Questa storia ha inizio un paio di anni fa. Dopo Morti di fama, Giovanni Arduino e io avevamo voglia di scrivere ancora qualcosa insieme. E abbiamo concordato subito sul tema: il lavoro. Ma non un’inchiesta sul lavoro, non un alto lamento sul precariato, non dati-numeri-raffronti. O meglio, in parte ci sono anche, quei dati, ma in parte minima. Perché quello che volevamo fare, e infine – dopo non poche traversie – abbiamo fatto, era raccontare un cambio di postura. Ovvero: come è avvenuto che per una generazione, quella dei figli-nipoti-fratellini, il concetto stesso di lavoro sia stato scarnificato, fino a trasformarsi dall’antico “vai e percorri la tua strada” in “accontentati e non lamentarti”.
Lo schiavismo, per noi, è questo. Che si eserciti in modo visibile nelle fabbriche di abiti che servono la fast-fashion o dove si assemblano i componenti di smartphone e computer, che avvenga nelle nostre campagne o nei magazzini di smistamento o nelle felici aziende del buon cibo o nei fast food o nei supermercati, o ancora nelle redazioni delle case editrici e dei giornali, poco conta. Conta, invece, il concetto comun denominatore, quello secondo il quale studiare non serve, i sogni sono un lusso, i voucher una benedizione, e hai centinaia, migliaia di controllori invisibili che sono i tuoi coetanei o i coetanei dei tuoi genitori-fratelli maggiori, pronti a scrivere una stroncatura in rete se non hai servito il panino col sorriso sulle labbra.
Parto da me. I miei genitori non erano in grado di aiutarmi nel realizzare i miei sogni lavorativi: erano un impiegato delle ferrovie e un’impiegata della Fatme. Ma hanno fatto sì che avessi gli strumenti culturali e psicologici per affrontare il mondo del lavoro. E anche se ho provato a dare lo stesso ai miei figli, so di essere impotente per quanto riguarda il loro futuro. Perché a loro viene detto, appunto: accontentatevi. La forbice è divaricata: ed è vero che servono quegli strumenti (master squisiti, scuole all’estero, inserimento nei posti giusti) che io, che pure ho fatto un piccolo salto in avanti rispetto ai miei genitori, non ho la possibilità economica di dare loro. Dunque, loro dovranno lottare dieci volte di più rispetto a me: a patto di non scoraggiarsi, a patto di non cedere e di non acconsentire a ritenere inutile ogni sapere, ogni strumento, ogni tassello. E a non cedere al tempo: hai ventiquattro anni, ventidue anni, e ancora sei fermo? Non c’è niente di peggio da dire a una giovane persona. Ed è quanto viene invece detto.
Un libro può fare molto poco rispetto a una mutazione di questa portata. Giovanni e io non abbiamo la pretesa di cambiare il mondo. Siamo due narratori di storie, e questo abbiamo fatto. Non abbiamo raccontato tutto, ma quello che ritenevamo potesse valere a illuminare il resto. Schiavi di un dio minore esce domani. Ci abbiamo provato, e non potevamo fare altro che questo: provarci, e continuare, nonostante tutto, a sperare.
Spero che ci sia pure qualche accenno alle badanti straniere, che in buona parte, per seguire i nostri cari, sono non ufficialmente relegate in casa sei giorni e mezzo su sette
C’è quel che può esserci. Non tutto, come detto.