Dopo una lunga, singolare e, va detto, bella estate, si torna e ci si rende conto che, come è avvenuto regolarmente negli ultimi anni, ci si divide e ci si scontra e ci si accusa e ci si disprezza. Ne ho accennato ieri sera su Facebook, dei cachinni riservati a chi nega l’importanza della mascherina (che per me, tanto per mettere le manine avanti, è indispensabile) e degli insulti che i neganti riservano a chi invece la mette. Semplificando, ma è così. Ed è appunto una vecchia storia, che dura da quando questo paese si è incistato sulle sue divisioni, e da quando i giornali, va detto pure questo, soffiano sul fuoco della dicotomia, prendendo in prestito dai social il linguaggio e l’irrisione.
Non passerà così in fretta, e forse non passerà affatto. Perché non so se tutti noi abbiamo davvero bisogno di un nemico, ma di certo lo hanno i giornali, per vendere, le televisioni, per sopravvivere, molti politici, per ottenere voti. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole.
Così, tento una prospettiva diversa, l’ossessione per il corpo che è uno degli aspetti della questione: proteggerlo, curarlo, preservarlo, come è giusto che sia. Ovviamente il corpo è quel che abbiamo, e però ha cominciato a essere al centro dei nostri terrori in tempi più recenti di quanto si possa pensare, come qualche tempo fa ho accennato qui. La paura di quel che può avvenire al nostro corpo è leggibile con molta chiarezza nella narrativa fantastica (non potevo non iniziare l’autunno del blog senza parlarne, giusto?), che negli anni Ottanta trasforma quella che King chiama la Cosa Senza Nome e che grossomodo coincideva con la Creatura di Frankenstein in metafora del cancro (o dell’Aids), dunque di qualcosa che non viene creato ma si crea da sé e ci cresce dentro in un agghiacciante «body horror», orrore del corpo e per il corpo. Mutazioni genetiche, malattie, mutilazioni, ibridi, invasioni aliene che passano per il corpo: questo è ciò che incuriosisce e attrae gli autori horror, in letteratura e al cinema, in quel decennio e dopo, per mostrare che, appunto, la paura è dentro di noi. Avviene nei film, nei romanzi, nei fumetti. Avviene in Alien di Ridley Scott, Videodrome e La mosca di David Cronenberg, La cosa di John Carpenter, Raw – Una cruda verità di Julia DuCournau, la miniserie a fumetti Black Hole di Charles Burns, il romanzo Carnival Love di Katherine Dunn, La metà oscura dello stesso King, dove dal corpo si scinde un alter ego. L’alter ego era quello di King, o meglio, era la sua esperienza nella vita di un altro che era lui stesso: Richard Bachman, che ha usato a lungo come pseudonimo, gli serve per creare George Stark, eteronimo di Thad Beaumont, che fa lo scrittore (a Ludlow, la stessa di Pet Sematary) e lo seppellisce, come King seppellì infine Bachman. Non gliene verrà un gran bene. Dal nostro corpo e dalla nostra mente arrivano i fantasmi peggiori.
Oggi, mentre annaspiamo nella paura per i nostri corpi insidiati dalla pandemia, o da quelli che riteniamo essere gli effetti collaterali delle mascherine, dimentichiamo quel che l’horror e il fantastico sapevamo. Non siamo che The Soft Machine, la macchina morbida, come diceva già all’inizio degli anni Sessanta William Burroughs, e il meccanismo di controllo invade il corpo umano come uno spettro in cerca di dimora. Oggi, mentre ci abituiamo a sostituire parti del nostro corpo e a dialogare con l’assistente di Google, dimentichiamo, e se ricordassimo sorrideremmo, precognizioni lontane come quella di RoboCop di Paul Verhoeven, distopia ambientata in una Detroit violenta dove si vagheggia un cyborg di pattuglia, e la morte di un poliziotto vecchio stile, Alex Murphy, ne fornisce l’occasione. Le parti mutilate di Murphy, ovvero la maggior parte del corpo, vengono sostituite da protesi meccaniche rivestite da una corazza di titanio e kevlar e il suo cervello integrato con un sistema informatico.
Preservare l’integrità e purificare, questa sembra essere la nostra ossessione. Come ne La vegetariana di Han Kang, dove l’orrore è sempre qualcosa che cresce al nostro interno: un figlio, un mostro o, in questo caso, carne morta, che la protagonista Yeong-hye da un giorno all’altro decide di non mangiare più né di vederne, laddove è possibile. “Perché?” le domandano, e si domandano il marito, i parenti, i conoscenti. “Ho fatto un sogno”, risponderà lei. Ma nessuno può capire. Proprio lei, cuoca provetta, il cui “piatto forte consisteva in fettine di manzo sottilissime insaporite con pepe nero e olio di sesamo, poi passate in una panatura abbondante di farina di riso colloso, come i dolci di riso o le frittelle, e immerse nel brodo bollente dello shabu shabu. Preparava un bibimbap con germogli di soia, manzo macinato e riso messo precedentemente in ammollo e poi saltato in padella nell’olio di sesamo. Faceva anche una densa zuppa di pollo e anatra con patate tagliate a pezzi grossi, e un brodo speziato stracolmo di vongole e cozze tenerissime, di cui ero capace di divorare con piacere fino a tre piatti di seguito”. Yeong-hye crede che la strada da compiere sia quella di trasformarsi in vegetale: è una forma di resistenza alla vita stessa. Mutare per non morire di paura.
Sarebbe facile ricordare che non mutare, nel corpo e nella mente, è impossibile, perché è appunto la vita che muta e ci muta. Non avrebbe senso o effetto, temo, perché il gioco che stiamo giocando è quello di mantenerci immobili nelle nostre convinzioni. D’abitudine, non porta bene. Ma l’autunno non è ancora iniziato, e proviamo a stare a vedere.
Ben ritrovato, commentarium.
Non negarmi una piccola parentesi per della leggerezza, Loredana.
Mi riferisco ad “Alien”; file e libro.
Ne ho scritto un piccolo post a fine agosto 2020.
http://ricciotti.ilcannocchiale.it/2020/08/22/non_piu_di_30_minuti.html
Per il resto: Il tuo scritto merita assoluta e serena riflessione.
E per me – per ciò che vale – è cosa notevole.
Alfredo
Bentornata, voce del pomeriggio… davvero bentornata.
Buongiorno e ben tornata!
Cristina
Bentornata in onda, è un piacere ritrovare la tua voce! Purtroppo non ci siamo potuti rivedere qui nelle Marche perché la mia non è stara una bella estate… mais j’en passe.
Dopo quanto successo a Willie, credo che queste tue riflessioni siano più che mai necessarie. E le opere che hai citato sono per me dei riferimenti irrinunciabili per capire i nostri abissi.