GLI STATI GENERALI DELL’IMMAGINAZIONE: RONCO E PAOLACCI

Oggi Paola Ronco e Antonio Paolacci, sempre dalla giornata del 1 ottobre sugli Stati Generali dell’Immaginazione. Parlarne non significa ignorare il mondo. Significa provare a trovare parole per raccontarlo (per cambiarlo? Chissà).

 

“Vorremmo cominciare il nostro intervento citando ancuni versi di Vladimir Majakovskij, contenuti nell’Ordine n. 2 all’armata alle Arti, che ci sembrano particolarmente significativi in questa giornata:

Mentre ci perdiamo in dispute, 

cercando il senso recondito,

Dateci nuove forme!,

è il lamento

che passa per le cose.

 

In questi lunghi anni abbiamo perso molte parole per strada. Parole che sono state svilite, usate a sproposito, rimasticate e banalizzate nel loro senso più profondo. Parole belle e importanti, che hanno perso i loro significati alti e nobili.

La prima cosa che vorremmo e dovremmo fare, dunque, è riprenderci alcune di queste parole, perché è di questo, anche, che sono composte le storie. Di parole. Ed ecco perché la prima cosa che vorremmo dire oggi è che la scrittura è un atto politico, sempre.

Un atto politico non nel senso appunto abusato e sporcato cui ci siamo abituati. Non è questione di essere militanti o di fare proselitismo; è questione ben più seria di raccontarci la realtà in cui viviamo.

Non è nemmeno questione di usare toni o registri seriosi o pesanti. Accade spesso, anzi, che la letteratura fantastica possa mostrarci i mondi che temiamo o quelli che vogliamo con chiarezza molto maggiore di quanto potrebbero fare un saggio o un articolo di giornale.

Il fatto è che nessuna scrittura può mai essere neutra, perché il nostro sguardo non sarà mai neutrale.

Noi possiamo scrivere una storia che riteniamo innocua, in cui un paesino tranquillo viene sconvolto da un omicidio commesso da qualche mostro che arriva da qualche abisso sconosciuto. Una storia in cui, una volta che il mostro è stato catturato, tutti sono felici e contenti e il paesino torna tranquillo come prima, senza incrinature. Ma quella storia non è affatto innocua, e non è neutrale, perché ci mostra una precisa visione della realtà, un’idea consolatoria e imprecisa di cosa sia il male e di cosa sia la normalità, in cui i mostri non siamo mai noi.

Scrivere è un atto politico, sì, e noi dovremmo ricordare sempre questa responsabilità che abbiamo verso chi ci legge.

Un atto politico, e anche un atto collettivo. Dice l’antico detto che ci vuole un villaggio per crescere un bambino: la stessa cosa vale per un libro, perché il libro è il risultato di tante singolarità che si uniscono per un risultato finale comune.

Ora, proviamo a spostare il discorso dalla scrittura all’editoria.

Il nostro maestro, che non possiamo non nominare qui, ovvero Luigi Bernardi, negli ultimi anni diceva sempre che curare una casa editrice o una collana di libri è un po’ come scrivere un grande libro. Questo vuol dire che per fare editoria occorrono coerenza e una visione: non è soltanto mettere sul mercato oggetti uno diverso dall’altro, con la sola prerogativa di avere un pubblico. Non è solo vendere un libro alla volta, preoccupandosi del fatturato.

Se scrivere un solo libro è sempre un atto politico, allora sceglierne dieci, venti o cinquanta all’anno da pubblicare è un atto politico ancora di più.

Un editore che riempie gli scaffali in libreria diffonde storie, disegna idee, condiziona la fantasia e i pensieri della società, che lo faccia volontariamente o meno.

Quel che conta oggi, però, è soprattutto il mercato, e di conseguenza il catalogo stesso lo stabiliscono logiche di marketing, e quindi l’atto politico dell’editoria – non sempre ma in gran parte – lo stabilisce il mercato.

Oggi si cerca di fare solo libri che garantiscano una vendita, per esempio chiedendo a chi ha molti follower sui social di scriverne uno, anche se magari quella persona nemmeno ci pensava, a scriverlo. Né importa che abbia qualcosa da dire: quel che importa è che statisticamente un libro vende in media un numero di copie pari al 10% dei follower di chi ha una pagina social di successo, per cui l’editore può prevedere di vendere diecimila copie ogni centomila follower dell’autore o dell’autrice.

Ma questo è solo un esempio di quel che succede, tra i tanti che potremmo fare.

Si dice spesso che il marketing funziona, e se funziona allora ben venga tutto quello che porta un po’ di soldi nelle casse della filiera. In fondo l’editoria è commercio.

Ma davvero funziona?

Forse sul singolo libro e nel breve periodo. Ma a lungo andare quali sono i risultati?

Un risultato per esempio è che i lettori in Italia sono in calo costante.

Alla lunga, il marketing editoriale sembra funzionare esattamente come il marketing politico: ha un risultato immediato, forse, ma a lungo andare allontana la gente.

E infatti il calo dei lettori in Italia è matematico proprio come il calo di affluenza elettorale.

Siamo al 23° posto su 27 paesi dell’UE, in quanto a percentuale di lettori. I cosiddetti lettori forti sono solo il 6% circa; e per lettori forti si intende chi legge appena 12 libri l’anno.

Vi lasciamo con un’immagine.

In un’intervista di qualche anno fa, Cormac McCarthy raccontava che lui, con i suoi primi quattro libri, non è arrivato a vendere più di cinquemila copie. Un numero bassissimo, specie in Usa.

Oggi in Italia, a chi vendesse così poco, non pubblicherebbero nuovi romanzi.

Il  quinto libro di McCarthy, però, sarebbe stato Meridiano di sangue. Poi, sarebbero venuti tutti gli altri capolavori dello scrittore forse più potente del nostro tempo.

E insomma pensiamoci: pensiamo al fatto che non avremmo mai avuto l’opera di McCarthy se un editore non avesse pensato che fosse giusto credere in lui, nonostante vendesse poco”.

 

 

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