211. STORIE DAI BORGHI: IL MERCATO EDITORIALE, LA CRITICA E IL TERREMOTO CHE NON HA 16 ANNI.

Partiamo da lontano. Partiamo dai libri, dal mercato editoriale, dal “chi sono gli intellettuali”, dal discorso reiterato sulla perdita della qualità. Discorso ricorrente quanto lontano nel tempo.
Recupero, per esempio, un articolo che Paolo Mauri scrisse su Repubblica il 15 maggio 1985. Una vita fa. L’anno in cui furoreggiava “Sposerò Simon Le Bon” della giovanissima Clizia Gurrado. Ma anche l’anno de “Il dolore” di Duras, della “Trilogia di New York” di Auster, di “Rumore bianco” di DeLillo e, sì, de “Il racconto dell’ancella” di Atwood. Un’annata niente male, dunque. Eppure, scoppia la polemica. In particolare, Pietro Citati, scorrendo la classifica dei best-seller, si indigna per quella che definisce “una purea di viscidi sentimenti, falso sublime, pensieri confusi”.  Invita, Citati, gli italiani a smettere di leggere e a far fallire gli editori.
Mauri sceglie un’altra via, molto saggia:
“Molto più modestamente, proporrei invece di bandire ogni emozione dal ricorrente discorso sui best-seller: sia l’ emozione positiva dell’ editore che si rallegra perché le vendite aumentano, sia quella negativa (indignazione) del critico, dell’ uomo di cultura, che vede peggiorare sempre più la qualità. Tolta l’ emozione (che rischia sempre di sopraffarci) che cosa resta? Partiamo da una constatazione ovvia: il valore di un libro è una variabile indipendente dal suo valore di mercato. In altre parole, si può vendere molto (o poco) tanto un buon libro quanto un cattivo libro. Per cui capita di trovare nelle classifiche dei best-seller sia i cattivi libri cui allude Citati (ma non sono d’ accordo con lui per quel che riguarda Eco), sia ottimi libri come il romanzo di Milan Kundera. Il punto è capire perchè si fabbricano tanti cattivi libri, così cattivi e indigesti da far rimpiangere (come fa Citati) i cattivi e divorabili libri di una volta”.
Perché, dice ancora Mauri, la faccenda è vecchia. Cita in proposito una plaquette fuori commercio, pubblicata da Nuova Alfa: “Del successo in libreria”.
“Si tratta di una lettera che l’ editore Bernard Grasset scrisse nel 1951 a Andrè Gillon, raccontando ciò che fece, nel primo dopoguerra, per dare una svolta al mercato del libro. Il problema, in sintesi, era questo: un libro, lasciato a se stesso, non aveva molte possibilità di trasformarsi in un affare né per l’ editore, né per lo scrittore. Grasset cita i casi di Stendhal e di Balzac. Ma l’ Ottocento, in genere, non era prodigo di danaro e le tirature erano molto limitate. Bisognava dunque adoperarsi per trasformare un valore letterario in un valore di mercato. Come? Creando l’avvenimento. Quando Grasset si trovò tra le mani “Le diable au corps” di Radiguet non pronunciò affatto la frase che poi la tradizione gli attribuì e cioè: “Ha del genio”, ma disse: “Ha sedici anni”. Sull’età dell’ autore (vera, falsa?), sulla possibilità di scrivere un romanzo a quell’età etc. si creò il “caso”. Grasset (e non lui solo) aveva scoperto la necessità di rendere “spettacolare” il libro. Dietro ogni best-seller c’ è una storia di questo genere: Pasternak era lo scrittore oppresso dalla censura sovietica, Tomasi di Lampedusa il nobile in via di estinzione…”.
Certo, ci sono distinguo da fare: c’erano in quel 1985 dove uscivano anche “Vita standard di un venditore provvisorio di collant” di Busi e “Rimini” di Tondelli, ci sono oggi. Proseguiva Mauri:
“Gli editori si sono da tempo accorti che non c’ è nessun bisogno di aspettare che un libro di valore letterario o culturale capiti loro tra le mani per trasformarlo con arte sapiente in un valore di mercato. Basta (in qualche caso è preferibile) trovare il modo di trasformare qualunque libro di valore “x” (anche zero) in un valore di mercato. La necessità di vendere sempre di più e sempre più in fretta ha fatto il resto. Non credo sia un caso che le grandi case editrici (per le piccole e piccolissime il discorso è diverso) si servano sempre meno di intellettuali e sempre più di manager. Nella fabbrica dei best-seller l’intellettuale è un inciampo. Perché cerca il valore letterario, il valore culturale, laddove il manager cerca solo quello di mercato e ridimensiona le collane che non vendono abbastanza. Come mi è accaduto di scrivere altre volte, chi è in pericolo in questo fronte dove si combatte senza esclusione di colpi, è proprio il critico, la funzione critica. Lavorare per trasformare un valore letterario in un valore di mercato aveva infatti anche un valore culturale (di diffusione della cultura). Lavorare per trasformare un valore “x” in valore di mercato ha soltanto un valore industriale. Purché si venda! sembra essere il motto”.
Le cose sono peggiorate? Sì, certo. La critica letteraria ha meno spazio sui giornali? Naturalmente sì. Il cosiddetto passaparola, magari sui social, funziona? Molto marginalmente, se parliamo di vendite, meno marginalmente se parliamo di autorevolezza del libro stesso, ma solo in alcuni casi e non in tutti. Cosa dovremmo fare, allora, noi che lavoriamo nei media (il “noi” non vuole certo fare di me una critica letteraria, sia mai si indignassero i neo-Citati: non sono che un’umile comunicatrice, e inchinandomi tre volte chiedo il vostro perdono) e ci occupiamo di libri? Cercare di trovare quella qualità, sottolinearla, darle dignità pari al best-seller: questo, mi sembra, è quel che avviene in non pochi casi. Perché, ahimé, da Grasset a oggi si è andati molto avanti: e di certo non si torna al prima. La piccola resistenza è quella di continuare a nominare i libri che riteniamo (magari sbagliando, ché fallaci siamo) importanti, anche se sono spariti dai cataloghi.
Ps. Cosa c’entra tutto questo con il terremoto? Moltissimo. Il terremoto “non ha più sedici anni”. Non vende. Non interessa quanto il sacchetto biodegradabile o Woody Allen. Dunque, non se ne parla più, anche se i problemi, la sofferenza, gli errori sono ancora tutti là. Qualche volta, fra un’indignazione e l’altra, ricordiamocelo.

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