“L’ho uccisa perché l’amavo” esce domenica in allegato con Repubblica. E’ stato pubblicato dieci anni fa, nel 2013, per Laterza ed era fuori catalogo dalla primavera scorsa. E’ un piccolo libro scritto con Michela Murgia in una manciata di settimane: è stato annunciato a me a dicembre 2012, mentre ero in Val d’Aosta, ed è stato concluso a gennaio 2013, mentre Michela era in Val d’Aosta, per chi crede nelle coincidenze. Noi ci abbiamo creduto.
Quello che si propone il libro non è raccontare storie (altri e altre lo hanno fatto ed è importante che si continui a fare), ma ragionare sulle parole che vengono usate per raccontare le storie. Per questo, vi posto qui un frammento del capitolo introduttivo.
C’è un misto di gioia e malinconia nel salutare il ritorno di questo piccolo libro, l’unico scritto insieme, un pezzo per una, e lunghe telefonate in mezzo. Ci sono cose che tornano. E altre che non tornano. Così è.
“Per chi di parole vive, per chi alle parole crede, non si può che cominciare da qui, da quel racconto deviato che riporta tutto a un concetto “naturale” (si è maschi e femmine per natura e non per cultura) ancora non scalfito nonostante i secoli. Di nuovo c’è che quel malinteso concetto di natura, uomini forti e donne deboli, uomini predatori e donne prede, si miscela con un generale terrore dell’abbandono che oggi ci riguarda tutti, donne e uomini. Ma le donne, diceva una psicologa tempo fa, temono di essere lasciate, gli uomini lo rifiutano. Per cultura, e non per natura: il femminicidio si chiama così proprio perché definisce un tipo di delitto che avviene all’interno di relazioni impregnate di una struttura culturale arcaica, che ancora non si dissolve. Non tutte le relazioni sono così, non sempre. Ma un poco di questa eredità ci riguarda tutti, uno per uno e una per una, e anche con questo bisogna fare i conti, anche questo dobbiamo imparare, a non dire “a me non succede e neanche a quelli che conosco”. Bisogna guardare oltre. O guardarsi dentro, che è ancora più difficile”.