Dopo una bella, davvero bella, presentazione di Magia nera alla libreria L’altra città, insieme a Elvira Seminara, torno a rimuginare su quanto il fantastico racconti il reale anche se ci si ostina a relegarlo fra i balocchi narrativi.
Qualche esempio.
Il 1968 fu l’anno di molti avvenimenti. E fu l’anno del massacro di Mỹ Lai, in piena guerra del Vietnam. Avvenne che un battaglione dell’esercito statunitense impazzì, o qualcosa li trasformò in demoni: nei fatti, stuprano e torturarono e uccisero 504 donne, bambini, vecchi, senza alcun motivi. Un soldato americano, Lawrence Coburn, dirà molto più tardi:
“My Lai… è come se i morti avessero preso ad afferrare i vivi. Come se non ci fosse scampo alla nostra, alla mia maledizione”.
Non è strano? Quale spirito del tempo soffia, in questi casi? Nel 1968 George A. Romero gira La notte dei morti viventi consacrando la figura dello zombie così come la conosciamo: si raduna in branco, non parla, uccide.
Naturalmente non c’è alcuna prova che colleghi la strage di innocenti e le disavventure di Ben e Barbara, intrappolati nella casa colonica di un cimitero della Pennsylvania che pullula di morti viventi. Né ci sono prove che Romero abbia voluto fare altro da un semplice, piccolo film che sarebbe divenuto un culto, a dispetto delle interpretazioni: metafora della guerra fredda (nella quale gli zombi rappresenterebbero i sovietici) o critica al capitalismo o al razzismo. Ma la scelta di un attore di colore fu casuale. E’ lo stesso Romero a dirlo:
«Stavo portando la prima copia stampata de La notte dei morti viventi a New York. Ero in macchina e alla radio annunciarono l’omicidio di Martin Luther King. Immediatamente pensai che il mio primo film sarebbe diventato un film totalmente politico»
In 28 giorni dopo (2002) di Danny Boyle, entra in campo la genetica: un gruppo di attivisti animalisti inglesi libera scimpanzé geneticamente modificati in cui è stato inoculato un ceppo modificato della rabbia. Segue morso a un’attivista. Segue contagio. 28 giorni dopo, presso il reparto di terapia intensiva di un ospedale londinese, Jim, un corriere irlandese, si risveglia dallo stato di coma nel quale versava dopo un incidente stradale, e si scopre nudo e abbandonato in un ospedale deserto e in rovina. Quando esce, scopre che Londra è invasa dai non morti. Dopo le consuete peripezie, andiamo a scoprire che è la sola Gran Bretagna a essere contagiata, e il resto del mondo l’ha messa in quarantena.
La Brexit era solo un umore, all’epoca. Oggi no. Buon week end.
Le riporto la mia prospettiva al riguardo dello zombi, forse le darà una chiave di lettura supplementare.
Cos’è lo zombie? E’ un monito. E’ la “morte” che prende sembianze umane, dove morte significa disfacimento di ogni struttura cosiddetta civile.
Però attenzione: il monito consiste nel suggerimento di una vita che l’uomo civile non vuole considerare e che, anzi, disprezza e teme sino al midollo. Eppure si tratta della vita che egli sa di portare dentro, che si rivela quando la rete di strutture, di ordinamenti, di concetti, di preconcetti che danno adito alla sua civiltà di esistere inizia a creparsi, si rompe, crolla. Allora si fa presente quella vita che corre, che non articola un linguaggio, che divora gli esseri ancora civili.
Il monito dello zombie consiste nel creare una civiltà senza tener conto che l’essere umano, nelle sue profondità più intime e nelle sue origini primigenie, incontra – sprofonda nel mistero di sé, della vita e dell’esistenza tout court. Così, quando una civiltà si struttura sulla base di tale inconsapevolezza, quando una civiltà si erige senza considerare la dimensione oscura dell’essere umano, emerge lo zombie con tutta la sua virulenza per insegnare agli uomini il fallo della loro civiltà.