DIARIO DELLA GUERRA AI VECCHI, NUOVA PUNTATA

Nel 1971  Wildred De’Ath  intervista Du Maurier per la BBC. Le chiede questo, fra l’altro:
De’Ath: Hai 64 anni. Avverti un declino nella tua creatività?
Du Maurier: [ride] Declino! [ride] Suppongo che a 64 anni si debba cominciare a declinare un po’!  Ovviamente, quello che scrivo oggi non è così nuovo come quando avevo ventun anni. Si attraversano fasi diverse. Ma a parte le ossa doloranti non mi sembra di conoscere un declino così spaventoso.
De’Ath: Pensi che ci sia un culmine per uno scrittore?
Du Maurier: Oh, non lo so! Credo che scrivere sia una cosa che puoi fare fino a ottant’anni! Guarda Agatha Christie!
In questi giorni, più o meno alla stessa età di Daphne Du Maurier, mi interrogo non tanto sul declino ma sulla percezione comune del declino stesso. Quando ho scritto Non è un paese per vecchie avevo poco più di cinquant’anni: molta di quella percezione l’avevo intuita, ma non sperimentata direttamente. In queste settimane post o in pandemia, a seconda dei punti di vista, mi rendo conto che quella percezione è aumentata. Intendo dire che oltre all’idea generale, non evidentemente estirpabile, della vecchiaia come portatrice di idee, intuizioni, sguardi, scritture anche, da superare  in quanto ritenuta non in grado di percepire il nuovo, si aggiunge una sorta di più o meno strisciante insofferenza. Sappiamo come i primi bersagli collettivi del lockdown siano stati i vecchi: prima dei runners e prima degli aperitivisti, ci si accaniva proprio contro i più esposti, quelli che in numero impressionante sarebbero diventati le vittime. E perché escono, questi vecchi? Perché non rinunciano alle loro abitudini mettendoci tutti in pericolo? Ricordo con precisione lo sgomento provato guardando un’edizione regionale del Tg3, quella laziale, quando un’aggressiva giornalista inseguiva i vecchi al mercato in zona Prati, rimproverando infine aspramente una signora che era andata a fare la spesa e intimandole di starsene a casa. E io come mangio?, si chiedeva, umiliata, la signora.
Poi c’è stata la fase genitoriale: quella in cui i genitori di bambini piccoli o ragazzini, giustamente (sottolineo e rilancio: molto giustamente) preoccupati per i propri figli, sbottavano che si chiedeva loro un sacrificio enorme “per salvaguardare i vecchi”. E da là a Diario della guerra al maiale di Bioy Casares è un attimo. Infine, nella fase attuale, serpeggia un certo vitalismo a volte inconsapevole e a volte esibito, un’insofferenza verso i vecchi timorosi, i capannisti o grottisti di cui si parlava qualche post fa. Come se vitalismo e prudenza fossero reazioni opponibili, laddove sono, come si diceva, due lingue dello stesso fuoco: possibili reazioni allo stesso trauma, che non è, insisto fino allo sfinimento, fino a che qualcuno non mi dirà piantala e fatti un bicchiere, una risata, una capriola sulle mani se sei in grado, evitabile né va evitato o rimosso.
Parlo ancora una volta per me, visto che questo blog ha provato, in questi mesi, a compiere lo spericolato esercizio di tenere insieme percezione individuale e percezione collettiva, ma il punto di vista è evidentemente parziale: resto ostinatamente convinta che ci si possa accartocciare su se stessi a qualunque età, che il declino creativo o percettivo dipende non tanto da un fattore generazionale ma da una diminuzione della curiosità e dell’attenzione e della capacità di non proiettare se stessi su quel che si guarda. Semmai, con l’età declina una certa foga che riguarda l’ambizione, perché si prova a ragionare su quel che si può eventualmente ancora dare in termini creativi o di riflessione o di scrittura o di sguardo sul mondo e meno a quel che si può ottenere con quello sguardo, e questa è la differenza che vedo. Naturalmente parlo di atteggiamenti, non di problema sociale: perché è evidente che il sistema in cui ci muoviamo penalizza enormemente i giovani (ma, attenzione, non avvantaggia che una parte minoritaria di maturi e di vecchi, proviamo a non dimenticarlo). Voglio dire, in poche parole, che se ci interessa la questione del cosiddetto ageism sarebbe il momento di capire cosa sta accadendo esattamente ora. Laddove, per esempio, circola anche un altro pensiero: se infine “ce la siamo cavata” con la morte di alcune decine di migliaia di vecchi, in fondo ci è andata bene.
Vidal pensò che nella vita arriva sicuramente un momento in cui una persona, qualunque cosa faccia, annoia soltanto. Resta allora solo un modo per recuperare il prestigio: morire.
(Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra al maiale)

2 pensieri su “DIARIO DELLA GUERRA AI VECCHI, NUOVA PUNTATA

  1. vecchi improduttivi ( su cui grava molto del lavoro di cura a figli e nipoti che permette il funzionamento del lavoro produttivo), a cui si pagano pensioni fino a durata imprevedibile. Io sono una di loro e a 75 anni il mio lavoro di cura è quello culturale : condivido il sapere che ho accumulato in tutti questi anni non con nipotini biologici, ma con una quantità di sorelle, figli/ie e nipoti (sempre che vogliamo fare gerarchie di età). Ma si sa la cultura non conta.

  2. Era cominciata ben prima del COVID la guerra al maiale.
    Era mettere una categoria contro l’altra: giovani contro vecchi; italiani contro migranti ecc.
    Quello che la pandemia ha messo davanti ai nostri occhi è stato un disastro e un successo, insieme.
    Una tragedia e un miracolo.
    Sulla tragedia si sono spesi molti articoli e sarà anche la Magistratura che dirà qualcosa in più sulle responsabilità.
    Sul miracolo invece: raddoppio dei posti letto in Terapia Intensiva; sdoppiamento dei ventilatori perché con un nuovo congegno potessero servire a ventilare due pazienti contemporaneamente; il lavoro, la competenza, la sofferenza, i contagiati, i morti tra il personale sanitario.
    Vorrei ricordare ai giovanilisti che l’età
    media tra gli infermieri è di circa 50 anni e tra i medici è di circa 55 anni. Ergo abbiamo gente di oltre sessant’anni che ha contribuito a salvare la vita di decine di migliaia di persone.
    Non credo si debba giustificare la propria esistenza in età avanzata, con qualche utilità che potremmo portare agli altri.
    Facciamo qualcosa invece per riconciliare le persone di diverse generazioni.
    Forse è il momento di chiedere per i giovani una stabilizzazione e il loro ingresso massiccio nei posti di lavoro che tra un po’ resteranno sguarniti da noi vecchi, specie per i più formati costretti ad emigrare.
    Nuove competenze, nuove alleanze e collaborazioni: di questo abbiamo bisogno.
    Di lavorare affiancati per conoscerci, questo sarebbe utile.

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