Ogni tanto, sui social, spunta fuori qualcuno o qualcuna con l’accusa di classismo quando si sbotta contro l’odio in rete. Bisogna capire il popolino, dicono. Non bisogna bollarlo come una massa di maleducati, dicono ancora (a sua volta, un filino classisti o meglio ancora paternalisti).
C’è una verità in questo, ed è nel verbo capire. Qualche volta mi capita di leggere discussioni molto violente che riguardano, per esempio, il covid e i vaccini: e davvero vorrei capirle, perché quella divisione in due blocchi che abbiamo sperimentato da tre anni a questa parte è avvelenata e continua a farci male.
Detto questo, parliamo di classismo.
Il 20 agosto 1799 Eleonora Pimentel Fonseca sale sul patibolo. Enzo Striano, in uno splendido libro che cito spesso e che si chiama Il resto di niente, la immagina mentre, con il cappio al collo, guarda le facce sghignazzanti intorno al palco e mormora, in latino, Forsan et haec olim meminisse juvabit (”Forse un giorno servirà ricordare tutto questo”).
Ma non ci crede.
Scrive Striano: “Di lì a poco, finita la festa si sparpaglieranno in mille direzioni. Sulla sabbia della Marinella, verso Santa Lucia, a Toledo… Domani avranno già scordato quanto succede adesso: ora però si stanno divertendo, innocenti e crudeli come infanzia”.
E’ classista la posizione di Pimentel Fonseca, che pure ha fatto quel che poteva per quel “popolino”, finendone uccisa? Sì, e no.
E’ classista la posizione di Annie Ernaux, che in tutta la sua opera riflette sulla provenienza della sua famiglia che ha, in un certo senso, tradito? No, e no. Perché ne è consapevole, e prova a superarla con la letteratura, per quel che la letteratura può.
La scrittrice Lorraine Berry ci ha riflettuto su:
“Confesso di non essermi ancora liberata di un certo rancore, persino di una certa rabbia, nei confronti di questa spaccatura. Una volta stavo guardando un documentario su Susan Sontag, in cui si dava – giustamente – un grande risalto ai suoi studi a Berkeley, Chicago, Oxford, e al fatto che se ne fosse andata a vivere a Parigi. Ma su tutta la storia di Sontag aleggia un interrogativo, che in quello specifico documentario non viene mai affrontato: da dove venivano i soldi? Lei non lavorava. Eppure poteva permettersi di abitare a Parigi. A un certo punto, da giovane, si trovò a corto di denaro, e un amico le procurò un ruolo da comparsa in un film sperimentale. Però, anche in questo caso, non è tanto un fatto di denaro quanto di classe sociale, dell’esser nata all’interno di un sistema in cui è accettabile dedicarsi a cose artistiche. Ma per chi si trova al di fuori di quel sistema «fare l’artista» equivale a buttare via la propria unica opportunità di combinare qualcosa nella vita. E anche quando riesci a combinare qualcosa, puoi incorrere nella disapprovazione per aver «tradito» la classe da cui provieni”.
E’ molto rischioso muoversi in queste contraddizioni. Resta però un punto: nel momento in cui il linguaggio sui social diventa ammiccamento, insulto, “parlacomemangi” nell’idea che – forti di un’arroganza mal dissimulata – tutto si possa dire, sempre e comunque, anche in uno spazio pubblico, esentati da responsabilità e sensibilità nei confronti di chi legge, non bisogna sorprendersi troppo se si superano i limiti della decenza e si scivola nel vituperio e nel bullismo. L’hate speech, d’altronde, anche questo fa: mortifica la nostra competenza linguistica e comunicativa riducendola a una ridda di slogan, di battutacce triviali (da non confondere con l’ironia, ben altra cosa), di insulti, sparati spesso – tra l’altro – nel mucchio, al riparo di uno schermo e di una presunta patente di impunibilità.
Ecco, torno sull’argomento non per mettere in croce nessuno. Ma per augurarmi che alla lunga si produca un cambiamento. Forsan et haec olim meminisse juvabit. Magari si potrebbe provare a crederci.