SEMASIOGRAFIA, O DELLA FINE DELLA CURIOSITA’

Tra gli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta scrivevo per Il Secolo XIX di Genova: mi occupavo di televisione, seguivo le conferenze stampa, i dietro le quinte, facevo interviste. Era un passo verso il giornalismo, che allora ritenevo fosse quel che mi interessava. Al tempo, dunque, Simonetta Robiony si occupava di televisione per la Stampa, e mi disse una cosa che ancora oggi ricordo: i giornali stanno perdendo le parole. Ne usiamo molte di meno, usiamo sempre le stesse.
Trent’anni dopo, la faccenda peggiora. Faccio un esempio. Ieri ho postato qui, e sui social, l’intervista a Donna Haraway. In una domanda, si parlava di scrittura semasiografica.
C’è un motivo, visto che il riferimento era al film, e al racconto di Ted Chiang, Arrival. Nel racconto, Storia della tua vita, il dio che viene da lontano sono in realtà due. Sono ombre di calamari, o per meglio dire eptapodi, o per dirla con Chiang ciascuno di loro “somigliava a una botte, sospesa nel punto in cui i suoi sette arti s’incontravano. Aveva una simmetria radiale, e ognuno degli arti poteva fare sia da braccio sia da gamba”. Non sappiamo da dove vengono, sappiamo che hanno bellissime astronavi e che sono arrivati sulla terra. Per capire e forse per donare.  Non sono nemici, non sono neanche esseri da studiare, nonostante quel che i terrestri vorrebbero. Vengono da lontano e getteranno nel caos almeno una vita. La vita è quella di Louise Banks, la linguista incaricata dai vertici militari di decifrare e imparare l’idioma alieno. Con lei, a comporre una delle squadre che provano a comunicare con i visitatori, c’è Gary, fisico e padre della figlia che avrà e che perderà quando la ragazza compirà 25 anni, perché questo è il dono del dio, essere immersi nel fluire del tempo e conoscerlo tutto.

La narrativa fantastica di Chiang è quasi per intero basata sul tempo e affonda sempre le radici nella scienza. In particolare, qui, si fonda sull’ipotesi di Sapir-Whorf, dal nome dei due antropologi americani convinti che esista una relazione strettissima tra visione del mondo ed espressione linguistica. A un certo modo di esprimersi, ovvero, si lega un’organizzazione del pensiero, e ogni linguaggio, se assimilato, porta al ricevente anche la filosofia di vita dei parlanti originari. Nel caso, quella dei due eptapodi, Flapper e Raspberry, che usano una scrittura semasiografica, che si sviluppa come una ragnatela, non ha verso e direzione, non ha punteggiatura, dunque non ha inizio e non ha fine, e dunque ancora: “già prima di tracciarlo, l’eptapode sapeva come si sarebbe sviluppato il resto della frase”.

Accade anche a Louise, che più apprende la lingua degli eptapodi più sperimenta una percezione simultanea della vita: vede il suo amore, il suo divorzio, la nascita e la morte della figlia come futuri e passati, contemporaneamente. E non può che accettarlo: la questione della libertà nemmeno si pone, ci si attiene al copione. Sembra una limitazione intollerabile, ma alla protagonista non sfugge che anche noi umani proviamo piacere quando si compie ciò che è stabilito. Dunque, è caos, e insieme è, perversamente, ordine.

Questo è quel che si può ricavare. La cosa che mi ha colpito è che un utente di Instagram si è sentito profondamente offeso dalla parola semasiografica. Ha scritto:

“Ma cosa è la scrittura “semasiografica”?! Possibile che non si riesca a mettersi nei panni di chi legge? Mica tutti hanno studiato linguistica, semiologia, glottologia, narratologia etc etc? Ma cosa costa mettere tra parentesi il significato? Cose così mi fanno passare la voglia di leggere: so di essere ignorante ma mi disturba sentirmelo rinfacciare così”.

Ecco, questo è quel che mi colpisce profondamente. L’offesa. Non cogliere l’occasione per fare una velocissima ricerca e imparare una parola nuova, ma rinfacciare la volontà di umiliare a chi la usa. Questa è la gigantesca differenza fra ieri e oggi: non solo l’uso delle parole, ma la mancanza assoluta di curiosità, e anzi il rancore. E’ un’eredità pesantissima, quella che riceviamo dagli ultimi quindici anni almeno: ma bisogna combatterla.

Un pensiero su “SEMASIOGRAFIA, O DELLA FINE DELLA CURIOSITA’

  1. Infatti questo è quello che colpisce: sono ignorante – sottotesto: ed evidentemente mi sta bene così, o mi mancano persino gli strumenti per capire come uscirne – ma la colpa è tua che me lo ricordi. Un meccanismo che si vede molto spesso su Facebook; chiedere nei post cose che bastava mettere la frase tale e quale su google e ti uscivano i risultati. E forse il punto vero è questo, la stanchezza della scelta. Se Google mi dà una serie di informazioni a volte identiche, a volte contrastanti, a volte che si complementano, devo essere io a fare lo sforzo di decidere quale mi sta bene, fosse anche solo la prima ignorando il resto. Se lo chiedo su Facebook la scelta e la responsabilità cadono sulla persona che mi dà una risposta. E questa persona poi la si può attaccare per la risposta. e quindi, di nuovo, il problema non sono l’ignoranza o la persona che a tuo avviso te la sbatte in faccia. Mumble mumble.

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