Nelle prime pagine de “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood , Difred sbircia nello specchio del corridoio, si vede riflessa:
“Se giro la testa, così che le bianche alette che m’incorniciano il volto dirigano il mio sguardo da quella parte, lo vedo mentre scendo le scale, tondo, convesso, uno specchio che è come l’occhio di un pesce, e con dentro me, un’ombra deformata, una parodia di qualcosa, una figura da fiaba in un mantello rosso, che si avvia verso un momento di noncuranza che è identica al pericolo. Una suora inzuppata nel sangue”.
Un momento di noncuranza identica al pericolo. Frase perfetta. E’ esattamente quello che stiamo attraversando, con la differenza che davanti allo specchio noi ci fermiamo, ne siamo anzi ipnotizzati, e a forza di concentrarci sulla nostra immagine non riusciamo a vedere altro.
Non riusciamo a parlare.
Oggi Luigi Manconi (su Alfredo Cospito) scrive:
Non riusciamo a parlare.
Oggi Luigi Manconi (su Alfredo Cospito) scrive:
“Da qualche decennio, il mio principale mestiere è quello, pressappoco, di agitatore politico. Dico così perché il mio prevalente lavoro, in Parlamento e fuori, è stato quello di prendere parte a campagne di mobilitazione dell’opinione pubblica su questioni relative all’affermazione di diritti, garanzie e libertà. Oggi ricevo una telefonata da Franco Ippolito, fine giurista, che mi chiede ‘che facciamo?’ e Goffredo Fofi, scrittore e critico, mi domanda se non si debba promuovere uno sciopero della fame. E io non so cosa rispondere loro. Poi mi guardo intorno e mi accorgo che i più anziani di me, i Grandi Vecchi, stimati e ben voluti, come Corrado Augias, Dacia Maraini, Claudio Magris, Luigi Ferrajoli, Chiara Saraceno, Marco Bellocchio o altri, non trovano le ‘parole per dirlo’”.
Ieri Pierluigi Battista (sulle ragazze iraniane avvelenate in Iran) scrive:
“Gentilissimi colleghi giornalisti e, di conseguenza, gentile me stesso, ma come è possibile che siate (siamo) diventati così cinici, come avete fatto, come abbiamo fatto, a imbruttirci così, a incarognirci così, a trasformarvi in perfetti manipolatori? Forse esagero. Forse. Ma secondo me la notizia che dice che in Iran, addirittura nella “città santa” di Qom, usano avvelenare ragazze e bambine (l’ultima, sembra, è stata ammazzata che aveva 11 anni) per evitare che compiano il delitto di studiare, perché le donne non devono studiare in quel posto orrendo che è un Paese retto dai mullah, ecco, questa notizia meriterebbe più di una breve, un articoletto e via, come se si stesse trattando di una rissa mortale in un bar malfamato.”
Il problema, credo, non è che non si voglia parlare. E’ che ci si sente circondati dalle emergenze, dal dolore e infine ci si arrende e ci si rannicchia nell’impotenza. E forse è quel momento di noncuranza identica al pericolo, quello in cui ci siamo soffermati a sbirciare lo specchio, che ci ha incatenato, da molti anni, che ci ha immobilizzato sulle scale, fermi a osservare la nostra immagine, e adesso ricominciare il cammino è più difficile.
(Non impossibile, però)
Ieri Pierluigi Battista (sulle ragazze iraniane avvelenate in Iran) scrive:
“Gentilissimi colleghi giornalisti e, di conseguenza, gentile me stesso, ma come è possibile che siate (siamo) diventati così cinici, come avete fatto, come abbiamo fatto, a imbruttirci così, a incarognirci così, a trasformarvi in perfetti manipolatori? Forse esagero. Forse. Ma secondo me la notizia che dice che in Iran, addirittura nella “città santa” di Qom, usano avvelenare ragazze e bambine (l’ultima, sembra, è stata ammazzata che aveva 11 anni) per evitare che compiano il delitto di studiare, perché le donne non devono studiare in quel posto orrendo che è un Paese retto dai mullah, ecco, questa notizia meriterebbe più di una breve, un articoletto e via, come se si stesse trattando di una rissa mortale in un bar malfamato.”
Il problema, credo, non è che non si voglia parlare. E’ che ci si sente circondati dalle emergenze, dal dolore e infine ci si arrende e ci si rannicchia nell’impotenza. E forse è quel momento di noncuranza identica al pericolo, quello in cui ci siamo soffermati a sbirciare lo specchio, che ci ha incatenato, da molti anni, che ci ha immobilizzato sulle scale, fermi a osservare la nostra immagine, e adesso ricominciare il cammino è più difficile.
(Non impossibile, però)