I LIBRI SU AMAZON, LA CIOCCOLATA, LA REGENDERIZZAZIONE DELLA LETTERATURA

In un importante, denso articolo di Emma Gainsforth si affronta una questione molto, molto complicata cui ho almeno fatto cenno nei giorni precedenti, qui e altrove. Cosa succede quando le istanze dei movimenti vengono cannibalizzate dal marketing? E, allargando il cerchio, di cosa parliamo quando parliamo di identity politics? Scrive fra l’altro Gainsforth:
“Che l’identity politics sia una trappola – o che sia un’istanza giusta intrappolata – lo si capisce guardando Amazon – nello specifico, l’editoria su Amazon. La produzione costante di categorie esistenziali o identitarie serve alla creazione di categorie di consumatori: l’invenzione di profili serve a vendere. In quella che è a tutti gli effetti una ghettizzazione delle soggettività – generi che tra loro non si toccano – è molto facile scambiare ciò che piace con ciò che si è. Sappiamo anche, dagli studi che sono stati fatti sulle piattaforme in generale, che il profiling – oltre a essere una pratica poliziesca – serva ad anticipare, a creare, bisogni e comportamenti che solo il mercato soddisfa. A patto che i generi non si intersechino, perché Amazon, per dire, non sarebbe in grado di anticipare una soggettività che non si lasciasse includere in maniera abbastanza ordinata nella sottocategoria creata appositamente, personalizzata.”
Dice ancora Gainsforth:
“Un’idea molto confusa di riconoscimento – che domanda inclusione al soggetto sbagliato – finisce per darsi in termini di rispecchiamento: pare a tratti che l’agenda della discussione politica venga dettata dal mainstream, da Hollywood, e in generale dalla produzione di immagini – più difficilmente di parole – in cui diventa molto facile intravedere una conquista anziché uno svuotamento.”
E ancora:
“Farlo con la letteratura è più difficile – le parole si muovono in maniera diversa rispetto alle immagini, difficilmente si lasciano fissare, come una foto in cui riconoscersi – a meno che non siano slogan, o claim. Eppure questa ondata ci dice che è il turno della parola parlata e scritta. Mentre si discute, fintamente, di poesia, è arrivato il turno di Nabokov – Lolita. E di articoli che mettevano in fila tutti i protagonisti maschili negativi della storia della letteratura. Da Cime Tempestose ad American Psycho. Come se uno dei compiti della letteratura non fosse quello di farci avvicinare al male. Persino la letteratura, dove diventa molto difficile stabilire se effettivamente è possibile parlare di una “funzione” – è ora investita da quell’approccio che vorrebbe ripulire il mondo dal male, a partire non dalle cause ma dai luoghi della sua visibilità.”
Passo indietro, e perdonate se cito di nuovo Ancora dalla parte delle bambine. A convincermi che qualcosa non andava, a metà degli anni Zero, fu una barretta di cioccolata:
“Si chiama Yorkie, è una barretta di cioccolata prodotta dalla Nestlé e destinata al mercato anglo-americano. “Uno snack da camionisti – mi scrive Laura Minestroni, ricercatrice ed esperta in comunicazione e pubblicità- Il pay-off e tutta la campagna pubblicitaria fanno leva su questo concetto e questo claim: It’s not for Girls. La scritta It’s not for Girls compare persino sul packaging del prodotto. L’idea di marketing è quella che uomini e donne mangiano in maniera diversa. Soprattutto il cioccolato. Secondo i pubblicitari, gli uomini addenterebbero la barretta ad un lato della bocca, masticando rumorosamente, muovendo molto la mascella, facendo delle smorfie orribili. Le donne masticherebbero lentamente e dolcemente, a bocca chiusa, con gli occhi chiusi, sognanti, estasiate, rapite. Mangiare la cioccolata sarebbe dunque per questi pubblicitari una “pseudo-orgasmic experience”. Mentre, per il target maschile, mangiare la barretta Yorkie è la riaffermazione/dimostrazione della propria virilità. Gli slogan di Yorkie dicono infatti: It’s not for girls, don’t feed the birds, not available in pink and King size, not Queen size. “
Sul blog dell’americana Vee Levene si ricostruisce la vicenda per intero. Yorkie viene lanciata nel 2002 come alternativa al target della cioccolata al femminile: gli spot sono noti anche ai consumatori italiani, peraltro. Sono quelli dove signore rosso vestite vengono scosse da brividi di piacere mentre piovono su di loro getti di cioccolata liquida. La cioccolata virile, dunque, deve invece “riasserire la mascolinità in modo seducente e motivante per i consumatori di oggi”.
La motivazione di fondo è in quella che la ricerca di marketing chiama re-genderization: la società, dicono gli Yorkie-men, si sta muovendo verso il ritorno ai generi, riconsiderando dunque i diversi valori di cui uomini e donne sono portatori: “Viva la differenza. Gli uomini amano fare gli uomini, e le donne sono divertite dalle differenze”. Segnarsi il termine: “divertite”. Ma veniamo al punto: “la crescita del femminismo ha comportato una diminutio del ruolo maschile. I media ci ricordano continuamente il successo crescente delle donne nella società di oggi. Leggiamo giorno dopo giorno dell’abilità delle ragazze nella scuola primaria o delle laureate. La corsa delle donne sembra inarrestabile”. Sappiamo che si tratta di un trionfo percepito e non reale. Comunque sia, l’idea è quella di offrire qualcosa che le donne non possono toccare. Yorkie, appunto, come icona primaria del ritorno al genere.
Lo spot, sia detto, è effettivamente divertente. C’è una ragazza che, pur di assicurarsi la barretta, si camuffa con tuta ed elmetto da muratore e si incolla un paio di baffi finti. Il sospettoso venditore, però, la sottopone ad una serie di test: le fa aprire un barattolo, le sventola un ragno in faccia, esibisce, insomma, tutta la trafila della femminilità stereotipata per smascherarla. La ragazza non fa una piega, e il negoziante, infine, deve venderle la barretta. Ma mentre lei sta per pregustare la conquista, lui assesta il colpo di grazia: “I tuoi occhi sono di un azzurro meraviglioso”. E la sventurata, sospirando, esala: “Davvero?”. Implacabile, l’uomo si riprende la barretta, e virilmente la morde.
In un’altra pubblicità re-genderizzata, si propone invece la top ten delle cose che le donne non possono fare. Ovvero: prendere una decisione, guardare una partita di football senza parlare, guidare in linea retta, usare dieci parole invece di cento, aprire un barattolo senza aiuto, usare un orinatoio, avere un ragno come animaletto domestico, parlare al telefono per meno di quindici minuti, capire il cricket. E, appunto, comprare uno Yorkie.”
Sostituite la barretta con un romanzo. Capovolgete lo slogan: “It’s not for boys”, o “for men”. L’ho scritto qualche giorno fa e lo ripeto. Sto fiutando da qualche tempo una tendenza che mi preoccupa: è sacrosanto (e l’ho fatto e lo faccio) parlare di scarsa “visibilità” delle scrittrici, nel senso di riconoscimento di autorevolezza, nel senso che lo stesso libro firmato da uno scrittore in molti casi susciterebbe un fiorir di elogi. Ma esiste anche il fenomeno contrario, secondo il quale molte lettrici sceglierebbero, dicon le tendenze, di leggere con maggior riluttanza il testo di uno scrittore di sesso maschile, specie se esordiente o quasi. Di qua la critica, di là le vendite. Generalizzo, evidentemente, e altrettanto evidentemente esistono le eccezioni virtuose.Non sto parlando di letteratura, attenzione, bensì di mercato, ancora una volta. Ora, quando nel lontanissimo 2007, in Ancora dalla parte delle bambine, parlavo di re-genderizzazione nei giocattoli, negli spettacoli televisivi, nelle pubblicità (questo per maschi, questo per femmine), ho peccato di ottimismo nei confronti dei libri, che immaginavo meno contagiabili dalla faccenda. Invece, mi sembra che stia avvenendo qualcosa di molto simile: perché si tende sempre più spesso a parlare di comunità di lettrici come qualcosa di distinto dalla comunità dei lettori? Perché si pensa che le lettrici prediligano un certo tipo di romanzo dove, ancora una volta, rispecchiarsi? Perché ci si rivolge loro, come detto altre volte, con copertine da ragazze e con ragazze? Perché si pensa che i temi “femminili” vendano di più? Perché è un dato di fatto. Ma non sarà che quel dato di fatto stiamo contribuendo a crearlo?Mi inquieta questa idea fin qui serpeggiante secondo la quale la lettrice sarebbe meno propensa, che so, a leggere Aramburu o Sebald. Mi inquieta, ancora una volta, la negazione del fatto che ogni lettore, e lettrice, ne contenga molti, che a seconda del momento e dello stato d’animo scelgono David Foster Wallace o Elena Ferrante. Mi inquieta, infine, che quella che sembra una rivolta (e in origine lo era e lo è: noi scrittrici, noi lettrici, eccetera) rischi di diventare un boomerang, e una gabbia.
Come scrive Gainsforth:
“A questo riguardo sarebbe utile ritornare a leggere David Foster Wallace, lo scrittore che forse manca di più oggi, che metteva in guardia, in questo senso, contro il politicamente corretto: ogni linguaggio significa qualcosa e significa anche se stesso, e soprattutto significa chi lo usa. Il linguaggio politicamente corretto, che scambia parole senza scambiare cose, ha il difetto di occuparsi più del parlante che di ciò di cui parla.”
Specchio. Finto peraltro. E gabbia, soprattutto. Al netto di ogni timore, e di ogni distrazione, bisogna cominciare a parlarne. Seriamente.

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