Come molti già sanno, una piccola parte di mondo apprende quale sarebbe la vera identità (e già sulle parole “vera” e “identità” molto ci sarebbe da discutere) di Elena Ferrante. Avviene con quello che si suol definire “scoop” da parte di Claudio Gatti per il Sole24Ore e altre testate. Gatti è un giornalista di rango, molto premiato: i risultati dell’inchiesta sono sul suo blog, se volete leggerli. L’inchiesta viene condotta con gelido professionismo, come se portare alla luce l’identità di una scrittrice che ha più volte chiesto di non essere svelata, ma di voler continuare a celarsi dietro l’anonimato fosse equiparabile a sbugiardare l’evasione fiscale di Trump. Ferrante, che non fa altro che scrivere libri, viene trattata come una criminale: “le prove da noi raccolte puntano il dito su (perdono, ma io il nome non lo riporto, NdL), traduttrice residente a Roma la cui madre era un’ebrea di origine polacca prima sfuggita all’Olocausto e poi trasferitasi a Napoli”. Le prove da noi raccolte, e naturalmente si sappia pure che è ebrea, e naturalmente che è la moglie di, perché è evidente che il marito, maschio, ci ha messo lo zampino: “non si può certamente escludere che Starnone abbia dato un rilevante contributo intellettuale”. Le prove da noi raccolte. Visure catastali, analisi della denuncia dei redditi. Tutto questo non per un criminale, ma per una scrittrice, vale la pena ripetere.
Il mondo deve sapere, sostengono i non molti difensori di Claudio Gatti, in una gamma che va da “il giornalismo mette le mani nella roba sporca” (e da quando in qua una scrittrice che vuole rimanere anonima è “roba sporca”?) a “le inchieste si fanno così, follow the money” (e da quando in qua si segue il denaro per entrare nel delicatissimo meccanismo dell’eteronimo o pseudonimo che dir si voglia e non per svelare una truffa, una storia di corruzione, un inganno? Perché, come si andrà a dimostrare, usare un altro nome non è un inganno).
Gatti gioca questa carta, in effetti. Scrive: “Mentendo – o meglio, annunciando che, qua e là avrebbe mentito – a nostro giudizio la scrittrice ha però compromesso il diritto che ha sempre sostenuto di avere (e che comunque solo parte del vasto mondo dei lettori e dei critici le hanno riconosciuto): quello di scomparire dietro ai suoi testi e lasciare che essi vivessero e si diffondessero senza autore. Anzi, si può dire che abbia lanciato una sorta di guanto di sfida a critici e giornalisti.”
In questo modo, il perfetto giornalista d’inchiesta commette due errori fatali: ignora che usare un altro nome non è menzogna, e che mai costituisce un guanto di sfida. Semmai, il pretesto che coglie – io, e solo io, vi dirò la verità – persegue invece e rivela quella che è l’ossessione identitaria dei nostri ultimi anni. Come scrivevano ieri su Twitter i Wu Ming, il sintomo di “una cultura reazionaria che aborre l’anonimato, le pseudonimie, le derive identitarie, l’opacità verso gossip e panopticon, cioè aborre tutto quello di cui si è nutrita la «cultura della rete» pre-Facebook, oggi rimpiazzata dal suo esatto rovescio”.
Da una parte, dunque, Gatti fa propria la vocazione questurina (cit.) di gran parte dei social (vogliamo sapere, vedere, toccare, farti male). Dall’altra non riesce a eliminare il retrogusto sessista dell’inchiesta stessa: ridimensionare Ferrante a “moglie” sembra portare non poche soddisfazioni al disvelatore.
Ora, però, vorrei soffermarmi sulla faccenda dell’anonimato come guanto di sfida o menzogna o inganno o, meglio ancora, come MARKETING, tutto in maiuscolo. Perdonate se uso parole che alcuni già conoscono, perché mi sono dilungata sul punto in un libro. Ma credo sia giusto riprenderle qui.
L’anonimato, dunque.
Anche Stephen King desiderò, a un certo punto, “dare un senso” al proprio lavoro. Capire se aveva talento o era stato fortunato. Per questo pubblicò i romanzi di Richard Bachman, inventandogli una vita dettagliata e chiamandolo così in onore di Donald E. Westlake, autore di romanzi gialli che a sua volta scrisse sotto il nome di Richard Stark. Bachman ebbe una falsa immagine di copertina, una dolente biografia e una carriera discreta, finché l’impiegato di una libreria, Steve Brown, sospettando che i due fossero la stessa persona, si recò alla Library Of Congress e trovò nei registri delle pubblicazioni che un libro di Bachman era stato registrato a nome di Stephen King. Da quel momento, Bachman muore per “cancro dello pseudonimo”. Accade la stessa cosa anche a J.K.Rowling, che viene scoperta quasi subito, neanche il tempo di inventare una biografia al suo Robert Galbraith, giallista.
Marketing? Le copie vendute di Bachman e Galbraith sono state trascurabilissime, fino alla rivelazione. Quale operazione di marketing, di grazia, compie uno scrittore senza volto, possibilità di presentazioni, ospitate televisive? Quale marketing offre l’invisibilità? Chi sostiene che l’invisibilità porti attenzione mente. Sono i testi a funzionare, quando funzionano, non l’invisibilità.
Anche io, come ognun sa, ho usato un eteronimo. Per non avere il sia pur piccolo peso di un altro nome, come detto infinite volte. Ma ogni volta che nasce un eteronimo, gli altri si chiedono perché, e continuano a farlo. Perché? Rispondo per me: perché non mi interessava la visibilità che avrebbe avuto un romanzo col mio nome (basta guardare l’elenco delle recensioni dell’ortonima e dell’eteronima, e confrontarle, e il numero di copie vendute dell’una e dell’altra), ma essere una dei tanti esordienti che passa e va, lasciando tracce minime, e che prosegue comunque. Perché se avessi pubblicato con il mio nome, una lettura imparziale sarebbe stata impossibile: o almeno io avrei continuato a pensare di aver ricevuto lodi per compiacenza o stroncature per pregiudizio.
Non conta. Non importa. Il nome è importante, e nessuno viene perdonato per averne usato uno che non è il proprio, e di essere stato un altro se stesso con le persone con cui veniva in contatto. Nella prefazione a Uscita per l’inferno, Stephen King si rivolge ai suoi lettori. Che si sono ribellati. Che si sono sentiti ingannati. Usati per un gioco da scrittori. Ecco, dice, non ho ucciso nessuno. E non era affatto un gioco.
Non lo era per Romain Gary. Gary pubblica Formiche di Stalingrado nel 1945 adottando uno pseudonimo invece del vero nome, Roman Kacew. Gary scrive e scrive e vince il premio Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo, sposa un’attrice, una donna bellissima. Si chiama Jean Seberg. Arriviamo al 1973. Gary inventa Emile Ajar. E’ lui, e non è lui al tempo stesso. Al medesimo modo in cui, quando dipingi un falso Vermeer, sei molto più Vermeer che Van Meegeren che fu il suo falsario più grande. Quando si crea un eteronimo, si è sinceramente altro da quel che si è stati, e allo stesso tempo si è se stessi, ma una parte di se stessi cui non si è mai dato ascolto, o che si è seppellita. Ajar cerca una vita migliore, è un avventuriero, un assassino sia pure per caso. Nel male, ma ha avuto tutto quel che a Gary è mancato. La libertà della solitudine, per esempio. Gary finge che i manoscritti gli arrivino dal Brasile, ma è suo cugino Paul Pavlowitch a spedirglieli e a fingere di essere Ajar al telefono. Il romanzo di Ajar, che in realtà è di Gary, è un successo Ajar scrive, dunque, e scrive ancora, quattro romanzi, e vince anche lui il Prix Goncourt nel 1975. Ma come spesso avviene quando il successo arride, i cani diventano irrequieti. Giornalisti e soprattutto colleghi sospettano, accusano Gary. Lui smentisce. Viene incalzato. Ma tace. Perché tace? Poteva rivendicare con orgoglio di aver scritto, scritto bene e senza il peso del suo nome. Non era un inganno, era un nuovo inizio. Ma non vogliono capirlo. La moglie di Gary, Jean Seberg, si uccide. Dopo poco tempo, Gary scrive la sua confessione finale, Vita e morte di Emile Ajar, e si spara in bocca. Un messaggio bellissimo. “Mi sono divertito un mondo. Grazie, e arrivederci”.
Anche Alice Sheldon si suicida a settantun anni. Scriveva meravigliose storie di fantascienza firmandosi James Tiptree jr. e ritardando, e difendendo a lungo, la rivelazione della sua identità femminile, e addirittura rifiutando il premio Nebula nel 1974 perché le motivazioni per la segnalazione al premio (la storia era Le donne invisibili) dicevano che anche un uomo poteva mostrare empatia con il femminile. Alice era una donna, e comunque aveva già vinto il Nebula con Amore è il piano, e il piano è morte e aveva vinto pure il premio Hugo con La ragazza collegata. Infine, il gioco crolla, e si scopre che l’uomo fragile e timido con un cappello di paglia, l’uomo la cui biografia dice che ha vissuto in paesi esotici, che ha combattuto nell’esercito, che scrive a macchina con un nastro blu, è una donna. Quella donna si uccide.
Non era un gioco. Non lo è stato per me, che certo non ho avuto il successo di Elena Ferrante, e sono sicura che non lo sia per lei. L’anonimato è una scelta di libertà, il desiderio di non essere giudicata se non per quello che si scrive e non per la visibilità, l’età, il corpo, la postura, le parentele.
I lettori di Elena Ferrante lo sanno. Quello di Gatti è uno dei più grandi autogol giornalistici cui abbia mai assistito. Ieri la stragrande maggioranza di reazioni sui social è stata contro l’inchiesta e in difesa dell’anonimato di Ferrante. “Ma che, dai retta ai social?”, mi ha scritto una dei difensori del Giornalismo (e questo, mi si perdoni, non lo è: questa è esibizione muscolare). C’è questa cosa strana, in effetti: li si insegue, i social, fino a farne propria la parte peggiore. Ma quando i social si dimostrano molto meglio di quel che si crede, tornano a essere, per gli inseguitori, escremento.
Non paga. Almeno, siatene coscienti.
Ps. Per inciso, non sono solo i lettori a reagire. Su Twitter il direttore del TLS parla di dubbi etici, Le monde anche (sul web) e il New Inquiry pure.
Capisco le obiezioni di Loredana Lipperini,ma non penso che Gatti abbia commesso un delitto contro la liberta’.I lettori veri e appassionati della Ferrante continueranno ad esserlo dopo l’inchiesta.Se non violi la corrispondenza,l’intimita’di una casa,devi essere libero di disvelare uno pseudonimo quanto chi lo ha usato.Perche’molti cronisti nominano il nome di Dio invano,non l’hanno mai intervistato,vanno al catasto a scoprire le proprieta’ dei Cardinali ma questi sono gli Apostoli di Cristo,andrebbero puniti allora?Se la letteratura e’Religione,con i suoi misteri,il cronista ha diritto a profanarla sempre…se no non ne ha mai diritto…
grazie
Nicoletta
“Se non violi la corrispondenza,l’intimita’di una casa”
è stata violata (e forse d’ora in avanti resa impossibile) la corrispondenza tra Elena Ferrante e i lettori dei suoi libri. Ed è stata violata l’intimità di una persone che non desiderava mettere in piazza i propri fatti privati.
E poi come al solito si confonde il poter fare una cosa con il dibattito se sia giusto farla.
Grazie Loredana.
Io credo che Gatti abbia voluto eliminare una romanziera per mera ignoranza.
Solo chi non ha capito nulla della letteratura – non dell’editoria, non del marketing, non dei media – si metterebbe a cercare chi o cosa c’è dietro uno pseudonimo; e solo chi non ha capito nulla della letteratura pensa che i nomi sulla copertina siano parole che hanno qualche valore, in un romanzo.
Come sempre accade, alla soddisfatta ignoranza di chi pensa di aver rivelato “qualcosa”, sono seguite altre ignoranze: sull’editoria, sul marketing, sui media. E come da sempre accade nella storia della letteratura – non ce l’avessero mai raccontato, i romanzi! – alla soddisfazione di un’ignoranza segue il nulla. Adesso abbiamo una informazione in più che non serve, come la letteratura sa da secoli, a niente.
Ma cosa ha voluto dimostrare?
Quando la narrazione dell’universale maschile si rompe…i topi ballano e anche i Gatti!
Grazie per il post e per il link a The New Enquiry.
“The Neopolitan novels are literally and directly and magnificently about female self-making, the importance of names, and the meaning of being a woman in public. They are about control over your identity, and about the specific hostility of the patriarchy for that project. They are about the men who will say things like this and write articles like this. They are about why not to do this.”
“Ma cosa ha voluto dimostrare?”
Che ce l’ha duro.
in realtà è proprio perché è diventata famosa in America che è accaduto. Gli americani volevano sapere e lo dico perché vivo in e insegno qui. Non è una faccenda solo italiana. C’entrano i soldi e tante altre cose. Molto poco l’invidia. Davvero. Lo dico con rispetto eh
http://www.nybooks.com/daily/2016/10/02/elena-ferrante-an-answer/
Sì ma QUALI “americani” volevano saperlo? Le sue lettrici e i suoi lettori stanno protestando a gran voce, c’è chi invita a non leggere l’inchiesta, chi dice che si rifiuta di farlo, chi disdice e invita a disdire l’abbonamento alla New York ReviewOf Books, e in generale chi si esprime lo fa per attaccare Gatti, chiamandolo maschilista o peggio. Quindi chi voleva sapere? Gli scribachini?
La ringrazio anche qui, per queste parole necessarie.
Qualche tempo fa ero intervenuta, in disaccordo, sulla polemichetta delle scritture femminili che il direttore di Feltrinelli non leggeva.
Mi conforta, oggi che questa degradante violenza mi rende così triste, ritrovarci sulla Ferrante e sul mondo malato che abitiamo.
Alcuni americani avranno anche voluto sapere ma da che Gatti ha pubblicato la sua “inchiesta”, il commento piu’ frequente che ho visto a riguardo su social network e blog è stato “Ma non poteva fare ‘sta benedetta inchiesta sull’evasione fiscale di Trump?”. Qui si tratta di soddisfare la curiosità di molto pochi col rischio di impedire a molti di leggere i futuri libri di Ferrante.
Senza poi contare le imprecisioni di Gatti sull’opera letteraria dell’autrice – La Frantumaglia, ad esempio, non è un’opera autobiografica infarcita di inesattezze dolose ma è principalmente un commento di Ferrante ai suoi stessi libri (commento utile per il lettori, peraltro, perché spiega molto bene alcuni elementi simbolici della sia narrativa che ai non esperti, come posso essere io, erano in parte sfuggiti). Ad esempio, un mio petty peeve, ne La Frantumaglia, Ferrante non dice di essere figlia di una sarta come è stato sostenuto da alcuni ma spiega il rapporto madre-figlia di una delle sue protagoniste – Delia – la cui madre è appunta sarta.
Secondo me questa generale scarsa precisione nell’affrontare la cosa piu’ importante (i romanzi!) non puo’ che provare un forte disprezzo nei confronti della narrativa letteraria. E anche questo manto di “giustizia contro la kasta che mente” che si cerca di tessere attorno all’articolo è francamente irritante.
Grazie Loredana
per aver difeso la letteratura e chi ama la letteratura, Il lettore appassionato come il defunto “non ama i pettegolezzi ”
e se ho una curiosità è tutta letteraria ma chi è l’ amica geniale , lenù o lina ? ognuno crede e teme che sia l’ altra . perché non parliamo di questo ?
gabriella turnaturi
In aggiunta al commento di Barbara F.
Nel pezzo del Fatto Quotidiano, da cui ho appreso di questa bruttissima storia, della Frantumaglia si dice che è un’uscita recente, nata proprio per soddisfare la curiosità dei lettori sull’identità di Elena Ferrante.
Se, in genere, errori, superficialità e approssimazione mi innervosiscono, in questo caso mi fanno proprio imbufalire.
Non so, sarà che è lunedì e piove anche un po’. Ma questa vicenda mi avvilisce e mi fa arrabbiare forse più del dovuto. Forse anche perché amo tanto (i libri di) Elena Ferrante
Gentilissima Loredana, ha scritto un bellissimo articolo. Questa storia mi ha davvero rattristata; questa idea di dover sapere, toccare, vedere tutto, svelare chissà che cosa, sa solo di pettegolezzo da sottoscala. Non credo ci fosse bisogno di svelare niente.
Grazie.
Condivido perfettamente il tuo pensiero. Questo tono di Gatti da Perry Mason 2.0 è assolutamente irritante e fuori luogo (come se avesse scoperto l’identità dello Pseudo-Longino).
Valga, aldilà di tutte le sovrastrutture, il primo commento al post di Gatti. Veramente: ma cosa ce ne frega?
Brava, Loredana!
Grazie a tutti. Posto alcuni link che hanno ripreso questo post:
https://www.theguardian.com/world/2016/oct/03/elena-ferrante-anita-raja-unmasking-publisher-outing-my-brilliant-friend
http://www.thetimes.co.uk/article/plot-thickens-in-row-over-italian-authors-true-identity-m50sc9mhp
http://scroll.in/article/818186/why-an-investigative-journalist-felt-compelled-to-out-elena-ferrante-and-what-she-can-do-now
http://www1.folha.uol.com.br/ilustrada/2016/10/1819346-suposta-descoberta-de-identidade-de-autora-gera-debate-sobre-privacidade.shtml
http://www.lainformacion.com/arte-cultura-y-espectaculos/literatura/Escritora-Elena-Ferrante-Anita-Raja_0_959305617.html
http://www.toutdz.com/litterature-est-il-bien-necessaire-de-reveler-lidentite-delena-ferrante/
http://www.eltiempo.com/entretenimiento/musica-y-libros/se-revela-la-identidad-de-elena-ferrante/16721071
E in Italia:
http://www.illibraio.it/elena-ferrante-claudio-gatti-391329/
Sono rimasta in shock quando ho letto l’articolo di Gatti su NYRB. Come mai la NYRB ha pubblicato una cosa simile?
Scusate il mio italiano.
Helena Abreu
“Quando si tratta di studiare degli strati discorsivi, o dei campi epistemologici che comprendono una pluralità di concetti e di teorie (pluralità simultanea o successiva), è evidente che l’attribuzione all’individuo diventa praticamente impossibile. Allo stesso modo, l’analisi di queste trasformazioni difficilmente può essere ascritta a un individuo preciso. La descrizione che cerco di fare dovrebbe in fondo fare a meno di ogni riferimento a una individualità, o piuttosto riconsiderare, da cima a fondo, il problema dell’autore. Il mio problema, infatti, è quello di reperire la trasformazione. Detto in altri termini, l’autore non esiste”. (Michel Foucault, 1969)
@ girolamo de michele: bella e appropriata citazione.
Favorire le condizioni perché si crei un campo neutro di lettura – come può essere quello che la signora Elena Ferrante ha creato – è dunque un espediente degno di lode. E cosa di cui abbiamo estremo bisogno in quest’epoca, in verità.
Ora, però, siamo di fronte a un evento di rottura, perché qualcuno ha distrutto questo campo neutro.
(n.d.r.: Nel mio caso, non sono nemmeno andata a leggere l’articolo sul Sole 24ore, quindi non lo sto vivendo ancora 🙂 ).
Aggiungo di mio, per quello che sono riuscita a capire finora, che il testo non esiste nemmeno più una volta che è entrato in lettura da parte del lettore. Le Idee si “trasformano”, appunto.
Nel nostro piccolo, abbiamo riportato questa pagina > http://forum.nuovasolaria.net/index.php/topic,2599.msg41503.html#msg41503
Posso porre una domanda, Signora Lipperini? Parto riportandole ciò che è scritto su Wikipedia circa il primo romanzo di Lara Manni: “Nel maggio 2009 Feltrinelli pubblica il suo romanzo urban fantasy/dark fantasy Esbat, primo volume di una trilogia nata come Fanfiction del manga Inuyasha[10]. La fan fiction è stata pubblicata online nel 2007 e porta la firma di Lara Manni, presentata come romana, classe 1976[11][10], con un blog attivo dalla primavera del 2008[12].Il romanzo è presentato dall’editore come un autentico “caso letterario”.
A me questo sembra puro MARKETING e, per associazione, credo che ci sia molto in comune col caso Ferrante, con le debite differenze di successo ed evoluzione del caso.
Che a lei non interessasse la visibilità, posso anche crederci, ma: pensa che ad uno dei tanti esordienti che passa e va, Feltrinelli avrebbe concesso i mezzi che ha concesso a lei e al suo romanzo? Pensa che un esordiente, o un emergente, avrebbe avuto modo di essere valutato da Feltrinelli come è stata valutata lei? Diciamo che se davvero, come dice, voleva sentirsi una dei tanti esordienti che passano e vanno forse non sarebbe stato così facile farsi pubblicare da Feltrinelli addirittura come “caso letterario”. Non pensa che sia una questione di NOME (seppur celato ai lettori, e solo ad essi), in questo caso, se il primo romanzo di Lara Manni abbia avuto tale trattamento? Se davvero conta il testo, forse chi come lei decide di presentarsi ai lettori con un eteronimo dovrebbe fare la stessa cosa nei confronti dell’editore. Se fosse stato così ciò che dice adesso sul caso Ferrante avrebbe avuto, per me, una maggiore credibilità. Invece, pur concordando su alcuni passaggi, sul punto di cui le scrivo sono in completo disaccordo, per quello che può contare. Ma mi corregga se può.
Le rispondo con quello che ho già detto in altre occasioni: nessuno degli editori che ha pubblicato Lara Manni sapeva che fosse un eteronimo fino alla firma del contratto. Aggiungo che nel 2009 gli esordienti pubblicati, da Feltrinelli e altri editori, nel campo del fantastico, sono stati tantissimi, perché il filone “tirava”. No, non penso sia una questione di nome. Tant’è vero che Esbat non ha avuto un trattamento privilegiato né dal punto di vista distributivo nè tanto meno da quello delle recensioni. Questo è quel che posso dirle e che ho sempre detto e ripetuto. Cari saluti.
Ps. Quanto a Wikipedia, prendila cum grano salis. C’è un amabile troll che continua a inserire quel che vuole in quella pagina. Alla fine ho rinunciato a modificare, visto che non posso passare tutto il mio tempo a contrastare un fuori di testa 🙂
@ Tea C. Blanc
Tradotta la citazione di Foucault (che, pronunciata durant eun dibatitto, sintetizzava quanto scritto in un saggio intitolato “Che cos’è un autore?” dello stesso anno) nel lavoro della critica: inutile chiedersi chi è l’autore, più utile chiedersi cosa la su aopera ha apportato, spostato, innovato, trasformato (o cosa non ha) nel campo del linguaggio e della letteratura. È un criterio utile per fare un argine verso la pornografia giornalistica nella quale giornale, giornalista e direttore sono scivolati, peraltro.
A suo tempo, mi spiegherà, qualora vorrà, come ha fatto Lara Manni a farsi leggere da Feltrinelli da pura sconosciuta. Amici? Amici degli amici? Un agente? Oppure una semplice mail, o addirittura ha spedito il manoscritto in casa editrice e l’hanno letta? Se è quest’ultima, la via, siamo davvero alla fantascienza…;-)
Ma le ho risposto. E, mi creda, a prescindere da me, da Lara Manni o chiunque altro, le case editrici leggono. In quello stesso anno Feltrinelli ha pubblicato diversi altri “sconosciuti” 🙂
Come non detto. Ricordavo vagamente la questione Lara Manni che non avevo approfondito. L’ho fatto facilmente in poche ore, minuti.
Insomma. E’ tutto abbastanza semplice e chiaro. Diciamo che non c’è bisogno che mi risponda. 🙂 Buone cose.
“Mi corregga se può.”? Uno si sveglia nel 2016, viene su un blog dove la questione è arcinota a tutti/e e sviscerata da tutti i punti di vista possibili, e plaf! E crede pure di aver detto chissà che cosa…
@ Andrea
La comunità degli autori e lettori di fantasy italiana è particolarmente chiusa e meschina. Per qualche motivo ha deciso di prendere in odio Loredana Lipperini e continua a ‘fargliela pagare’. Lo farebbero anche per ‘Elena Ferrante’, se sapessero chi è ma di solito disprezzano la ‘letteratura’ e il ‘realismo’.
Per esempio, sulla pagina di Wikipedia italiana dedicata al fantasy la colpa della scarsa fortuna degli scrittori italiani di fantasy è attribuita a Benedetto Croce e Antonio Gramsci…
Elena Ferrante è (a) una scrittrice (b) di successo (c) che pubblica per un’etichetta indipendente. Evidentemente a certuni la somma di questi tre fattori dava troppo fastidio.
Proprio perché l’anonimato, oggi, è un’illusione, a maggior ragione quando viene adottato per scelta andrebbe rispettato.
mi chiedo perchè nella incredibile – e inaudibile – puntata di Fahrenheit di ieri sul caso di Elena Ferrante non sia intervenuta Loredana. Davvero me lo chiedo!! Sono rimasta ba si ta,
Grazie loredana, hai scritto in modo definitivo.
Alla scoperta che Elena Ferrante è Anita Raja non ci ho dormito per tre notti di fila.
Solidarietà a Elena Ferrante, che non si capisce perchè dovesse essere stanata come una cerbiatta durante una battuta di caccia.
Ma mi sembra che il glorioso giornalismo d’inchiesta italiano in questi anni abbia un po’ abbassato il livello dei bersagli…