IL LUNGHISSIMO CONTAGIO

«I delinquenti sono sempre quelli dell’appartamento di fronte, o dei casamenti vicini, con uno snobismo stupefacente. […] Al vertice dell’antropologia borgatara c’è forse la pulsione suicida di sparire dall’anagrafe, lasciando che il peggio accada senza il minimo tentativo di evitarlo: per superba immobilità, per constatazione atavica, per autolesionismo inconscio travestito da astuzia.»
E’ un brano da Il contagio, per me il romanzo più bello di Walter Siti. Uno di quelli a cui torni a pensare, per infiniti motivi anche pre-pandemia. Poi, certo, dopo oltre un anno di sospensione della vita, ci si ripensa per forza, ma forse non per la ragione più immediata. Siti rifletteva, davvero con preveggenza,  sull’estensione del morbo, laddove il morbo significava vogliamo la stessa cosa, desideriamo somigliarci, avvoltolarci nella stessa voracità, nella stessa rabbia, a qualunque classe sociale apparteniamo. E’ esattamente quel che ci è avvenuto. Ed era il 2008. Non a caso, anche qui.
Tre anni prima, Luciano Canfora aveva scritto un articolo su cosa significa contagio:
“Nel 430 a.C., pochi giorni dopo l’ invasione spartana, l’ Attica fu all’improvviso colpita da un contagio pestilenziale. Il più grande leader ateniese – Pericle – morì appunto di quel contagio, in quelle settimane. La guerra, da lui ritenuta inevitabile, e di cui aveva non solo previsto, ma accelerato lo scoppio, finì dunque, per lui, quando era appunto incominciata. Secondo Tucidide, storico e testimone di quei fatti, la perdita fu irreparabile. Tucidide sembra quasi voler dire, in un famoso passo della sua opera, che fu dunque la peste di Atene il primo fattore di vittoria per il nemico: proprio perché cancellò il solo leader che gli avrebbe potuto tener testa.
Ecco perché si formularono ipotesi e nacquero leggende sull’origine del contagio. Ipotesi, sulla sua provenienza: l’ Etiopia, l’ Egitto, la Libia. Leggende, sul modo in cui il contagio aveva attecchito. La tesi che molti fecero propria fu che – come scrive Tucidide il quale prese egli stesso il contagio ma si salvò – «il nemico aveva avvelenato i pozzi». Si portavano in proposito pseudo-prove. La prima era che il contagio fosse esploso all’improvviso; la seconda che si fosse manifestato dapprima al Pireo, dove non esistevano «fonti d’ acqua sorgiva» ma appunto un sistema di pozzi per l’ acqua.
L’ idea che il nemico venisse a fare «l’ untore», a mettere il veleno in quelle strutture (i pozzi) preziose e vulnerabilissime, non rimase un caso isolato. Una tale idea è tipica dell’ ossessione che discende dall’ odio e dalla certezza che il nemico adopera ogni mezzo, onde sentirsi legittimati a usare a propria volta ogni mezzo contro di lui. Non erano pregiudizi che nascevano dal nulla visto che un trattatista dell’ arte della guerra come Enea Tattico (non di molto successivo rispetto a Tucidide) raccomanda in un passo del suo trattato di «rendere l’ acqua non potabile». E Floro, lo storico del tempo di Adriano, afferma che Manio Aquilio, comandante romano in Asia, effettivamente fece avvelenare i pozzi nell’ anno 129 a.C. Ma Floro aggiunge che così macchiò l’ onore delle armi romane fino a quel momento immacolate. L’ accusa divenne col tempo topica e fu adottata contro nemici su cui si riteneva facile convogliare l’ odio”.
Esiste un problema di cui non vogliamo, mi sembra, renderci conto, e quel problema trascende la situazione che viviamo: non abbiamo la minima idea di come analizzare quel che ci circonda, siamo immobili, affondati nella nostra rabbia. Preferiamo pensare che esista un nemico che ha avvelenato i pozzi, senza capire che siamo noi stessi a farlo, giorno dopo giorno.
Quando è avvenuto davvero, abbiamo continuato ad agire nello stesso modo. Pensiamo, intendo, nello stesso modo. Tutto questo preesisteva alla pandemia. Tutto questo è quello che ancora non riusciamo ad affrontare. Tutto qui. Ed è parecchio.

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