Schiva la signora con due borse, o almeno provaci, e infine riesci a schivare la signora ma non le borse. Evita di andare a sbattere contro il ragazzo che si è fermato a chattare. Fermati tu, perché mentre provi a infilarti nel passaggio dalla linea B alla linea A ci sono quelli che devono prendere il treno da cui sei scesa e corrono, e non si faranno problemi a travolgerti. Chiedi permesso. Non ottieni risposta, perché hanno tutti gli auricolari e non ti sentono. Prova a leggere il giornale, ma ritagliandolo fino a un quadratino altrimenti protesteranno. Corri, prendi il 280 perché se manchi questo devi aspettare 25 minuti o fartela a piedi. Respira, respira, respira.
Normale amministrazione, vita quotidiana, ogni giorno, due volte al giorno. Chi viaggia sui mezzi pubblici romani, credo, ha ottime probabilità di farsi un’idea di come siamo. Siamo rabbiosi. C’è un perché? Certo, ce ne sono molti, e attenzione a indicare una sola causa perché siamo organismi complessi, e una causa non basta. Così, stamattina, tirando il fiato dopo il corso di sopravvivenza che mi spetta da decenni in ogni mattino del mondo, mi è tornata in mente Chiara Palazzolo. E una delle prime interviste che le feci, ben undici anni fa. Così, stamattina, ve la riposto. Perché, ancora una volta, chi scrive fantastico legge la realtà più profondamente di molti realisti.
Cominciamo dall’inizio, direi. A cosa pensi se dico la parola “paura”?
Di primo impatto, a una stanza nera. Forse perché è così che immagino l’ignoto: una stanza buia in cui non sai cosa potrebbe manifestarsi da un momento all’altro. Un alito, un sussurro, un bagliore. Qualcosa che dal punto di vista razionale non può stare là, e invece improvvisamente avverti di fronte o al fianco… o dietro di te. Se ci pensiamo bene, quel che fa davvero paura non è la cosa in sé, ma la sensazione repentina e gelida di una qualche presenza nascosta, di un pericolo incombente ma invisibile. La paura è l’allerta dei nostri sensi a quel pericolo. E quindi è un’emozione potentissima ma anche positiva, perché ci mette in guardia. Ovviamente però – e qui il discorso si allarga – come ogni emozione, la paura è manipolabile. Pensiamo a genitori ansiogeni che moltiplicano le paure del loro bimbo, e di conseguenza il suo livello di allerta, fino a renderlo un pusillanime. Allo stesso modo, e qui il discorso si fa davvero inquietante, a sistemi politici che manipolano la paura fino a creare delle vere e proprie fobie sociali di massa. Attenzione, ragazzi – direbbe il maestro King – rischiamo di trovarci tutti rinchiusi nella stanza nera!
L’horror ha, fra l’altro, la funzione di comprendere e raccontare le paure?
Eccome. Giocando sull’ambivalenza positivo/negativa della paura stessa, l’horror assolve da sempre a un funzione catartica: farci penetrare all’interno delle nostre paure per dar loro voce. In un certo senso è come se un romanzo o un film horror ci dicesse: ehi, ho paura quanto te, mi accompagni in questo viaggio verso l’ignoto? Condividere la paura è già un modo di affrontarla. Penso alle fobie, agli incubi, ma soprattutto a quella che è la paura suprema dell’intero genere umano: la morte. C’è anche lei, anzitutto lei, in quella stanza buia: l’Ultima Signora che ci attende oltre la soglia di tenebra. Scambiarci, o immaginare di scambiarci quattro chiacchiere, ce la rende un po’ meno spaventosa. Voglio dire, è a questo che serve l’horror. A renderci familiare il rimosso. Per meglio dire, a convivere con le nostre paure. Magari, anche a riderci su.
Sarebbe interessante capire come le medesime sono cambiate nel tempo, cominciando da lontano: Bram Stoker, o Mary Shelley, se vogliamo farli rientrare nella categoria, avvicinandoci con King (ma anche, per quanto riguarda il cinema, con Romero) e arrivando a te.
La paura della morte in quanto tale, a mio parere, è sempre la stessa sotto mille cieli diversi. Così come quella dell’ignoto. Anzi, morte e ignoto sono l’uno metafora dell’altro e viceversa. Quello che cambia, invece, è la paura sociale. I vampiri di Stoker, così come la terrificante mummia della regina egizia Tera, rappresentano in pieno Ottocento la diffusa fobia della sessualità. Su un versante analogo, ma al femminile, Mary Shelley rappresenta nel suo Frankenstein la paura della maternità, vissuta come parto oscuro e mostruoso. Si tratta, nell’un caso come nell’altro, di proiezioni perverse scaturite da una società sessuofobica. Paure che cambiano nel Novecento: con King e Romero gli agenti del caos si fanno marcatamente politici. Trovo che il paragone tra questi due giganti dell’horror sia più che pertinente. Ambedue hanno condotto sotto le vesti del genere una durissima polemica anti-sistema. Vale a dire contro quella manipolazione della paura di cui parlavo poc’anzi. Per quanto riguarda me, beh, mi viene un po’ da ridere a essere inserita in questo elenco, non ne sono assolutamente all’altezza! Comunque, nel mio piccolo, credo che la paura che attraversi la trilogia dei sopramorti sia quella di questo Duemila di gelo, solitario e insieme omologato – che paradosso! tutti soli e tutti uguali… senza via di fuga. Benvenuti nella panic room, signori.
Veniamo alla tua trilogia (Non mi uccidere, Strappami il cuore, Ti porterò nel sangue, ndr). Mirta torna dalla morte: non è una zombie, non è un vampiro. Anche se, per durare nella sua nuova esistenza, deve uccidere gli esseri umani. Primo punto: il suo risveglio è giustamente caratterizzato dal terrore. Ma a me sembra esserci un elemento in più rispetto alla paura “classica”. Il fatto che, da brava ventenne contemporanea, Mirta non avesse affatto dimestichezza con la morte stessa. A differenza di quelli che scoprirà essere i suoi compagni di sorte.
Sì, Mirta non sa davvero nulla della morte. L’abbiamo rimossa così bene da esserci convinti che la morte non esiste. Da questo punto di vista il contrasto tra l’idea della morte di Gottfried, cavaliere sassone del X secolo, e quella di Mirta, ragazzina postmoderna del Duemila, è incolmabile. Gottfried vive la morte (mi si perdoni l’ossimoro) come un giusto approdo. Mirta come un torto insopportabile. E’ stato quasi buffo mettere a confronto le diverse visioni della morte nei secoli: quando facevo le ricerche mi sono resa conto di quanto simile fosse la paura della morte in ogni tempo, ma anche quanto dissimile fosse la raffigurazione della morte. Dalla “luce assoluta” di Gottfried al “buco nero” di Mirta il gap non è quantificabile.
Mirta, come tutti i sopramorti, ha una caratteristica: termina la sua prima vita in età giovanile e, nella seconda, non invecchierà mai. L’eternità in sembianza di ragazza, o di ragazzo: questo è uno dei sogni- o degli incubi- dei nostri anni.
Si tratta di un tema quasi obbligato, oggi: legare l’idea dell’immortalità a quella della giovinezza. Di fronte alle prospettive reali di un allungamento progressivo della vita umana, è logico reagire chiedendosi: che ce ne facciamo di una vita lunghissima se non possiamo rimanere giovani? Vale a dire, se non possiamo trascorrerla al massimo delle energie e delle potenzialità? Nessuno vuole un’infinita vecchiaia. La scienza sta aprendo delle prospettive inedite, ma dovrebbe badare bene a cosa propone, a quali desideri accende, a quali manipolazioni porge il fianco. Intere generazioni ossessionate dall’età che passa sono già sotto i nostri occhi. A fronte di intere popolazioni di diseredati la cui vita media non supera i quarant’anni – e bambini che muoiono come le mosche. Stiamo attenti a questa sorta di “complotto dei privilegiati”.
C’è qualcos’altro a contraddistinguere i sopramorti: la rabbia. Non sempre e non necessariamente uccidono i vivi per fame. Penso alla caccia di Sara nel secondo libro della trilogia, che ha il sapore di una vendetta che non si compirà mai del tutto, peraltro. Penso alla serie di omicidi compiuti da Mirta nei primi tempi della sua rinascita alla morte. E’ questa la grande paura che hai scelto di raccontare?
Sospesi tra la vita e la morte – intrappolati nella panic room, se vogliamo – i sopramorti sviluppano rabbia, è ovvio. Cos’altro gli resta? Non saranno mai più vivi, non gusteranno la dolcezza di una giornata ventilata, né il calore di un bicchiere di vino. Non sentono né caldo né freddo, non avvertono i sapori, non riescono neanche a piangere. Vivono una perfetta non-vita: senza malattie, senza invecchiamento, senza morte. Una non-vita asettica e gelida, che devono animare di emozioni estreme per riuscire a “tornare” in vita, seppure per pochi attimi: pensiamo alla ferocia delle loro cacce ai viventi, ai pericolosi passatempi di Gatto Machesi, alle sfide perverse di Luna, alle amare vendette di Sara, al cinismo ironico e disperato di Max, forse il personaggio più lucido e autentico dell’intera trilogia. La rabbia dei sopramorti è la rabbia del diverso. Ed è una rabbia senza fine e senza sfogo, come l’odio di tutti gli esclusi.
E poi c’è il sesso: i sopramorti ne fanno parecchio, lo fanno bene. Ma sembrano abbastanza indifferenti al medesimo, in fondo: E’ così?
Il sesso è l’ultima spiaggia dei sopramorti. Come dire, i morti lo fanno. Riescono a farlo anche loro. E quindi ci si dedicano parecchio. Un gran passatempo. Lo so che detto così suona un po’ dura, ma la metafora sessuale della trilogia è fin troppo trasparente: in una società sganciata dalla riproduzione il sesso diventa un hobby. Da questo punto di vista, è esemplare la relazione tra Gatto Machesi e Luna. Perfetta consonanza… peccato non provino nulla.
I sopramorti hanno coscienza del proprio stato e del proprio destino. Soprattutto nell’ultimo libro, Ti porterò nel sangue, sembra che almeno alcuni di loro provino anche angoscia per la propria non finitezza. Non è frequentissimo nei personaggi della letteratura fantastica: a meno di non pensare a Louis in “Intervista col vampiro” di Anne Rice. Cosa li fa soffrire, soprattutto?
La questione secondo me è proprio questa: io ho immaginato un non-horror mentre scrivevo. Cioè, impostate le premesse “soprannaturali”, il resto è assolutamente realistico. E realistici sono i sentimenti. Quello che mi sono chiesta è stato: che cosa si prova davvero a tornare sulla terra da morti? Non mi interessava per niente una risposta “di genere”, ma una risposta esistenziale. Ho lasciato che questa ipotesi si incarnasse nei personaggi, e loro mi hanno fornito delle risposte. Senso di onnipotenza, per alcuni, persino senso di responsabilità per altri, ma anche infinita angoscia. E tra questi Mirta-Luna. Questa ragazza angosciata è quanto di più realistico possa esistere. Non riesco neanche a considerarla un personaggio. Mirta è un grido di aiuto.
La sensazione che ho avuto riflettendo sugli antagonisti “benefici” dei sopramorti, i benandanti (tra l’altro realmente esistiti, giusto?) è che anche loro riflettano un’ossessione: quella per un ordine da ristabilire, anche riportando in ambito sovrannaturale le gerarchie militari dei viventi.
Gottfried, signore dei sopramorti e grande antagonista dei benandanti, li definisce “i miliziani della paura”. I benandanti – la mia trasposizione romanzesca dei benandanti, voglio dire – sono gli eliminatori dei fantasmi, degli incubi, e quindi anche dei sogni. I guardiani dell’ordine precostituito. Se i sopramorti sono anche fantasia, azzardo, energia, i benandanti sono gli squadroni della morte inviati da un potere occulto – chi sarà mai il misterioso A.S.? – a sterminarli. So bene di aver costruito un mondo ambiguo, in cui bene a male sono sovrapponibili e si scambiano continuamente le parti. D’altro canto, chi mai voleva salire in cattedra a dividere i buoni dai cattivi? Via, siamo seri.
Eppure, i sopramorti amano. Non si limitano a conservare il ricordo degli amori che ebbero in vita, come fa Mirta, poi divenuta Luna, quasi fino alla fine del terzo libro. Ma amano, di nuovo. A volte in modo straordinariamente potente. E’ un segno di speranza, anche?
Sì, amano anche i sopramorti. L’amore gli è concesso, come una generosa eccezione. Sono freddi, morti, asettici, ma l’amore non muore insieme alle loro vite. Permane, come l’unico vero calore della non-vita. Perché non esiste essere umano laddove non c’è amore. Umanità e amore sono intrecciate da sempre, anche se talvolta finiamo col dimenticarcene. Le nostre speranze , i nostri desideri, le nostre divinità stesse – cangianti nel tempo e nello spazio – sono fatte d’amore. Costruite a immagine e somiglianza del nostro bisogno d’amore. Dico per davvero, questa trilogia non sarebbe stata realistica, se i sopramorti non fossero stati capaci di provare amore.
C’è un ordine morale, infine, dopo la morte? O c’è semplicemente la riproposta dell’ordine dei viventi, da cui è necessario fuggire per trovare, mi viene da dire, salvezza?
No, non credo ci sia un ordine morale. Se così sembra, è solo perché chi legge finisce per acquisire quello di Gottfried, che è solo il suo personale ma talmente potente da innervare non solo il mondo dei sopramorti ma anche quello dei lettori. Si soggiace alla suggestione di Gottfried, voglio dire, alla sua versione dei fatti. Ma non esiste un’etica della morte, nella mia trilogia. Mi convince di più l’idea della ripetizione dell’ordine dei viventi, come la stessa Mirta suggerisce quando dice che i morti “ripetono” i vivi. Eppure non credo del tutto neanche a lei, perché ci sono anche molte differenze. Forse, i morti amplificano i vivi. E insieme li deformano, come in uno specchio grottesco. Come oscure divinità scaturite dal bisogno di perfezione degli imperfetti viventi. Divinità infere che ci attendono, sulla soglia tenebrosa di quella stanza nera, per parlarci di vita e di morte. Per raccontarci di noi. Dei nostri sogni, dei nostri incubi, delle nostre paure.
L’ordine dei viventi, dopo l’inutile corsa per prendere il 280, che ha già chiuso le porte e l’autista fa finta di non vederti, sarebbe decisamente quello di farsela a piedi, se non fosse per la fondata paura di essere arrotati dagli automobilisti che litigano al telefonino sulla controversia del ripescaggio dei bambini dalla scuola.