Qualche giorno fa Roberto Cotroneo ha scritto un lungo post sullo stato delle cose in letteratura. Lo trovate qui. Si parla di scrittori, di editori e anche di giornalismo culturale. In particolare, vorrei soffermarmi su questo passaggio:
“Per gli editori il pubblico è quello che compra, per gli scrittori è quello che legge, per i premi è quello che comprerà, per i giornali non si sa, i giornali non sanno più cosa sia il loro pubblico, e infatti lo trattano come fosse un beota e perdono copie in modo vertiginoso”.
Ha precisato, più tardi, che non si tratta semplicemente di rimpiangere il tempo passato, ma di provare a cambiare le cose. Per quanto riguarda il giornalismo culturale, temo che non sia semplice. Mi sembra che da ultimo sia orientato a inseguire “la modalità social”, quella dell’azzanno (che non significa stroncatura, attenzione: significa cercare il caso, e laddove non ci fosse, alimentarlo), quella dell’effettaccio. Che significa preservare l’esistente, e non cercare il nuovo. O comunque provare a immaginare il famoso progetto, che è un progetto non solo giornalistico ma di visione del mondo.
Molto difficile capire dove si andrà a parare, comunque: la disaffezione dei lettori è sempre più alta, e l’incidenza di un’opinione che viene da un giornale cartaceo sempre più bassa. Forse la rotta si invertirà, forse no.
Non è dunque per nostalgia che posto qui questo dialogo, citato ieri in trasmissione, e neanche per omaggiare i due mostri sacri della letteratura, Ortese e Calvino, che incrociarono la penna il 24 dicembre 1967 sul Corriere della Sera. Ma per ritrovare un modello possibile, che viene dal passato e che occorrerebbe provare a innestare guardando al futuro. Invece di ancorarsi al presente.
Caro Calvino,
non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché.
Anch’io, come altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cosa c’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi ad un interiore equilibrio.
[…] Ora, questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O un nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, l’autonomia, la speranza.
Anna Maria Ortese
Cara Anna Maria Ortese,
guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di “strumentalizzarlo” malamente, questo cielo?
Io non voglio però esortarla all’entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.
Quel che mi interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano. La luna, fin dall’ antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose.
Gli exploits spaziali sono diretti da persone a cui certo questo aspetto non importa, ma esse sono obbligate a valersi del lavoro di altre persone che invece si interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna. Questo qualcosa che l’uomo acquista riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva.
Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…
Italo Calvino
Un dialogo meraviglioso tra due voci differenti eppure armoniche.
Due intellettuali che sapevano parlare e magari dissentire senza insultarsi.
Che vivevano la propria vocazione in modo diverso ma con la medesima assoluta dedizione.
Grazie di averli ricordati in questo momento.
P.S. Io oscillo tra le due psospettive: la Ortese ha ragione nel temere che la nostra immaginazione – la poesia, il mondo interiore che vi costruiamo sopra come un castello – venga offesa dalla scientizzazione del mondo, dall’ipertecnologizzazione che stiamo vivendo e che ai suoi tempi era ancora in nuce. Ma anche Calvino aveva ragione nel guardare con curiosità galileiana e fiducia al movimento incessante della conoscenza.
Integrare fede e ragione, poesia e prosa, scienza e Humanities – ah l’inglese che si ricorda e si scorda insieme del nostro Latino! – credo sia la vera sfida di questo millennio.