalsamarle già nel momento in cui nascono. Ogni nostro istante è una foto di
gruppo per l’eternità, illuminata dalla “giornaliera luce/delle gazzette”
(Leopardi). Grazie al progresso, siamo diventati grandi.
Il mondo in cui viviamo è diventato piccolo e l’arte e la
letteratura non hanno altra ragione e altro scopo che quello di rappresentarci
nel presente. L’illusione di Orazio è finita; e il futuro ci fa paura, perché
non è più il contenitore dei nostri sogni e delle nostre scommesse; o, se
ancora lo è, lo è sempre meno. (Il futuro, in una prospettiva senza più
illusioni, è la fine dell’unico mondo che ci era appartenuto. E’ il presente
degli altri, in cui non ci sarà più nulla di noi).
Insomma, siamo tornati all’Ecclesiaste. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Ma “per tutto c’é un momento e un tempo per ogni azione, sotto il sole. C’é un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. C’é un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. C’é un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare…”. Anche per “quelli-che-il futuro-non-è-più-il-contenitore-delle-illusioni” c’è un tempo per gemere:- )
Lippa, sarò banale, ma mi accontenterei di vivere pienamente il presente. Non so quanto e in che forma la percezione di Orazio fosse diffusa, ma illusioni o meno noi siamo nell’attimo in cui siamo e da vivi. Non mi risulta che i posteri siano mai riusciti a cancellare completamente (ci hanno tentato, qualche volta) il passato e le opere dei predecessori. Ricordo uno scrittore (forse Borges) che sosteneva che se anche le opere dell’ingegno umano andassero perse ci sarebbe sempre qualcuno in grado di ricrearle. Preferisco pensare che come specie siamo in qualche modo condannati a questa spirale e creativa e distruttiva. Chiaro che l’aspetto creativo lo preferisco e pure chiaro che lo penso svincolato da ‘ciò che di noi sopravviverà’. Basta non pensare a una qualsiasi sopravvivenza in opere, memoria o monumenti. Sarebbe sufficente ‘essere nel divenire’ e non farsi delle pippe di ordine ‘monumentale’ o di memoria futura. Quelli che verranno dopo di noi ci ameranno e ci odieranno, saranno se stessi e quello che hanno ereditato e creeranno e distruggeranno a modo loro pure tutto quello che noi abbiamo lasciato (si sono mai viste alternative?)
In sintesi per me il problema è un non problema anche se sono sicura che a 80 anni potrei cambiare opinione e opinare alla Vassalli 🙂
besos
ps. il problema non è di tempo, ma di ‘pienezza’ del presente che scivola sempre più via in forme banali, consumate e consumistiche, senza dare un senso che non sia misurabile in soldoni. Sì, noi abbiamo dei problemi, e urgenti, ma per me non stanno dove Vassalli li vede.
Leggendo il tuo post…ho pensato a queste mie due poesie. Grazie per le riflessioni che ci offri.
R.
Equilibrio (2001)
Il peso delle nostre idee
equamente si ripartisce
con l’attento aiuto
degli scotòmi esistenziali…
…e l’equilibrio sembra raggiunto.
Vitale e urgente
è ignorare l’epilogo
dei nostri giorni…
Non farlo sarebbe
come spogliare di senso
i nostri
tormentati,
amati,
agognati,
quotidiani progetti…
**********************
Il futuro, il presente (2002)
Irrequieto e nascosto,
tra i desideri, il tuo vagabondare
si veste e si spoglia
dell’intimo senso
che fa della vita
la dimora del tuo essere.
Muori e rinasci bambino
quando i desideri erano la vita
senza distanza tra te e il futuro.
Rinasci e muori incompiuto
col futuro sul collo
che ti soffia pensieri di niente.
Svanisce la distanza
tra te e il passato
e l’orizzonte è sulla tua testa.
Rosalba Sgroia
Mi pare che Vassalli sostenga questo: corretto l’errore, perduta la speranza o l’illusione di continuare a vivere nel futuro, da 250 anni nell’arte e nella scienza non si è più fatto niente di grande o di sublime.
Almeno, questo mi pare quel che si debba dedurre logicamente dal suo intervento.
Se è così, mi permetto di dissentire totalmente.
“.. uno scrittore (forse Borges) che sosteneva che se anche le opere dell’ingegno umano andassero perse ci sarebbe sempre qualcuno in grado di ricrearle”
E già che ci siamo, mi pare assolutamente campata in aria anche questa affermazione.
Nautilus,
ok, molto probabilmente è campata in aria, ma perchè? secondo il tuo punto di vista, ovvio.
besos
Vassalli
L’arte e la letteratura moderne si sono costruite un futuro di comodo, o, per meglio dire, hanno addomesticato il futuro nei musei e nelle altre forme di storicizzazione, che servono a imbalsamarle già nel momento in cui nascono.
Questa osservazione di Vassalli non è inesatta, ma vera. Il problema è che proprio l’ossessione dell’arte come qualcosa di ‘finito’ e da ‘tramandare’ fa si che non solo l’arte antica finisca nei musei, ma anche quella moderna sia creata e vissuta con codesta funzione. Quindi in qualche modo a un futuro di memoria, prestigio e monumenti si crede ancora, anzi troppo. A mio avviso, Nautilus mi correggerà di sicuro, le arti moderne e museali ci dicono non che è morto il futuro (a quello anelano stando all’interno di una teca), ma che sono estranee al presente. Nel senso che spesso le arti al presente non parlano, sono troppo ‘alte’, distanti, dicono poco e quando parlano spesso è solo in ambito di valore commerciale.
Per me le arti (letteratura, pittura, espressioni corporee e ..chi più ne ha più ne metta) sono vive quando nascono in contesti che ne creano e riconoscono i significati (e i segni) e quando sono usufruite socialmente. Quelle sono espressioni vive, che poi a distanza di qualche secolo finiscano in una teca ci può stare, ma se vengono create con questa funzione annullano il presente, non il futuro.
besos
Spettatrice. Quando quei coglioni dei talebani distrussero i famosi Budda giganti laggiù in tanta malora, piansi. Letteralmente.
vivere nel presente é una bella presunzione; la vita
è : “gestione di informazioni” e le informazioni hanno bisogno
della memoria che appartiene sempre al passato
saluti cordiali
dimenticavo di dire:
il dramma sarà che quando qualcuno penserà a noi
noi non ci saremo più, che quando qualcuno ci vorrà riconoscere noi non potremo essere testimoni
Ciao Spettatrice, come va ?
Senti, io non sono profondo, lo so. E quindi quando incontro frasi profonde me le rigiro, ci penso su e quando concludo che proprio non riesco ad andare oltre mi attengo al loro significato letterale.
In questo caso mi suona così: se tutte le opere dell’ingegno sparissero catastroficamente dalla faccia della terra, l’umanità prima o poi le ricreerebbe.
Se questo vale sicuramente per le scoperte scientifiche o le invenzioni (le leggi fisiche son sempre quelle e le necessità dell’uomo altrettanto), mi sembra che per le creazioni artistiche non se ne possa neanche parlare: chi potrebbe riscrivere Moby Dick o rifare il Taj Mahal o la nona di Beethoven casualmente ? Per non parlare di Oceano mare.
Ma questa verità è talmente banale che sicuramente son io che non ho saputo capire al di là dell’apparenza. Come forse anche per Vassalli.
Saluti per ora.
Con tutto il rispetto, lo trovo banale. Per quanto si creino molti specifici la letteratura o meglio letteratura come vita si svincola da essi. Oggi è la guerra delle false identificazione, ed è ridicolo identificare l’essere umano in un altro specifico. Mi spiego meglio, sottraendo all’incoscio ciò che è dell’inconscio, non si fa altro che creare tanti specifici, scenze, arte, ecc, ecc. Ma l’esigenza espressiva dell’uomo non è ne scienza ne solo arte (solo nel suo specifico)E un errore credere che l’illuminismo da solo salvi il mondo (occidentale)Ma credere che la ragione, la razionalità (con tutte le sue contradizioni)sia capace di eliminare il senso di smarrimento di caos è banale. Alla ragione abbiamo dato storicamente un percorso che è in realtà misura di una idea, e a quella idea che oggi non crediamo più gli imputiamo la colpa dello smarrimento ma questa idea era solo uno specifico. Così in arte si viaggia a botte di strutturalismo, romanticismo ecc, ecc, classificazioni strettamente legate dallo stesso principio. Mi rendo conto, che sublimare la propia volonta, reprimere gli inconsci porta enormi vantaggi di tipo evolutivo, l’avvenuto progresso e i suoi specifici. Ma è compito degli autori indagare la frattura, colmare il vuoto o meglio il senso del vuoto, non con i soliti “siamo figli nel nostro tempo” ma cercare di comprendere tutto il significato di essere spinti oltre noi stessi. Credo, che proiezioni, nevrosi (artistiche non persolali) abbiano già dichiarato apertamente, il disagio dell’uomo “moderno”, l’uomo che va sulla luna, l’uomo che crea il suo futuro. Ci siamo dimenticati strada facendo però l’uomo umano, l’uomo che si pone liberamente davanti alla sua luna, così come è. Liberata da tutte quelle invenzioni, che sono solo proiezioni di uno specifico. E’per questo che oggi, periodo di transizione, sentiamo tanto smarrimento, confusione, ma bramiamo la “felicità” contro tutta la precarietà, che non ci appartiene, questa è solo figlia di una idea che si è frantumata storicamente. Forse il muro di Berlino (un esempio) è stato un muro ben più idealizato che costruito. Se analizziamo in italia le “analisi” (le misure) di cosa è l’arte è chi è autore è chi non lo è, ci accorgiamo che ci si è serviti di una idea, per costruirne un altra a volte a scopi solo propagandistici. Basti pensare che tutti gli autori, scrittori, registi ecc, ecc, erano prima uomidi di una certa idea e della sua propagazione. Vi erano già delle eccezioni, ma potremmo dire che erano dissidenti, uomini senza patria perchè non riconusciti, senza dire che venivano o meglio silenziosamente cadevano nell’oblio, perchè non ufficializati, perchè non appartenenti a quella idea. Naturalmente anche questi ultimi per questioni storiche probabilmente apartenevano ad un’altra idea in contraposizione. Quindi altro specifico. Mi rendo conto che quanto detto è riduttivo, spero che si sia colto il senso è non solo l’enunciato sgangherato scritto di corsa. michele
Prima di finire tra gli Attila de la curtura tengo a precisare che non ho nessuna intenzione e nessun piacere nel distruggere alcunchè. E’ sufficente? devo certificare altrimenti?
sono perfettamente consapevole che i Budda sono perdita, come Cartagine, Dresda, la biblioteca di Alessandria o il centro storico di molte città in preda alla speculazione edilizia. Senza voler mettere tutto nello stesso pentolone di ‘tutto è uguale a tutto’, ma storicizzando, ovvio. Non sono neanche convinta che sia necessario distruggere un centro storico medioevale per passare alla modernità come fecero le capitali europee e come oggi si fa quotidianamente in Cina. Ci sono dei prezzi che noi paghiamo in termini di distruzione di memoria e passato che ci passano davanti senza essere notati perchè non sono monumenti, ma umanità, relazioni, capacità. Quelle che conserviamo nelle teche non di rado sono cose morte che al massimo suscitano degli oooohhhh di meraviglia. A partire dalla tegola gialla delle città proibite per finire con le ricerche dei tempi perduti. Descrive bene questo tipo di cultura, anche scolastica, De Michele negli ultimi articoli su Carmilla e vi indirizzo alle sue considerazioni.
Quando parlo di capacità umane di ‘ricostruire’ non parlo di cloni di Melville o di Omero o di Camilleri, ma della capacità umana di creare storie (raccontarsi) e di farlo sempre e anche, se vogliamo, ruotando intorno a tematiche che si possono ridurre (per assurdo) a pochi temi di fondo. Diciamo pure che per quanto riguarda la capacità umana di ‘creare’ sono ottimista, mi preoccupano invece gli strumenti/insegnamenti del ‘creare’ (non solo manufatti ma anche coscienza critica) e a leggere De Michele mi preoccupo ancora di più. Se posso permettermi una considerazione antipatica direi che nel caso di catastrofe naturale, con distruzione di tutti i frutti dell’umano ingegno, spero di essere tra quelli che si rimboccano le maniche e ricominciano dalla propria memoria (se ne è rimasta) o dal nulla per ‘raccontarsi, raccontare, visualizzare’ . Spero proprio di non appartenere alla categoria di coloro che rimpiangono la grandezza passata e i tempi che furono e rinfacciano ai contemporanei la miseria dei loro elaborati. In qualche modo quindi la mia è una fiducia in me stessa e negli altri e la voglia di non annichilire il presente (i presenti) ritenendo che esistano vette irragiungibili e legate a qualche manifestazione divina sulla terra.
Spero di avere chiarito e spero anche che i contemporanei, pur nel ricordo delle eredità del passato, non si intimidiscano troppo rispetto al presente e non finiscano a lavorare (creare) prodotti da ammirare post mortem. A meno di credere nell’astrologia o in qualche forma di divinazione niente sappiamo degli occhi che ci guarderanno nel futuro o se i libri di molti finiranno in pescheria avvoltolati intorno a qualche palombo.
besos