TRE MESI, OTTO ANNI: MICHELA E CHIRU’

Tre mesi dalla morte di Michela Murgia, otto anni esatti dall’uscita di Chirù, che è stato in effetti il suo penultimo romanzo vero e proprio, prima di Tre ciotole.  Otto anni fa, ricordo, uscivo dalla primissima delle mie lezioni alla Scuola Holden e mi dirigevo verso il Circolo dei lettori, dove presentava Chirù in quella che era una performance più che una presentazione.
E dal momento che ricordare Michela significa leggere Michela, riposto qui quello che scrissi allora.
(Manca. Manca tantissimo).

In Chirù, che è un romanzo non solo di rara bellezza, ma un romanzo da rilettura (va ripreso in mano diverse volte prima di coglierne le sfumature e l’equilibrio) Michela infrange, con grazia, un altro tabù: se in Accabadora rovesciava il senso comune sulla Madre Bianca che dà la vita e l’antico canone che lega la Madre Nera alla morte, qui affronta un altro tipo di “genitorialità spirituale”  che viene considerato esclusivamente maschile. L’essere maestri, ovvero, portarti sulla strada della conoscenza e sospingerti nel profondo di te e poi in avanti. In Guerre Stellari, se mi si concede la citazione, l’ultima prova del padawan prima di diventare cavaliere jedi, è quella di guardarsi allo specchio nella “prova dello spirito”, laddove lo specchio è quello della propria anima, lato oscuro incluso.
Ebbene, ogni maestro del nostro immaginario, che sia da mangiare in salsa piccante come voleva Pasolini, o da sospingere al seppuku come Mishima, è maschio. Maschi sono Isaac Bashevis Singer, Primo Levi, Saul Bellow che Philip Roth designa come suoi apripista letterari, per esempio. Fra gli scrittori, mi viene in mente il solo e solito Stephen King che fra le righe indica sua madre come colei che gli ha aperto la sensazione di possibilità che è alla base della sua scrittura (ma era sua madre, appunto, e forse non conta).
Maestra. Solo la parola non evoca saggezza e forza, non c’è, in questo termine, l’immagine di  un vecchio Jedi, nè un Albus Silente, nè un Gandalf, nè un Pai Mei. La stessa Galadriel, nel Signore degli anelli, è una potente regina che incute timore, più che la portatrice di sapere che pure é. Maestra. Al massimo maestrina, e dunque supponente, inopportuna, presuntuosa. Difficile, accidenti, e seccante: perché alle donne, in fondo, si chiede di essere rassicurati, e non messi alla prova, come i maestri fanno.
Eleonora, la protagonista del romanzo, accoglie Chirù come ultimo allievo, e dopo molte esitazioni, e solo perché riconosce in lui la propria ferita, come è giusto che sia, perché è a un simile che ci si può rivolgere per far sì che non ripeta i nostri errori. O forse proprio perché si sa che li ripeterà, e per insegnargli ad affrontarne le conseguenze.
Eleonora non è una maestra di cui innamorarsi carnalmente: questo è il secondo stereotipo che associa alla magistra un inevitabile ruolo sessuale, come se l’educazione dell’anima fosse impossibile (mannaggia ad Aristotele). Di più: il magistero di Eleonora è raccontato dall’interno, perché, come ha detto Michela a Torino, chi si fa maestra offre non solo quel che sa, ma anche quel che é, e nessun dono lascia immune il donatore, o la donatrice. Nessun amore fra chi insegna e chi apprende è immune dalla manipolazione e dal risentimento. Come nessuna relazione fra chi cammina sulla terra.
Tutto questo insegna (già) un romanzo breve, in apparenza intimo, in realtà in grado di immergere chi legge negli abissi profondi dei rapporti umani, e a illuminarli come fanno i pesci lanterna con i fotofori, perché quando ci si adatta al buio si sviluppano organi che producono luce.  Coglierne un bagliore  è una grazia, e per chi legge, di questi tempi, non è poco.

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