A ME IL MOUSE

10376411_10204239771745553_4511300987314681458_nL’immagine dovrebbe raccontare tutto. Proviene dalla bacheca facebook de Il giornale e applica quello che in gergo si chiama “click bait”, o esca digitale: ovvero, una strategia di marketing  per attirare l’attenzione del lettore e invogliarlo a cliccare. L’espediente è stato usato ieri come se si trattasse di scoprire il nome del vincitore di un talent e non quello del presunto assassino di una bambina. Sulla stessa bacheca, altri status si miscelavano a quelli sui Mondiali di calcio: “è sposato e ha tre figli…” (e clicca, o lettore, non vuoi sapere chi sono questi tre figli e quanti anni hanno, magari?), o “si è avvalso della facoltà di non rispondere…”.
Cosa ti vuoi aspettare da alcune testate? Questa è l’argomentazione che in molti casi, sui social, mi è stata rivolta. Il punto è che la prassi non appartiene a una sola testata. Se, in futuro, esistesse  l’antropologo immaginato da Umberto Eco in Diario minimo forse sbigottirebbe nel  compulsare gli articoli usciti on line e su carta in questi due giorni da bava alla bocca per i cacciatori di click (un delitto familiare con due bambini due ammazzati! Il padre guardava la partita! Tu guarda le foto delle nozze tratte dalla bacheca facebook della moglie! Leggi quel che ha scritto! Leggi pure quello che scrive l’assassino di Yara! E già che ci siamo, Schumacher è uscito dal coma! Click!).
O forse no. La trasformazione degli individui in veicoli pubblicitari, di cui tante volte qui e altrove si è parlato, non prevede immunità: nè da parte di chi cerca quella pubblicità, nè da parte di chi non la subisce, ma entra nel sistema, cliccando lietamente e lietamente frugando nelle vite altrui, sgranocchiando come patatine le macchie di sangue sulle mutande e i giocattoli in terra, o affollando le bacheche della vittima con cuoricini e icone di angioletti e quelle del colpevole con il cappio, reale o metaforico.
Quella che sarebbe necessaria è un’assunzione comune di responsabilità. Da parte dei giornali on line e del loro porsi nelle manine dei tecnici Seo (grazie a Simone Tempia per avermi fornito questo link, e questo) che spiegano come posizionarsi bene nelle ricerche su google e quali termini usare e  quali sono i temi caldi e come acchiappare il benedetto e sfuggente lettore. Da parte dei giornali cartacei, che inseguono da anni la dinamica dei social riproponendola con poche varianti.  Da parte dei lettori stessi, ovvero nostra, perché dovremmo imparare infine che ogni nostra azione in rete è monetizzata, e sia la nostra indignazione sia la nostra curiosità si traducono, ugualmente, in complicità.
Non è che se ne possa uscire, non subito: la rincorsa verso il solletichio delle viscere non si ferma con un gesto. Ma, come disse un giorno Scerbanenco, ci si può almeno illudere di rallentare la corsa del treno con quel gesto. Che dovrebbe diventare consapevolezza: da parte di chi legge, nella speranza che arrivi anche a chi scrive, e che teoricamente dovrebbe svolgere il mestiere più bello del mondo. Così noi si sognava, una vita fa. Noi che veniamo accusati di essere nostalgici e dunque inutili. Noi che ricordiamo con orrore, e impotenza, e timore che le cose siano atrocemente peggiorate da allora,  il caso di Miriam Schillaci.


7 pensieri su “A ME IL MOUSE

  1. La storia drammatica di Yara Gambirasio e di Miriam Schillaci, delle loro famiglie “sopravvissute”, della “fabbrica dei mostri” messa in scena nel consueto teatrino mediatico, ci interroga sulla inesorabile assenza nelle indagini, nei processi, nei giornali, della vittima del reato, che, invece, dovrebbe mantenere un ruolo centrale, insieme al rispetto della sua dignità.
    Daniela Bauduin

  2. Credo che esistano casi di cronaca di serie A e quelli di serie B a cui la stampa da o nega visibilità.
    Tutto ciò le è concesso proprio in virtù del macinino sociale in cui tutti ci cadiamo. Internet non ha fatto altro che alimentare questa voglia di truculenza.
    Il caso Gamberasio, con il massimo rispetto per la famiglia e la bimba, ma credo che sia un caso mediatico costruito: se è vero che la povera bimba è morta di freddo, quel delinquente (che merita comunque l’ergastolo) non sarebbe imputabile di omicidio… Ma tutti lo additano come assassino e non come violentatore/adescatore di una povera bambina.
    Libero ed il Giornale poi ci sguazzano in questo ciarpame!

  3. @ Lino Fazio: il colpevole, chiunque egli sia, è sicuramente imputabile di omicidio. Ferire in modo grave una persona, per poi abbandonarla priva di sensi in un luogo isolato, per di più in una notte d’inverno e in Lombardia, integra senz’altro una condotta di tipo omicida.

  4. Poniamo, solo per supposizione, che l’assassiono sia stato trovato. Va bene, occorre portare il fatto alla conoscenza del pubblico. Ma non occorre anche, o è ininfluente, pensare alle altre vittime? Quale giustizia salva dai click dei mouse i figli di quell’uomo, la sua famiglia, le altre famiglie coinvolte?
    Vero, sono anch’esse ‘sue’ vittime. Ma queste vittime non devono avere giustizia? quella possibile in termini di rispetto, vicinanza, sostegno, che non può essere l’anonimo affollarsi dei commenti, anche fossero di simpatia, ma innanzitutto una quota, dovuta, di silenzio partecipe e rispettoso. La libertà di stampa (e il diritto dei lettori di ‘sapere’) sono tali se, perché liberi, possono scegliere di parlare o di non farlo. Non è libero chi è obbligato (a parlare), quantomeno non esercita libertà. Forse vende, e pazienza se vende vite.

  5. Sig. Salvatore, non volevo attenuare alcuna colpa: la mia preoccupazione cade sul problema del frullatore sociale costruito ad arte per uso e consumo dei giornali. Pensi solo un attimo se ci fosse un errore nell’attribuire il DNA; in questa faccenda sono coinvolte diverse tipologie di persone: il “mostro”, la madre e la gemella del mostro, oltre il padre del mostro e la povera vittima con tutta la sua famiglia. Proprio oggi a Fahreneit Vittorino Andreoli commentava come in Italia avvengono circa 500 casi di omicidi/anno ma la stampa ne screma solo 4 o 5 a proprio uso e consumo. Diciamo che non è un modo molto corretto di gestione delle notizie.

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