Post molto lungo. Riproduco integralmente gli Appunti sul "come" e il "cosa" di Gomorra di Wu Ming 1, on line come supplemento a Nandropausa.
Al
bergamasco Angelo Giuseppe Roncalli, che nel periodo 1958-1963 fu da alcuni
ritenuto portavoce di Dio, si attribuisce una celebre esortazione:
"Figlioli miei, cercate quello che unisce più di quello che divide".Tra le cose che uniscono tutti i commentatori di Gomorra vi è una
constatazione: il libro di Roberto Saviano è al contempo letteratura e
giornalismo. E’ un’inchiesta ed è un romanzo.
Di per sé, questa doppia natura non rappresenta una novità.
1. Letteratura e giornalismo prima
La narrativa d’invenzione (fiction) e il
giornalismo (non quello delle news: quello dei reportages, dei features)
si sono incrociati, imitati, contagiati fin dalle origini di quest’ultimo.
Sovente i cronisti sono diventati romanzieri, o i romanzieri hanno scritto su
giornali. Per limitarci al ventesimo secolo, non si può non menzionare
Hemingway, che è primus inter pares, elemento di spicco in una vasta
congerie di scrittori (e scribacchini).
In passato, però, esisteva un "doppio binario": la produzione
narrativa e quella giornalistica/saggistica di un autore
"dialogavano" tra loro, ma da posizioni distinte, e spesso si notava
un dislivello. John Reed fu un meraviglioso reporter, grande narratore di
accadimenti realmente vissuti, ma i suoi tentativi di romanzo erano pietosi, e
infatti sono finiti nel dimenticatoio (cfr. la biografia scritta da Robert A.
Rosenstone, John Reed rivoluzionario romantico, Editori riuniti, 1976).
Anche a parità di resa qualitativa, si trattava comunque di due percorsi
distinti: nei romanzi, la prosa di Dos Passos non è la stessa usata nel
ricostruire il caso di Sacco e Vanzetti (Davanti alla sedia elettrica,
Edizioni Spartaco, 2005). Quando Emile Zola scrive del caso Dreyfuss, la sua
lingua non è la stessa di Germinal.
A sancire la separazione in modo drammatico (nel senso di
"plateale"), esistono casi in cui un romanziere smette di scrivere fiction
e si dedica interamente ai reportages: Jean Genet dopo il 1961.
Fino a non molto tempo fa, quando un quotidiano faceva scrivere un romanziere,
gli commissionava il cosiddetto "elzeviro", cioè un testo
dichiaratamente avulso dal resto del giornale.
Certo, incroci e contagi si sono sempre verificati: senza uscire all’indietro
dal Novecento, si pensi al reportage di guerra che diventa travelogue esotico,
deborda nell’elzeviro e poi, quando ne ha voglia, torna in tema. Era la
specialità di Luigi Barzini Senior: "Marzialmente vestito di una uniforme
kaki da lanciere inglese (comprata bell’e fatta sullo Strand di Londra), la
vita stretta in un lucido cinturone da cui pendeva una rivoltella da cavalleria
lunga come una carabina, e accompagnata da un coltellone da caccia che, quando
era aperto, pareva una baionetta, le gambe avvolte da quelle fasce elicoidali
che erano allora una novità per guerrieri alla moda, il capo sepolto nell’ombra
di un esorbitante e autorevole casco di sughero, binocolo e macchina
fotografica a tracolla, l’indomani mattina sbarcavo ufficialmente aggregato ad
una compagnia di marinai destinata a marciare su Pechino."
In genere, però, non era quella la regola.
2. Letteratura e giornalismo poi
Nella seconda metà del Novecento alcuni autori, ciascuno
seguendo la sua via, realizzano una piena, completa fusione tra fiction
e giornalismo.
Sia chiaro: questo non significa "inventarsi i fatti", sposare la
"finzione" (traduzione bruta di fiction): significa invece
usare nel giornalismo gli stilemi, gli espedienti, le retoriche e le
costruzioni tipiche della letteratura.
L’espressione "non-fiction novel" (romanzo di cose vere,
inchiesta scritta come romanzo) viene usata per la prima volta all’uscita di A
sangue freddo di Truman Capote, nel 1967. Ma quell’anno sono già successe
molte cose. In Italia si muove da tempo Gian
Carlo Fusco, scrittore e romanziere senza soluzione di continuità, autore
di reportages e inchieste in cui ha un peso inaudito la soggettività di chi
scrive. Il 18 dicembre 1955 "L’Espresso" gli pubblica un articolo,
"Morte nella nebbia", sulla scomparsa nei campi – e successiva morte
per assideramento – di una giovane contadina schizofrenica. Fusco non si limita
alla cronaca, ma "entra nella testa" della ragazza, ne ricostruisce
gli stati d’animo, descrive azioni che nessuno può aver visto. E’ già una short
story, pur rimanendo un articolo di giornale: "La temperatura, verso
mezzanotte, scese di colpo. Da quattro gradi sopra zero, calò a tre sotto.
Caterina, reagendo a rovescio come ogni pazzo, anziché cercar di coprirsi,
prese a spogliarsi. Tolse il golf, la gonna, la sottoveste, le calze, le
scarpe. Restò con una maglia leggera e le mutandine, vagante nella notte sorda:
bellissima, demente e seminuda, tra i fantasmi scheletriti degli alberi, come
un’eroina dell’Ariosto…" Fusco ci ha regalato alcuni libri memorabili,
di difficilissima catalogazione, tra narrativa, storia e automitobiografia. Uno
dei più grandi scrittori italiani, ovviamente ignorato dalla "critica che
sa".
Capote, poi, ha molti compagni di strada. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta
la simbiosi tra letteratura e reportage si realizza in modo clamoroso, con il
cosiddetto New Journalism, autori come Tom Wolfe, George Plimpton, Gay Talese, Hunter S. Thompson… Scrivere
l’inchiesta-romanzo, reportages iper-soggettivi, addirittura immersivi.
I due binari convergono, si uniscono.
Paper Lion di Plimpton (1964), "Frank Sinatra Had A Cold" di
Talese (reportage del 1966), Hell’s Angels di Thompson (1966) e The Electric
Kool-Aid Acid Test di Wolfe (1967), sono le opere-simbolo del New
Journalism, le testate d’angolo dell’intera costruzione. In seguito Tom
Wolfe passerà al romanzo-romanzo, Talese perderà la verve, Plimpton continuerà a regalare al mondo
grandi reportages in tutto simili a romanzi. Thompson, addirittura, fonderà un
sotto-genere, il gonzo journalism, in cui l’immersione del giornalista
è realizzata grazie a uno stordimento, la lucidità e l’obiettività scompaiono
del tutto, si cerca di descrivere la realtà da un punto di vista estremo e
alterato. Quasi superfluo citare il libro più importante di Thompson, quello a
cui rimarrà legato fino alla morte, Fear and Loathing in Las Vegas (1971).
Nessuno può negare che questi libri facciano parte della storia della
letteratura mondiale. Il neologismo "faction" è il frutto di
uno dei tanti tentativi di definirli.
In America molti concordano nell’affermare che il miglior scrittore americano
degli anni Settanta fu Lester Bangs, che scrisse quasi soltanto recensioni di
dischi e reportages su tournées di musicisti. Il suo unico tentativo di romanzo
rimase incompiuto. L’incipit suonava come un contrappunto al mitico reportage
di Gay Talese su Sinatra: "Dean Martin had a hard-on". Dean Martin
aveva un’erezione.
Oggi il reportage soggettivo o addirittura immersivo, realizzato con tecniche
di narrazione letterarie, è ovunque moneta corrente. Tanti, anche in Italia,
lavorano nell’intersezione tra letteratura e giornalismo. Il primo nome che
viene in mente: Paolo Rumiz. Che non a caso torna alle origini della
contaminazione, al reportage di guerra (di scontro di civiltà) che diventa travelogue,
e viceversa.
Gomorra non è importante perché fonde letteratura e giornalismo,
fiction e non-fiction: quello lo fanno in molti. Gomorra
è importante per come lo fa. Un ultimo sguardo all’indietro, poi arriviamo al
punto.
3. I nostri luoghi oscuri
Esiste un libro la cui pubblicazione ha rappresentato uno
spartiacque tra il passato prossimo e il presente. Il più importante non-fiction
novel di fine secolo: My Dark Places di James Ellroy (I miei luoghi oscuri, Bompiani, 1996). Autobiografia, Recherche
capovolta, confessione lacerante, discesa agli inferi e risalita, inchiesta
sull’omicidio della madre, reportage sull’inchiesta, storia del poliziotto di
Los Angeles Bill Stoner, e tante altre cose, con l’inserzione di referti
autoptici, articoli di giornale etc.
"La notarono dei ragazzini. Militavano nella Babe Ruth League e stavano
andando al campo per fare quattro tiri. Dietro di loro camminavano tre
allenatori, adulti. Gli adulti notarono alcune perle sparse sull’asfalto. I
ragazzini videro una sagoma nella striscia di vegetazione poco oltre il
cordolo. Un piccolo fremito telepatico serpeggiò nel gruppo." (pag.9)
Negli anni ho discusso con diversi colleghi scrittori (quelli che sento più
vicini, più affini). My Dark Places è uno dei titoli più citati. Quel
libro indefinibile ha aperto piste tra i neuroni e spronato a forzare i limiti.
Non si trattava di seguire l’esempio ellroyano, di scimmiottare quella sorta di
harakiri morale: non è possibile fare un libro "à la My Dark
Places", ma è possibile trarne spunti per sfidare le idee correnti
sulla scrittura.
Dopo il 1996 diversi romanzieri italiani hanno percorso le strade dell’oggetto
narrativo non identificato, scrivendo inchieste come se fossero romanzi,
romanzi scritti come ricerche di storia orale, automitobiografie spacciate per
romanzi o reportages, commistioni di romanzo storico e saggistica etc. In molti
di questi casi, anziché la compiuta fusione realizzata da Ellroy, si è avuta
una mera giustapposizione, o un trapianto mal eseguito, con conseguente
rigetto. Tra queste opere difettose e poco riuscite, noi Wu Ming abbiamo avuto
occasione di inserire il nostro Asce di guerra (i motivi li abbiamo
spiegati nella postfazione alla nuova edizione). Aspettavamo tutti un
oggetto narrativo all’altezza dell’intento. Quell’oggetto oggi è qui, e
racconta i "luoghi oscuri" di un intero Paese.
4. Gomorra
Sbandando
e sbattendo contro le sponde, Gomorra s’infila con furia giù per
questo scivolo. Non è un "Gronchi rosa" delle Patrie Lettere né una
bestia chimerica sbucata dal nulla. Si inserisce in un contesto nazionale e
internazionale, in una continuità tra passato e presente. A distinguerlo è una
sorta di extrasistole che altera il battito della tradizione. Quell’aritmia è
il suo contributo a inaugurare un futuro.
Il modo in cui Saviano realizza la simbiosi tra letteratura e giornalismo è
talmente straniante da sembrare ineffabile. In realtà è comprensibile,
descrivibile, analizzabile, solo che prima occorre liberarsi di alcuni
pregiudizi e arretratezze. In Italia, nonostante i tanti esempi di crossover,
siamo ancora abituati a distinguere nettamente tra i libri degli scrittori e
quelli dei giornalisti, tra il romanzo e il reportage. A dispetto di tutte le
chiacchiere sulla "contaminazione", la critica si è disabituata ad
affrontare l’ibrido. Tutt’al più sa rapportarsi a un ibrido
"endoletterario" (la contaminazione tra diversi generi di fiction),
ma si trova in brache di tela di fronte al meticciato tra ciò che è letterario
e ciò che non lo è.
Qualche mese fa, in Francia, è uscito Ma
cavale
di Cesare Battisti, al contempo romanzo picaresco, travelogue e
memoriale difensivo di Cesare Battisti. Un’opera ibrida, in cui una parte della
fuga di Battisti viene romanzata (anche per necessità, per coprire contatti e
amicizie, depistare le autorità di polizia). Su uno dei più importanti
quotidiani italiani ci è toccato leggere, con vago tono di lamentela, che
"[il lettore non ha] alcuna possibilità… di verificare le parole [di
Battisti]". Di fronte a "oggetti narrativi" che sfidano norme e
scavalcano steccati, l’intellighenzia italiota si disorienta e recrimina.
Spesso fa confusione, e la confusione diventa un maremoto d’idiozia, e si
arriva a discutere di un’opera di fantasia (Il codice Da Vinci) come
se fosse un saggio storico… denunciandone le "invenzioni".
In Gomorra troviamo la letteratura del viaggio iniziatico, l’inchiesta
militante, cucchiai che affondano in madeleines avvelenate, lacerti di bildungsroman
etc. Limitarsi a dire che "Gomorra è un reportage" è un
grosso errore interpretativo. Sono forse reportage i capitoli sul padre di
Saviano, sull’educazione che ha impartito al figlio, sul loro incontro in una
piazza romana gremita fino all’inverosimile?
Sull’ultimo numero di Nandropausa ho cercato di spiegare alcune
caratteristiche dello stile di Saviano, del suo modo di costruire la narrazione.
Non voglio ripetermi. Mi limito a riproporre un quesito, come spunto per il
dibattito: chi è che dice "io" in Gomorra? E’ sempre e
soltanto l’autore? In subordine: non ha forse a che fare con la natura di
quest’io narrante la capacità di Saviano di passare da un genere all’altro,
anche nell’arco di pochissime pagine? Quest’io narrante raccoglie anche
esperienze altrui e se ne fa ambasciatore. Lo si capisce molto bene leggendo le
riflessioni di quest’io sulle scene dei delitti, di fronte a cadaveri con le
viscere esposte, acquitrini di sangue etc. Invito a rileggere quelle parti. Chi
è quest’io che accorre sempre per primo sui luoghi degli omicidi, ed è sempre
tra i primissimi a vedere il corpo?
Qual è il merito di questo io? Senz’altro quello di cucire insieme le storie e
metterle nella giusta sequenza, quella iniziatica. Quest’io narrante (e il
lettore con lui) supera delle prove lungo un percorso che porta alla
consapevolezza. E la consapevolezza giunge: terminata la lettura, ci si accorge
che qualcosa è cambiato. Ne sappiamo più di prima. E non capita molto
spesso.
Come precisavo poc’anzi, introdurre la fiction nel reportage non
significa aggiungere "finzione", non significa inventarsi gli eventi.
Significa operare con tecniche letterarie sul modo in cui questi eventi vengono
collegati l’uno all’altro, messi nello stesso contesto, comunicati al lettore.
Per far questo si ricorre a certe retoriche, si usa il linguaggio in modo non
"obiettivo". Ben lungi dall’introdurre "irrealtà" e panzane
nel testo, tale "sfondamento" finisce per descrivere una realtà in
modo più potente. Si tratta né più né meno del saper raccontare una storia nel
miglior modo possibile. Una storia che è vera, in questo caso. Bisogna cercare
l’equilibrio: raccontarla bene, benissimo, senza farla sembrare falsa. Trovare
la lingua e le retoriche giuste. Saviano ci è riuscito.
Pur riconoscendo la fortissima "letterarietà" del testo, pur
individuando alcuni stratagemmi, pur rinvenendo le retoriche, nemmeno per un
istante ho dubitato che quanto raccontava Saviano fosse vero. Gomorra
è costruito su fonti primarie, scritte e orali. Atti di istruttorie, verbali di
dibattimenti, carte di polizia, interviste, soggiorni "immersivi"
(come certi corsi di lingue) nei territori della camorra. Ma se questo libro
fosse stato semplicemente un reportage, non ci avrebbe fatto capire tante cose
sul "Sistema", non ci avrebbe comunicato il senso che la camorra
riguardi tutti noi e non solo i campani (io vivo in Emilia-Romagna, una delle
regioni a maggiore infiltrazione camorristica, come dimostrano gli arresti di
qualche giorno fa), non ci avrebbe fatto riflettere sul nucleo criminogeno del
capitale e il suo modo di produrre innovazione, non ci avrebbe messo sottopelle
l’urgenza di interrogare le dinamiche del mercato e del consumo.
Alla fine dei giochi, non esiste separazione tra il "come" e il
"cosa". Senza capire il come, non si capisce il cosa. E’
politicamente importante interrogarsi su com’è costruito il libro, a cominciare
dalla natura cangiante dell’io che narra. Questo è il mio invito. So long.
Cara Loredana, a me ‘sta battaglia dei generi continua a sembrare molto strumentale. Nessuno contesta la contaminazione dei generi, che è uno dei pilastri della letteratura postmoderna, ma è che in questa discussione sembra che quando fa comodo i generi non esistono (“noi tutti produciamo […]’oggetti narrativi’ che se ne fottono del filo spinato, degli allarmi, dei cocci di vetro sul muro di cinta”; dicono i Wu Ming), e invece si rispolverano e diventano fondamentali, anche se in negativo, quando sono funzionali alle proprie tesi (il posizionamento di Gomorra nel reparto narrativa, perché non “ha nulla a che vedere con la saggistica”, come dice Genna). Qui, a mio avviso, ci sono solo forzature ideo-logiche. E’ come se fossero partiti da un ipotetico sillogismo “barbara”, che postula che:
– tutti i grandi libri sono fiction
– X è un grande libro
– X è fiction
ora entra in scena Y: putativo grande libro non di fiction. si aprono le due vie tradizionali:
il sillogismo “baroco”:
– Y non è fiction
– tutti i grandi libri sono fiction
– Y non è un grande libro
e il sillogismo “bocardo”
– Y non è fiction
– Y è un grande libro
– alcuni grandi libri non sono fiction.
“baroco” ammette la regola e sacrifica l’eccezione, mentre “bocardo” ammette l’eccezione e sacrifica la regola. ecco, forse il problema è che noi
italiani sposiamo le regole ma andiamo a letto con le eccezioni.
Contaminazione e sfondamento delle barriere dei generi? A me viene in mente quel luogo comune che spinge alcuni a vedere la donna a un tempo come mamma, amante, puttana, madonna, avvocatessa, diavolo… mentre magari è solo mamma-amante-puttana-madonna-avvocatessa-diavolo… :-/
Garufi, ma invece che fare sfoggio del tuo nozionismo, perché non scrivi qualcosa nel merito di quel che si sta dicendo, una buona volta?
non si stancano mai di mettersi in mostra questi qui
benedetti e scarpa hanno detto tutto
ma questi son duri a farsi da parte
Come Totò e Peppino (e la malafemmina, ovviamente):
– E ho detto tutto!!!
– Che hai detto??
Questo testo ha il merito di tornare a bomba sul libro e quel che c’è scritto, con un’apertura iniziale addirittura ecumenica e un invito ad argomentare, ma evidentemente c’è chi ha interesse a portare avanti la polemica strumentale, e a questo punto non è difficile capire per chi tifano costoro (e quindi, forse, chi li manda). Chi sta cercando di mettere in ombra il libro di Saviano?
Tranquillo, il libro di Saviano, per fortuna, è ormai pienamente al sole… O Sole Suo:- )
what balls this gomorra!
Uno dei principali problemi che pone Gomorra di Roberto Saviano è il rapporto tra la scrittura e la realtà. Il problema è amplificato dalle “ambiguità” del libro stesso, il quale assume ora l’aspetto di un saggio, ora quello della narrazione in prima persona di un vissuto che è totalmente inserito nell’oggetto preso a riferimento, come se si trattasse di una sorta di autobiografia o, forse più propriamente, dell’esposizione di quella che alcuni ricercatori sociali sono soliti chiamare “osservazione partecipata”. Ciò che immediatamente salta all’attenzione è il rapporto non oppositivo tra i due momenti: la linguisticità – la “realtà linguistica” – non mira ad eccedere il reale, cercando invenzioni che ne minino la decifrazione; mira piuttosto a diventare traccia del reale stesso, ricalco sofferto dell’extra-linguistico, in modo tale da permettere al lettore una acquisizione di informazioni ulteriori sul sistema-camorra, sia dal punto di vista della sua struttura economica che da quello della psicologia di fondo dei soggetti che vi partecipano o la subiscono. Ciò che pare premere all’autore è comunicare la sua esperienza e la sua sapienza su un fenomeno di portata quasi sconosciuta, direi sottovalutato, senza ricorrere al richiamo a valori astratti e senza infarcire la narrazione di frasi roboanti e buoniste e limando la scrittura attorno a questo fine. I “fatti” nella loro nudità, esposti con evidente sapienza linguistica, sono più efficaci di mille sentenze.
Fin dal primo capitolo, Il porto, si coglie quello che sarà uno dei dati portanti della scrittura di Saviano: il rapporto tra realtà e linguaggio è gerarchicamente fondato sulla primarietà della prima sul secondo, per cui in Saviano la lingua sembra darsi come “copia” degli enti e delle relazioni propri del divenire sociale e culturale, nonché economico, del fenomeno. È stato definito un reportage. Ma le cose non sono così lineari. Uno dei protagonisti del primo capitolo è proprio l’autore, alle prese con un lavoro di manovalanza nel porto di Napoli, il principale centro di smistamento delle merci che sono la base su cui si poggia l’impero economico della camorra. La descrizione del meccanismo non è neutra. Saviano partecipa in prima persona alla vicenda, è allo stesso tempo colui che analizza il funzionamento e sua appendice. Nella scrittura saggistica irrompe il personale, l’aspetto anche psicologico dell’implicazione diretta dell’autore; e difatti la descrizione di una realtà oggettiva si mischia a frasi dove il vissuto irrompe con forza (“Al porto ci andavo per mangiare il pesce”, etc.). Un reportage letterario; oppure un romanzo documentario. Come ha evidenziato Wu Ming 1, non si tratta di una novità; è un genere (detto anche “romanzo di voci” o “di testimonianza”) che coniuga “dati e invenzioni narrative, descrizioni e sensazioni”, non dissimile, ad esempio, dai reportage di viaggio in cui gli eventi e il sentire dell’autore sono efficacemnete mescidati nell’opera letteraria; e non a caso il sottotitolo del libro di Saviano è “viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra”. Proprio per questa sue evidenti caratteristiche, in Gomorra il primum della realtà viene descritto linguisticamente passando da una carica di impegno in prima persona che, se pure non deforma la realtà stessa, contribuisce a veicolare una interpretazione particolare, una tra le tante possibili, anche se di fatto una delle poche che sulla camorra hanno osato uscire dallo scontato. Il primum, allora, non è anche l’unicum, e la scrittura non è di mero servizio, bensì una scrittura espressiva. Possiamo dunque dire con certezza che il “congegno” ordito da Saviano riguarda, insieme, ed esattamente come accade in ogni riuscita opera letteraria, sia la lingua che la realtà, per quanto gli “umani accadimenti” restano il punto di partenza e il punto di arrivo del procedimento adottato. Le concatenazioni della lingua, insomma, traducono il “mondo e le sue leggi”. Senza, appunto, eccedere la norma; senza cioè attuare alcuna infrazione del rapporto realtà-linguaggio e delle gerarchie interne alla lingua: a differenza di cosa accade in autori tipo Gadda, la lingua in Gomorra è presa come dato fisso e utilizzata senza “fondazione di segni”. In altre parole, Saviano non si associa a quello che è stato definito “il carattere più autentico del Novecento letterario”, ossia all’anti-naturalismo, dove l’autore agisce “soprattutto sul linguaggio e dentro la lingua letteraria”. Anche questa contastazione, che mi pare incontestabile, permette di derubricare il libro di Saviano più come saggio-reportage, quand’anche letterariamente costruito, piuttosto che come opera letteraria tout court.
Probabilmente, se sono vere le considerazioni fin qui fatte, le ipotesi di lettura avanzate da Wu Ming 1 sono quelle che meglio si adattano al libro di Saviano. E Wu Ming 1 è convincente anche sulla questione dell’io narrante. Ma già soltanto la percezione delle diverse fonti su cui si basa la costruzione del libro (verbali, atti processuali, etc) avrebbe dovuto far cogliere l’aspetto della moltiplicità delle voci narranti; le quali, certo, non nascondono l’io dell’autore, però lo accompagnano, ora addiritura lo sovrastano e finanche lo mettono da parte. L’intervento autoriale è potente, lo è il suo punto di vista particolare, ma l’epicità del costrutto lo fa diventare – non sempre, ma per buoni tratti – un io collettivo. È anche vera un’altra cosa scritta da Wu Ming 1: al termine della lettura del libro “ne sappiamo più di prima”; ovvero, la nostra conoscenza del fenomeno-camorra si è arricchita. Già soltanto questo fatto dovrebbe farci riflettere. Nonostante il fenomeno sia noto da decenni, soltanto nel 2006 esce un libro capace di illuminarci. Ora, non credo che Gomorra sia l’unica analisi esistente sulla camorra, non credo insomma che sorga nel deserto; credo però che la modalità di scrittura adottata ne abbia agevolato la circuitazione (e anche una appropriata politica editoriale, certo). E questo è un bene, un grande bene. Ciò che meno mi convince dell’analisi di Wu Ming 1 è il discorso sulla “verità”. Che è, almeno per un libro del genere, un discorso fondamentale. È ovvio che se mi metto di fronte ad un’opera-saggio – poniamo all’indispensabile La guerra perpetua di David Harvey –, il mio giudizio verterà principalmente sui suoi “contenuti di verità”, ovvero su quanto lo sguardo sulla realtà proposto dall’autore mi paia o meno adeguato all’evento osservato. Le 200 pagine del libro di Harvey, complesse e non intriganti narrativamente, dunque ostiche, le attraverso perché voglio capire quali le reali motivazioni che stanno costringendo l’economia americana ad espandere l’opzione militare … Ovviamente, con l’autore condivido un universo di discorso pre-esistente al libro (diciamo il marxismo critico-eretico), e conoscevo e apprezzavo il suo precedente libro sulla “condizione postmoderna”. C’era insomma un humus di condivisione che, insieme alla mia conoscenza dei fatti, mi ha permesso di coglierne a pieno il suo nucleo di verità. Ora, credo che il lettore medio di Gomorra non possa dire altrettanto; la nostra conoscenza del fenomeno è, appunto, vicina allo zero (e credo che questo siano uno dei motivi che ha fatto scegliere a Saviano la forma spuria adottata: né saggio, né romanzo, ma entrambe le cose insieme). Questo pone degli interrogativi, il più pressante dei quali è per me stato: quanto c’è di esagerato?, quanto è sua interpetazione?, quanto insomma è vero ciò che descrive? Ho preso questi interrogativi (sviluppati in forma diversa anche commentando su Nazione Indiana) non come limite di Gomorra, ma come giusto atteggiamento da tenere nei confronti di un libro del genere: vorrei avere il tempo di approfondire la questione e, soprattutto, mi piacerebbe intervistare sul libro di Saviano (sulla sua percezione) uno dei magistrati che ha condotto le indagini sul “dominio” camorristico; e mi piacerebbe approfondire ad esempio l’implicazione – e la indiretta complicità – delle griffe (qualche dirigente inquisito? etc.) … Non credo che questo voler “verificare” sia un “recriminare” o essere “disorientati”, come dice Wu Ming 1 rispetto a come “l’intellighenzia italiota” ha recepito il libro di Battisti; penso anzi che sia l’unico atteggiamento rispettoso del lavoro splendido di Saviano: considerarlo non il parto di un semi-dio, ma opera concreta – e dunque potenzialmente anche erronea – di un uomo che ha scelto di stare dentro le cose …
Marco P.
gomorra non mi piace.
Ma forse sono troppo napoletano per esprimere un giudizio obiettivo. Ma da napoletano, da giornalista napoletano, è gomorra (o meglio, la parte che narra di cronaca nera e camorra) è una ricostruzione, nient’altro. Vabbè.
“da giornalista napoletano”. Sono queste affermazioni debordanti di kitsch che fanno male. Ma poi uno spera – e io lo spero- che libri come quello di Roberto permettano di uscire dal pantano di questi ultimi vent’anni. Giancarlo Siani era un vero giornalista. punto. Di napoletano ormai non c’è nemmeno la pizza visto che la migliore la fanno in Oriente. La napoletanità è un label che serve ai giornalisti napoletani per sbarcare il lunario.
effeffe