Dunque, perché insisto con tanta frequenza sul nostro comportamento all’interno dei social network? Perché con cadenza quasi quotidiana mi colpiscono le reazioni prima ancora dei motivi che le hanno suscitate? “Mi è stato fatto non so quando un male.Una ingiustizia strana e indecifrabile mi ha reso stolto e forte per sempre”, come scriveva Franco Fortini? Sì, no, non è questo, non del tutto. Provo a spiegare la mia reazione al linciaggio di Dacia Maraini di cui ho parlato ieri su Facebook (in fondo a questo post metto il testo, per chi su Facebook non è) partendo, si parva, ma proprio parva, licet, da Dostoevskij.
Nei Fratelli Karamazov, il Grande Inquisitore dice:
“Noi li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro ordineremo la loro vita come un gioco infantile, con canti infantili, con cori e con danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti (…) daremo loro la felicità degli esseri deboli, quali essi sono stati creati”.
Ora, come ben si sottolinea in un prezioso saggio, “Sul Mondo Nuovo di Aldous Huxley” a cura di Manuela Ceretta e Alessandro Maurini (Edizioni di storia e letteratura, ottima lettura natalizia), quella che il Grande Inquisitore va spiegando nel suo meraviglioso monologo è non solo la debolezza della natura umana, ma il fatto che molte sottomissioni, se non tutte, si fondano sul piacere e sul consenso a quel piacere, laddove, e qui siamo già dentro Huxley, la scelta è fra libertà e felicità, e la felicità è data quasi sempre dalla sicurezza (ricordate le parole d’ordine del Mondo nuovo? Comunità. Identità. Stabilità.).
Ora, io non credo che esista un complotto che ci impone l’Happycracy che ha in mente Huxley, e non credo neanche che Huxley abbia, come spesso si pensa a proposito degli autori fantastici, capacità di preveggenza: anche se alcune cose danno un lieve brivido, come l’uso del soma che preconizza i futuri psicofarmaci, la condanna sociale verso la solitudine, la contrazione del linguaggio e della comunicazione fino a semplici battute. Penso, semplicemente, che come Dostoevskij sappia molto della natura umana, e sappia con quanta compiacenza, e addirittura con quanto piacere, andiamo incontro a situazioni che costituiscono una privazione della nostra libertà, e anzi un fraintendimento della libertà stessa (quante persone, ieri, mi hanno scritto: sono libera di dire, sono libera di criticare, etc.).
Vale anche per i social network: sono un mezzo a cui sempre più spesso affidiamo pensieri che non avremmo espresso in modo così crudo e così istintivo e così, ahiahi, permanente. Il prendere parte a un’aggressione virtuale collettiva ci fornisce, anche se lo neghiamo, un piacere, l’esprimersi su qualsiasi argomento e trovare che altri lo fanno e anzi ci spingono ad alzare il tiro ci fa sentire meno soli. Ci fornisce quelle tre parole: Comunità, Identità, Stabilità. Apparenti, certo, ma non meno vere.
E poi, infine, dimentichiamo anche gli ultimi freni perché, come Huxley sapeva, verremo distrutti non da ciò che odiamo, come temeva Orwell, ma da ciò che amiamo. E dimentichiamo il dodo, come scrive nel Mondo Nuovo:
“Libero come un uccello, diciamo noi e invidiamo quelle creature alate che si possono muovere a piacimento nelle tre dimensioni. Ahimé, ci siamo dimenticati del dodo. Quando un uccello impara ad ingozzarsi a sufficienza senza essere costretto a usare le ali, rinuncia al privilegio del volo e se ne resta a terra, in eterno. Qualcosa di simile vale anche per gli uomini”.
In parole molto povere, mi sgomenta la facilità con cui cadiamo in una reazione violenta o non ragionata, specie se il bersaglio è molto visibile. Ma non per questo penso che finiremo malissimo come l’unico oppositore del Mondo Nuovo, il Selvaggio. Penso, invece, in perfetto accordo con quanto teorizza Baricco nel suo The Game, che siamo ancora all’inizio di una mutazione e che possiamo sviluppare tutte le difese, se non per governarla, per far sì che non ci uccida. A patto di accorgersene, naturalmente. A patto di non barattare la propria identità (e pure la comunità e pure la stabilità) per qualche like in più, come molte delle anime belle che, col sorriso, appiccano le fiamme alle fascine.
Ps. Qui il testo del mio post di ieri, come promesso.
Molti anni fa, fra il 1956 e il 1957, Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini furono protagonisti di una lunga, e certamente dura, ma certamente profonda, polemica. Mi rifaccio sempre a quella non per nostalgia del passato fine a se stessa, ma per chiarire che non è per buona educazione formale che provo, molto spesso, un senso di smarrimento quando, nei social, ci si adagia nell’onda di sdegno che finisce per andare al di là dell’oggetto della polemica stessa (un testo, un fatto) e si abbatte sulla persona, ma in quell’abbattersi porta con sé, come fanno le onde, i detriti di quel che proviamo davvero, e quasi sempre senza che ce ne rendiamo conto.
Mi riferisco alla polemica che riguarda Dacia Maraini per il suo articolo sul Corriere della Sera. Un articolo la cui frase incriminata è grosso modo questa: “molti, proprio dentro la Chiesa, hanno rifiutato i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l’intolleranza e la passione per la guerra”. Ora, non entro, buona ultima, a commentare e controargomentare questo punto, anche se la mia sensazione è che parlare di antisemitismo sia senza senso. Ma, ripeto, non entro nel punto.
Entro in una faccenda che invece mi sta molto a cuore: perché quel che ho letto in queste ore mi ha dato la sensazione che la maggior parte di chi l’ha attaccata, in maggioranza donne, non cercasse altro che il pretesto per farlo. Ho letto cose come, in ordine sparso, “pseudo-intellettuale”, ” questi spocchiosi/e continuano a trattarci come caproni da istruire e i caproni sono loro e devono quindi smetterla di sproloquiare”, e via di bacheca in bacheca.
E’ ingenuo da parte mia pensare che, magari, sarebbe cosa utile per tutti controbattere serenamente sui punti che non ci trovano d’accordo. Serenamente e duramente, intendo. Ma leggendo tutto insieme, ripeto, sembra di assistere a una platea che trattiene il fiato aspettando che chi è sul palcoscenico inciampi, per esplodere in una risata di gioia feroce. L’ho visto già accadere, e accade ancora, con altre donne “visibili”, come Michela Murgia. E sempre da parte di donne, per lo più.
Cosa voglio dire, che bisogna essere sorelle? Neanche un po’, non ho mai creduto al fatto che non ci possa criticare vicendevolmente. Ma criticare, non spellare vive. Perché davvero, sempre ingenuamente, mi chiedo cosa aggiunga alle vite di chi attacca tutto questo, dal momento che, lette da fuori, sembrano vite placide e soddisfatte, con belle famiglie, animali domestici, case grandi, vacanze sulla neve.
Probabilmente è il mezzo che ci porta a eliminare ogni filtro, come è stato detto e ridetto. Ma se si elimina il filtro, e quel che emerge è ciò che pensiamo davvero, non stiamo messi bene. Ed è questo che mi sta a cuore, appunto. E’ questo che sogno: trovare altri modi per usare questo posto, senza trasformarci in branco.
Perché scrivo questo? Molto semplice: perché l’ho fatto altre volte quando si alzava l’onda. Perché qualcuno l’ha fatto per me, quando l’onda ha colpito me: e non l’ho mai dimenticato. Perché si sta molto male, vi assicuro, quando si viene colpiti. Molto. E non ve lo auguro.
Se poi volete chiamarla solidarietà di casta, care e cari, sono affaracci vostri.
Non sono iscritta ai social perchè li ritengo una zona che molti credono franca (magari altrove si comportano altrimenti) e quindi non è luogo per me. Vedo comunque dilagare, anche in altri ambiti, modi poco civili, ammesso che la parola abbia ancora un valore. Offendere, prevaricare, schiacciare l’altro pare diventata una forma di dominio, una potenza. Non fanno forse questo anche i politici? Non vince chi schiaccia la persona e non l’idea che mette sul tavolo? Questo è un gioco al massacro perchè è in tal modo che le idee scadono e le società s’imbarbariscono.
Imbarbariscono… ho forse inventato una nuova coniugazione?