LA LUNGA NOTTE DEI LIBRI VIVENTI

A volte (ci) ritorno. Lo so, è una costante, o se preferite un chiodo fisso. Ma continuo a trovare irragionevole le definizioni e gli incasellamenti dei libri, e soprattutto la convinzione che laddove il realismo non sia strettissimo non ci sia, nei libri medesimi, verità. Studiamo e veneriamo le nostre madri e i nostri padri realisti del Novecento e solo in pochi, almeno in Italia, guardiamo a quelli che non lo sono stati. Paola Masino, per esempio. Gilda Musa, per esempio. Altra cosa se quella narrazione viene da un altro paese: è come se la scrittura, per lettori e molti critici italiani, dovesse inchiodarsi a quel che si tocca (bell’ossimoro, peraltro).
In questi casi, quando non sono troppo estenuata o di cattivo umore, come ora, racconto una piccola storia.
Il 1968 fu l’anno di molti avvenimenti. E fu l’anno del massacro di Mỹ Lai, in piena guerra del Vietnam. Avvenne che un battaglione dell’esercito statunitense impazzì, o qualcosa li trasformò in demoni: nei fatti, stuprarono e torturarono e uccisero 504 donne, bambini, vecchi, senza alcun motivo. Un soldato americano, Lawrence Coburn, dirà molto più tardi: “Mỹ Lai… è come se i morti avessero preso ad afferrare i vivi. Come se non ci fosse scampo alla nostra, alla mia maledizione”.
Non è strano? Quale spirito del tempo soffia, in questi casi? Nel 1968 George A. Romero gira La notte dei morti viventi consacrando la figura dello zombi così come la conosciamo: si raduna in branco, non parla, uccide.
Naturalmente non c’è alcuna prova che colleghi la strage di innocenti e le disavventure di Ben e Barbara, intrappolati nella casa colonica di un cimitero della Pennsylvania che pullula di morti viventi. Né ci sono prove che Romero abbia voluto fare altro da un semplice, piccolo film che sarebbe divenuto un culto, a dispetto delle interpretazioni: metafora della guerra fredda (nella quale gli zombi rappresenterebbero i sovietici) o critica al capitalismo o al razzismo. Ma la scelta di un attore di colore fu casuale. E’ lo stesso Romero a dirlo:
«Stavo portando la prima copia stampata de La notte dei morti viventi a New York. Ero in macchina e alla radio annunciarono l’omicidio di Martin Luther King. Immediatamente pensai che il mio primo film sarebbe diventato un film totalmente politico»-
Eppure. Eppure.
Assegnare “etichette” agli scrittori, vivi o morti, è un comportamento insensato, in ogni circostanza, un passatempo infantile per menti piccine, e molto “deprimente”, poiché nel migliore dei casi dà troppa importanza a ciò che ha in comune un gruppo ristretto di scrittori, e distoglie l’attenzione da quanto c’è di individuale (e non classificabile) in ognuno di loro, che è l’elemento che dà loro vita (se ne hanno)”.
J.R.R. Tolkien, bozza di lettera a P. Szabo Szentmihaly – 1971

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