Un grandissimo Adriano Sofri su Repubblica di oggi.
C’è una vera ragione di allarme sulle donne uccise, o c’è un allarmismo colposo o doloso? Si è andata ampliando la reazione negatrice, fino a diventare una campagna. Lo scandalo sul femminicidio è montato lentamente e tardissimo. Ha da subito eccitato dissensi troppo aspri e ottusi per non essere rivelatori. C’è stato anche chi ammoniva che gli uomini uccisi sono più numerosi delle donne uccise: vero, salvo che il confronto va fatto fra le donne uccise da uomini e gli uomini uccisi da donne, e allora diventa irrisorio. Strada facendo, le obiezioni si sono irrobustite, valendosi anche di una (effettiva) carenza di statistiche esatte. All’ingrosso, si è negato che le uccisioni di donne siano cresciute in numeri assoluti, e si è sottolineato che la crescita – impressionante – nella loro quota relativa rispetto al totale degli omicidi è dovuta solo alla riduzione degli altri omicidi, soprattutto quelli di mafia. Prima di motivare i dubbi sulla prima affermazione — il numero di femminicidi che resta sostanzialmente stabile nel tempo e nei luoghi — sbrighiamo la seconda: se nel complesso degli omicidi c’è una rilevante riduzione, e quelli contro donne restano inalterati, vuol dire che la nostra convivenza migliora tranne che nei rapporti fra uomini e donne. A questa allarmante constatazione si aggiunge l’altra.
Abbiamo alle spalle (recenti) un mondo patriarcale e un codice penale che giudicavano con sfrenata indulgenza, o con malcelata simpatia, gli uomini che ammazzavano le “loro” donne; e ora ci illudiamo di vivere in un mondo più affrancato dai pregiudizi e più libero per tutti. Anzi, un altro dato, secondo cui le uccisioni di donne sono molto più frequenti al nord che al sud, segnala una relazione complicata se non inversa fra liberazione dei costumi e insofferenza maschile. Rinvio, per una replica generale, al blog di Loredana Lipperini (“Il fact-screwing dei negazionisti”, 27 maggio). Per parte mia, faccio alcune obiezioni peculiari. Nella discussione “specialista” al neologismo “femminicidio” si è aggiunto da tempo l’altro “femicidio” (sono latinismi passati attraverso aggiustamenti anglofoni): il primo alludendo alle vessazioni che le donne subiscono da parte di uomini, il secondo all’assassinio. Il binomio mi sembra privo di senso e comunque di utilità, e tengo fermo il solo termine di femminicidio come, alla lettera, uccisione di donne. Gli obiettori all’esistenza di una “emergenza di femminicidi” hanno capito che la categoria riguardi le donne uccise da loro mariti e amanti e fidanzati o exmariti, ex-amanti, ex-fidanzati (e padri e fratelli…), dunque “dal loro partner”. Questa delimitazione è frutto di un significativo fraintendimento. È vero, e raccapricciante, che la gran parte delle violenze e delle stesse uccisioni di donne è perpetrata dentro le mura domestiche, dove i panni andavano lavati, cioè sporcati, al riparo da sguardi estranei. Ma questa selezione statistica toglie altre circostanze in cui donne vengono uccise “perché donne”. Addito le prostitute assassinate. Piuttosto: non “le prostitute”, ma le donne che si prostituiscono; correzione essenziale, se appena riflettiate alla differenza, di spazio e di emozione, fra i titoli che dicono “donna uccisa” o “prostituta uccisa”. Gli assassinii di prostitute sono molti e orrendi. Gran parte dei detenuti per omicidio di un carcere non speciale hanno ammazzato la “loro” donna, o una, o più, prostitute. Non è femminicidio? Per bassezza di rango? O perché le prostitute non hanno padre, coniuge, fidanzato, e gli assassini non sono i loro “partner”? Ma lo sono senz’altro. Nel caso delle prostitute, l’assassino è “il loro partner”. Basta a renderlo tale la cifra che sborsa o promette per il prossimo quarto d’ora, o il loro stare su un marciapiede a disposizione di chi le voglia e prenda a nolo. La nudità esposta delle prostitute da strada – le più allo sbaraglio – è per loro un modo di aderire, per la durata della loro fatica, all’alienazione di sé, di sospendere la propria identità salvo rientrarvi a nottata passata; per gli uomini, è la manifestazione denudata dunque resa astratta e universale – come la moneta, corpo che sta per tutti i corpi – del piacere che può loro venire, della loro indigente questua di badanti sessuali. La gelosia maschile è così diversa da quella femminile (come attesta la sproporzione di botte e coltellate, salvo che la si riduca alla differente muscolatura) perché noi uomini intuiamo e temiamo una superiorità sessuale femminile, una disposizione al piacere che nessuna presunzione amorosa può del tutto addomesticare. Lo sapevano gli antichi, e ne avevano confidato al mito la memoria anche dopo aver ridotto le donne in cattività, prime fra gli animali domestici. Ne hanno ereditato la nozione, pur non sapendo più spiegarla né spiegarsela, e dandola falsamente come una prescrizione religiosa, le società che si dedicano scrupolosamente a mutilare le bambine degli organi sessuali, mutando in strumenti di dolore e anche di morte una fonte di piacere renitente al comando. (Ricordiamo il catalogo: “Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo e la sua schiava, né il suo bue né il suo asino…”). Alle donne che fanno le prostitute gli uomini prendono a basso costo e basso rischio un surrogato alla violenza casalinga e amorosa: come le bambole sulle quali i medici cinesi visitavano le loro pazienti vestite, le prostitute sono le fidanzate momentanee e traditrici su cui infierire. “Non era che una puttana”. Romena, russa, bielorussa, nigeriana: “Uccisa una nigeriana”.
Titoli in corpo piccolo (si chiama così la statura delle lettere a stampa, corpo), al di sotto del femminicidio consacrato. Vuoi mettere, si dirà, una nigeriana uccisa con la ragazza quindicenne che ci ha spezzato il cuore? Certo che no. Eppure sì.
È affare di noi uomini. Le donne che fanno le prostitute e partono ogni sera per la più asimmetrica delle guerre civili la sanno lunga, su noi, che esitiamo a seguire il filo dei pensieri fino al punto in cui fa il nodo. È seccante rileggere i più bei frutti della nostra creatività letteraria e artistica per scorgervi la rovina del Grande Delinquente che ha ucciso la puttana perché l’amava e la voleva solo per sé.
I volontari della campagna anti-scandalismo sul femminicidio protestano che una morte vale un’altra: la ragazza massacrata vale il pensionato rapinato (qualcuno si spinge a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!). Che si distingua chi perseguiti o uccida qualcuna o qualcuno perché è donna – o perché è gay, o perché è ebreo, o nero – sembra loro un’insensibilità costituzionale. Il paragone con le minoranze è improprio: le donne sono la sola maggioranza brutalizzata. Le leggi, dicono, valgono per tutti. È vero, e riconoscono aggravanti particolari. Come spiegano Lipperini e Murgia – e tante altre – occorre a un capo l’impegno culturale e all’altro capo il sostegno materiale ai centri antiviolenza. Aggravare le pene è il riflesso condizionato di legislatori di testa leggera e mano pesante. Di una sola misura c’è bisogno, più efficace a impedire di nuocere a chi ha minacciato, picchiato e molestato abbastanza da annunciare l’esito assassino. Qui è il punto penale: solo in apparenza preventivo, perché quelle minacce e molestie e violenze, quando siano accertate, sono già sufficienti alla repressione che il femminicidio attuato renderà postuma.
La minimizzazione del femminicidio si presenta come un’obiezione al sensazionalismo. Si potrà dire almeno che ha avuto una gran fretta. Si sono ammazzate donne per qualche migliaio di anni, per avidità amorosa e per futili motivi: da qualche anno si protesta ad alta voce, e già non se ne può più?
Consiglio la lettura dell’articolo al professor Paolo Becchi, dopo queste dichiarazioni alla Zanzara: “In Italia non puoi guardare il culo a una ragazza che ti accusano di femminicidio. Eh sì, ti accusano di femminicidio perché magari ti sei fatto chissà quali idee, invece ti piace proprio il culo. Capita a tutti di vedere il sedere delle signorine, non faccio niente di male”
Proprio ieri, qui dove lavoro, un anziano pensionato faceva un suo piccolo comizio sulla troppa libertà delle donne, davanti a una piccola schiera di omaccioni onesti lavoratori fra i trenta e i sessanta anni, campione statistico del paesello, che annuivano un po’ affranti ma anche un po’ eccitati alla prospettiva di un ritorno ai bei tempi: la donna che non chiede soldi, la donna che ti fa trovare la cena pronta, la donna che sa che un altro litigio non le conviene. Poi, attraverso qualche passaggio che non ho ben capito, si è passati all’apologia dello sfollagente.
Lo spunto del comizio era il manifesto, appena affisso da una volontaria sorridente e estroversa, di quelle che “il marito lavora e loro vanno a fare le puttane”, di un centro di ascolto antiviolenze.
L’articolo di Adriano Sofri non e` tuttavia privo di ambiguita` e vacuita`riconducibili a quel mondo patriarcale che abbiamo tutt’intorno, piuttosto che alle spalle, malgrado i cambiamenti, che le donne pagano a caro prezzo. Mi riferisco all’allusione alla “superiorita`sessuale….ad una disposizione al piacere (delle donne),non addomesticabile, dagli uomini intuita e temuta”. Di che parliamo? Non e` ogni persona umana soggetto di desiderio, incluso quello sessuale? Non e` questa autodeterminazione soggettiva del desiderio che nelle donne si tenta di stroncare con le mitologie religiose o con le mutilazioni genitali?
Anche la prostituzione, e` vero, e` affare di uomini. Ma non solo di clienti, “questuanti di piacere a pagamento”. Anche di “protettori”, sfruttatori, organizzatori delle tratte. O molestatori “domestici”: numerose ricerche mostrano la correlazione statistica fra “scelta” prostitutiva e abuso infantile. L’immaginario maschile della “puttana” e`, credo,. il capolavoro della cultura patriarcale. Non basta, davvero, sottolineare che le “prostitute” sono comunque donne, persone, che si prostituiscono
Ci sono delle cose che mi preme sollevare in questo dibattito – intanto, come premessa: di questo articolo apprezzo molto l’intenzione di gettare della luce sulla condizione della prostituzione in Italia. Poi aggiungo.
1. La questione del femminicidio, è posta sul tavolo come emergenza non per una presunta crescita del fenomeno, quanto per una crescita della consapevolezza del fenomeno. La scelta di coniare un termine incongruo o meno che sia serve per delimitare un’area di intervento, perchè anche per me di Caino ce ne è uno solo, ma se decide di ammazzare una donna e decide di ammazzare un nero lo fa per dinamiche modalità circostanze diverse, e se io voglio limitare le due forme di omicidio ho bisogno di circoscrivere le fenomenologie. Che sono diverse, come spesso sono diverse le sociologie e le psicologie che le producono.
2. Non sarò mai abbastanza contenta finchè non leggerò una prospettiva simmetrica e non asimmetrica della misoginia diffusa – che è cosa diversa assai dal maschilismo perchè la misoginia è un problema criminale mentre il sessismo è un problema politico – riguardo i generi. Questo vuol dire sondare la compartecipazione delle donne alla produzione di un sistema culturale violento contro di esso, e alla trasmissione di comportamenti violenti, e simultaneamente sopportare e indagare le aree di problematicità che ci sono nel maschile che ha bisogno di perpetrare violenza. Questa consapevolezza di fondo non la si incontra quasi mai, e la dicotomia donne buone e vittime maschi cattivi e non sofferenti non produce soluzioni solo tamponamenti ai sintomi.
3. Mi preme sottolineare che dietro al fenomeno del femminicidio ci sono molti comportamenti gravissimi che ledono la soggettività femminile, la sua libertà e il suo modo di vivere che sulla carta stampata non arrivano mai. Come se la scoperta fosse solo la morte, il viaggio senza ritorno, la fine. C’è un’area pregressa invece di donne picchiate, sfregiate, chiuse a casa, perseguitate che mi pare conti troppo poco.
Sofri mena il can per cento righe d’aia senza arrivare al nodo.
Il femminicidio è un problema sociale, si dice.
Senza farci troppe menate sulla statistica e sul sensazionalismo, resta un’affermazione indecidibile in partenza: cos’è il femminicidio?
E’ – dice la Spinelli – quando si ammazza una donna in quanto donna.
Bene: è in grado Sofri o chi per lui di discriminare *caso per caso* (occhio: caso per caso, non a muzzo fra gli articoli di giornale) quando una donna viene ammazzata “in quanto donna” – ammesso che una condizione del genere possa avere un qualche senso -?
Finora femminicidio è stato utilizzato come sinonimo più o meno puro di “conta delle donne ammazzate”, tanto che il Sofri s’è ingegnato (?) pure a stiracchiarlo in prospettiva diacronica, costruendo a tavolino un peccato originale di cui il genere maschile deve lavarsi con il silenzio. “Si ha da scontare i peccati dei padri; zitti e mosca”.
Non è una crociata contro il sensazionalismo o, come vuol far intendere Sofri, uno scomposto riflesso pavloviano del cervello rettile cattivo, patriarcale e maschilista.
No.
E’ genuina critica alla ricostruzione di un fenomeno sociale che fa acqua da troppe parti. La difficoltà di applicare nel concreto la categoria del femminicidio non mi pare un concetto così crudo da non poter essere digerito da Sofri e compagni.
Se lei, Just o come si chiama, vuole intenderla così, sono sinceramente dispiaciuta. Per lei. Perché mi sembra così chiaro quello che si dice in questo articolo (che c’è un lavoro da fare, anche PER IL BENE degli uomini) che non volerlo intendere è un peccato. La saluto.
Dopo gli statistici gli epistemologi. Meno male, almeno io posso mettermi tranquillo. Loredana, lo statistico ha fatto il suo tempo, mi sa che ti serve un altro collaboratore…
Mi sa di no, c’è sempre l’ottimo Bronco Billy che richiede spiegazioni, nell’altro post 😀 Come dire: non c’è peggior sordo eccetera.
O porca paletta! Non me n’ero accorto…
@Just my two cents
Mi sono trovata spesso nella tua posizione. In passato ho criticato sul mio blog e sul mio la scelta del termine femminicidio, a tutt’oggi secondo me più congruo per contesti socioeconomici come l’america latina o certe zone dell’Africa che per il primo mondo. Il problema di certo femminismo italiano è che mette in continuità qualitativa, maschilismo e misoginia, come se la seconda fosse la stessa cosa del primo di grado più intenso. Tuttavia all’atto pratico esiste qualcosa di circoscrivibile – che ha comportamenti costanti e rispondenti a schemi che ritornarno. Il termine sui media è passato per circoscrivere questo fenomeno discriminabile caso per caso, anche se come tutti gli oggetti delle scienze umane è in sfumatura in stato ibrido in una sorta di difficile separazione dagli altri oggetti. Ma all’atto pratico, quando si lavora praticamente funziona. Un po’ come il DSM – il manuale usato in tutto il mondo come riferimento per le diagnosi psichiatriche, tutti dicono che le differenze sono forzate, che servono a poco, che si confondono, che i livelli di comorbidità sono alti, ma alla fine tra clinici a voja a di, ci si capisce.
Il fenomeno in questione dunque, riguarda l’aggressione di un uomo verso una donna in cui, da quello che dirà l’aggressore, da quello che ha denunciato la donna prima dell’aggressione da quello che è dato osservare nella donna si colpisce con la morte – ma prima c’è una spirale di comportamente aggressivi crescenti – il suo tradimento a un’aaspettativa di genere, la chiave sociologica del fenomeno (che per altro io condivido parzialmente ma insomma è un punto di partenza) è cioè che la donna viene uccisa perchè non assume il ruolo di donna che l’aggressore decide per lei. Si associa sempre sociologicamente a storie di donne che si mostrano indipendenti, che rompono la relazione, che a un certo punto non vogliono avere rapporti sessuali, che hanno risorse proprie a cui attingere e che non rispettano l’asimmetria correlata al sesso che l’aggressore percepisce come un obbligo o un bisogno per se. Si associa anche alla percezione di potere emanata dal genere e le persone che lavorano nei centri antiviolenza sanno come le donne in gravidanza siano molto più esposte alla violenza di genere delle altre in altri momenti di vita. Quindi, per quello che ho capito io, si qualifica come femminicidio, l’uccisione di una donna che ha rifiutato un rapporto sessuale, ma non di una donna che ha partecipato a una sparatoria nel corso di una rapina a mano armata.
Il mio problema nel nostro contesto culturale, è che siccome l’omicidio per questo ordine di motivi risponde a una necessità psicologica piuttosto forte, trovo la contestualizzazione sociologica inefficiente, solo strumentale di una sintomatologia che ha altre radici, perchè appunto maschilismo e misoginia sono due rubriche diverse. Tuttavia, lavorando sul campo nelle questioni di genere, quella labile circoscrizione del fenomeno per me continua ad avere una sua utilità empirica.
Prendo il poco velato sarcasmo e me lo butto dietro le spalle. Si sa, è il pelo sullo stomaco che fa venire internet.
La tesi però è semplicissima: se dite che c’è un problema sociale e dite che non è un problema numerico, allora vuol dire che è un problema qualitativo.
Ora io chiedo, senza usare troppi paroloni da manualetto di filosofia delle superiori: dov’è questa qualità? C’è differenza fra ammazzare semplicemente una donna e ammazzarne una in quanto donna? E la parola femminicidio quale dei due fenomeni etichetta?
Se vi va di discutere, prego. Altrimenti mi zittisco immediatamente. Non c’è che da chiederlo fuori dei denti. Non ho intenzione di far polemica per il puro gusto di farlo.
Non c’era alcun sarcasmo e il dispiacere era sincero. Quanto alle sue domande: non è per schivarle, ma credo che le risposte siano contenute già sia nell’articolo di Adriano Sofri, sia nella risposta di Zauberei, sia nel post di lunedì, sia in tutti i post con il tag femminicidio. Non voglio sottrarmi alla discussione: ma neanche, ogni volta, ricominciare da capo, davvero.
La risposta di Sofri alla mia domanda io continuo a non leggerla, mentre nella risposta di Zauberei un tentativo molto chiaro mi pare ci sia. Sarà una mia tara. Non proseguo oltre.
Io andrei un passetto oltre al “c’è da fare” che propugnate, e mi chiederei a cosa può portare questa riflessione, prima di iniziarla. Seguendo la linea implicita della Spinelli mi (e vi) chiedo: gira che ti rigira, il punto d’arrivo finale di tutta questa riflessione che si sta mobilitando è una visitina al codice penale. Così come fu fatto per l’aggravante razziale, ai suoi tempi (tranquillizzo l’ospite: so che propugna una linea d’azione diversa che non passa per il codice penale).
Però lo sbocco più naturale e rapido per la repressione di un fenomeno socialmente sgradito è quello. Vedi stalking. E in quel caso, l’obiezione che Maurizio mi ha liquidato con tanta sufficienza diventerebbe drammaticamente essenziale: pena differente se hai ammazzato una donna, o pena differente se l’hai ammazzata in quanto donna?
E il problemino epistemologico da salotto diventa la differenza fra X e Y anni di carcere, che il giudice deve risolvere nella sua testina. Solo.
Io credo sia qui il nocciolo, qui la vera preoccupazione di chi combatte una ricostruzione bucherellata e approssimativa del fenomeno.
Beh se vogliamo fare l’epistemologa facciamola bene.
La domanda “cos’è il femminicidio?” non ha risposta in una definizione formale che circoscrive un concetto come fosse matematica, ma in un concetto a grappolo dove diverse situazioni sono accomunate dalle così dette ‘somiglianze di famiglia’. Sofri, per esempio, ha colto una relazione significativa nella violenza sulla prostituta, pur essendo una situazione diversa dal delitto in famiglia o in una relazione sentimentale. Altri ancora includono la violenza sulle persone transgender mtf. Una definizione formale non permetterebbe di cogliere la realtà che non si riduce all’azione violenta tra soggetti m e f, ma è da cercare nel rispecchiarsi di queste azioni in un certo sistema di sesso-genere.
Quindi l’argomento: il femminicidio non esiste perché non esiste una definizione formale di femminicidio è una sciocchezza.
Just, forse lei non ha voglia di leggere, ma posso capire. Nel post su questo blog di lunedì scorso è specificato a chiarissime lettere che interventi repressivi sono considerati non solo inutili, ma dannosi. Dunque, se lei voleva unicamente intervenire per ribadire questo, temo che abbia davvero sbagliato interlocutrice. 🙂
Ps. Chiederei di risparmiarci la definizione “da salotto”. Non stiamo facendo salotto sulle donne morte. Noto, invece, che ogni volta che si tocca l’argomento ci sono enormi quantità di commentatori che si fiondano a fare distinguo e ad attribuire a chi si occupa di femminicidio intenzioni giustizialiste e di istigazione all’odio di genere.
Due cose vorrei dire.
La prima è che la scoperta del fenomeno tende a oscurare le differenze, sia presso le persone che se ne occupano che presso quelli che ne vogliono disinnescare la violenta portata. Però ecco, ci sono pareri diversi sulle soluzioni da adottare – posso dire che nei centri antiviolenza per esempio quello che si chiede non è affatto un inasprimento della pena, ma una serie di provvedimenti in termini di formazione e di sorveglianza dei processi decisionali in ambito giuridico e processuale, che permettano una fluida e tempestiva applicazione delle leggi a disposizione. E’ opinione largamente condivisa che un corollario del problema del femminicidio è nell’atteggiamento che le forze dell’ordine e dei tribunali mettono in atto quando lo incontrano. E’ naif pensare che la legge basti da sola, la legge va saputa utilizzare e applicare, e questo my two cents ti garantisco che non succede. Per fare un esempio (che ho già fatto qui e scusatemi se sono ripetitiva) prima di essere ammazzata una donna da un partner violento, subisce è frequente che subisca diverse aggressioni fisiche, e se è coraggiosa succede che sporga denuncia ogni volta. Ma se non c’è nessuno che conoscendo il fenomeno chiede il raccordo delle denunce, nessuno sa che quella donna è esposta a un pericolo, e viene serenamente rimandata a casa, perchè quella denuncia risulta come prima, e non partirà in automatico il raccordo. Oppure, altro esempio già fornito, se una donna fa denuncia di una serie di violenze di cui è oggetto, il giudice può decidere – non conoscendo il fenomeno e applicando una pregiudiziale di fondo – che lei è solo una testimone e come tale le sue testimonianze vanno valutate una per una. Ci vogliono mesi. Intanto lei torna a casa e quello l’ammazza.
@ Just my two cents
la differenza la fa il movente, non il sesso. Una modifica sarebbe quindi quella di inserire oltre alle aggravanti per motivi razziali, etnici e religiosi, quelle sulla discriminazione di genere, di identità e di orientamento sessuale.
@ andrea barbieri ( OT, scrivo qua così faccio un commento solo )
grazie. quindi se ho capito bene ciò che rilevavi nel brano della Volpato era comunque un discorso che mantiene intatto il binarismo, senza la cui messa in discussione non si riesce ad affrontare il sessismo?
per curiosità: transgender mtf che significa? male to female?
A me sembra che ripetiamo le stesse cose da settimane. Noi che siamo sensibili al tema femminicidio e coloro che oppongono continuamente critiche e distinguo.
Partiamo dall’abc? Per esempio parliamo di educazione, di ruoli nella famiglia, di scuola, di offrire strumenti per sensibilizzare chi vuole essere sensibilizzato? Perché chi non vuole sentire resterà sordo a tutto, con buona pace di statistici e di psicologhe coi fiocchi!
Riporto anche qui il commento di Luca Sofri nel thread su Il post dove l’articolo di Adriano Sofri è stato pubblicato. “Io capisco il divertimento e anche la facilità – come approccio al problema da parte di alcuni commentatori qui – di fare i conti della serva al problema della violenza maschile sulle donne, ma suggerirei di non dimenticarsi completamente del problema, magari nelle pause tra un’addizione e l’altra. Ammesso che ci sia, eh: magari ce lo siamo inventato.”
http://www.ilpost.it/2013/05/31/minimizzazione-femminicidio-sofri/#disqus_thread
Condivido quanto scritto su questo blog e le parole di Adriano Sofri. Condivido e apprezzo perché su questi temi si dovrebbe fare una riflessione seria e profonda. Io di interrogativi ne ho tanti sul femminicidio, ma non perché intenda negarlo. Siamo sicuri però che sia SOLTANTO una questione di genere?
Mi permetto di rimandare a questo post: http://sguardoaltro.wordpress.com/2013/05/31/femminicidio/
@Just, e stavolta senza alcun sarcasmo: tu dici “mi chiederei a cosa può portare questa riflessione, prima di iniziarla”. Io ti posso dire dove vorrei portarla io, la riflessione, e stavolta non da statistico ma da persona che ritiene il problema reale e degno di attenzione istituzionale. L’approdo al codice penale non è implicito nell’azione messa in campo, né auspicabile secondo me. Non ci servono grida, ci serve (come osservava Zauberei) l’applicazione tempestiva delle norme già disponibili. Un fatto procedurale, più che da codice. Saltato questo passaggio, secondo me si dovrebbe procedere, in parallelo, con azioni pensate sulla scorta di quanto già si sa e approfondimenti volti a capire cose che non si sanno ancora e potrebbero rivelarsi preziose ai fini della lotta a questo crimine che trovo particolarmente odioso, in quanto legato ai rapporti di genere che riguardano tutti noi. A me – sempre come cittadino, perché come statistico non ho prove di quanto sto per affermare, né del contrario – la tesi che intervenire sull’educazione possa essere nel lungo periodo efficace pare convincente: non regge nemmeno l’obiezione della presunta “naturalità” della violenza maschile, essendo tanti i comportamenti istintuali che la cultura ha modificato. Mi parrebbe efficace anche una campagna di sensibilizzazione che renda normale parlare del problema e faccia così sentire più forti le donne che la subiscono, la violenza, in modo da dar loro il coraggio che serve per tutelarsi; e sarebbe importante che domande vere cominciassimo a porcele noi uomini, in particolare quelli che hanno usato o usano violenza: un’attenzione montante intorno al problema potrebbe forse avere anche questo effetto “collaterale”, che però andrebbe al contrario suscitato in modo consapevole e non come sottoprodotto. Venendo a ciò che non sappiamo, sistematizzare la raccolta dei dati e incrementarne i contenuti sarebbe di aiuto per indagare aspetti finora praticamente sconosciuti del fenomeno: violenza di genere in rapporto all’età, alla nazionalità di origine, al contesto urbano, ecc. Si potrebbero verificare (e falsificare) molte ipotesi, e qui io userei la massima apertura: so bene che a molte persone che frequentano questo blog non piace l’idea che si tiri in ballo la genetica o in generale la biologia, che si configurerebbero anche come potenziali attenuanti del gesto criminale; però io questa direzione di indagine la perseguirei, al pari di tutte le altre (in primis quella culturale), se non altro per smentirla in modo definitivo se del caso. Alla fine ne sapremo comunque di più e potremo raffinare gli interventi, studiarne di più specifici e di più efficaci. Ecco, questo è un campionario di cosa mi piacerebbe fosse fatto. E quindi del perché ritengo importante chiamare le cose con il loro nome, che non è “emergenza”: in questo caso, si tratta semplicemente di accordare la giusta priorità.
Mi sembra anche utile, come sta avvenendo, far sentire con forza la propria voce dappertutto quando si innescano discussioni che riguardano questo drammatico argomento, senza farsi “silenziare” da nessuno.
Maurizio: senza offesa, ma la riflessione dove vuoi portarla tu m’interessa poco. Perché – e qui rispondo pure a Loredana – l’evoluzione che avrà questa ondata di reazione (lo dico in senso buono) non la stabilisco né io, né tu, né lei. Non è che basti dire “Ah no, io una legge ad hoc non la voglio” perché non ci sia. Guarda Shane già qui ed oggi cosa dice. E guarda come nessuno si è ancora sognato di correggere il suo tiro dicendo quel Loredana mi suggerisce essere scontato.
Io credo di aver posto oggi una questione molto importante e molto semplice: cos’è di qua e cos’è di là di quel che chiamate “femminicidio”? Finora solo zauberei s’è sforzata di dare una risposta e di non girare in tondo al problema.
Di quella questione, Just, ci si è occupati – come detto – da anni: basta avere la volontà di informarsi. E, se non si fosse capito, la maggior parte delle donne che si occupa della questione medesima, NON vuole una legge repressiva. Vuole finanziamenti per i centri antiviolenza e educazione nelle scuole.
just etc.
C’è anche il problema per cui c’è un curioso effetto che riguarda il femminismo nelle democrazie di lungo corso. Diversamente dalle democrazie recenti, o dai femminismi che crescono in contesti di regime, in posti di lunga storia politica le donne sono diversamente politicizzate, crescono politicamente in aree diverse, e se condividono tutte l’esistenza di un problema, proprio come succede su altre priorità in agenda politica, forniscono risposte politiche coerenti alle loro storie formazioni e aree di appartenenza. Nel caso specifico: più vai a destra più incontrerai donne che chiedono l’inasprimento della pena, fino a proposte a parer mio deliranti e fuori dal contesto democratico – come la castrazione chimica degli stupratori, più vai a sinistra più incontrarai donne che propugnano l’urgenza della prevenzione in età scolare, e la diffusione di una sensibilizzazione socioculturale. Io che sono di sinistra ma psicologa, tendo ad aggiungere una comprensione e un intervento psicodinamico – per le famiglie dove c’è violenza di genere, e per gli uomini che per stare bene hanno bisogno di essere violenti. Ma è un parere per dire, che piace in certi contesti meno in altri.
Scrive Just my two cents: “C’è differenza fra ammazzare semplicemente una donna e ammazzarne una in quanto donna?”
La differenza è nei beni offesi. Se Tizio ammazza una persona colpisce il bene della vita di quella persona. Se Tizio uccide una persona in quanto donna (o ebreo, omosessuale, disabile eccetera) oltre a colpire il bene della vita, colpisce anche la classe cui quella persona è stata ascritta, quindi la dignità, la libertà di una molteplicità di persone.
Questo è il motivo per cui esiste la Legge Mancino: le situazioni sono differenti quindi è necessaria una tutela penale differente.
@ Shane Drinion
Sì. E nonostante il binarismo sessuale sia un’idea di una cretineria assoluta, in Italia riesce a essere l’ovvio che non può nemmeno essere pronunciato.
Sì, è il significato di mtf. E’ bene che l’espressione entri nel lessico, quindi cerco di usarla.
Un ‘intervento psicodinamico’?
Ma Zauberei, la terapia la fa chi la vuole fare, tanto più la cosiddetta ‘psicodinamica’ per la quale, diciamo così, bisogna avere una certa fiduciosa propensione.
Hai ragione Andrea e questo è un problema molto noto nei contesti operativi. Ma siccome è un problema come dire di procedura ma non di teoria di fondo, si vanno cercando soluzioni per aggirarlo e tutto sommato si trovano. Stanno aprendo centri per uomini maltrattanti in diverse città di Italia, funzionano e trovano un’utenza collaborando con diversi piani istituzionali. Oppure ci sono progetti finanziati vuoi dalla comunità europea o dalle pari opportunità o enti locali in collaborazione con i tribunali. O che ne so nelle carceri. All’inizio ci si scontra sempre con il problema a cui alludi, però si possono battere delle strade.
che piacere leggere adriano sofri. per me è uno dei migliori intellettuali italiani in circolazione.
Loredana: insisto per l’ultima volta, poi mi taccio. Né tu né io possiamo parlare per rappresentanza. Non vedo proprio su che cosa mi dovrei informare. Ho capito (e ho premesso, come di sicuro hai letto) che conosco la tua posizione.
Però ti ho anche sottolineato che né sei tu a decidere, né puoi prenderti il diritto di parlare per gli altri. Si parte dalla riflessione su di un fenomeno e poi si arriva alla legge repressiva, scritta male e di fretta solo per quietare “l’allarme sociale”, perché nel fenomeno di partenza ci si è buttato dentro un po’ di tutto quello che non piaceva. E’ successo per la pedofilia, è successo per lo stalking, è successo per l’aggravante razziale…
Se ti va di riflettere su questo punto, bene. Ma se continui a darmi del male informato e ad evitare la discussione, non puoi che costringermi a fermarmi: non ho interesse a sembrare polemico a vuoto.
Barbieri io ho chiaro perfettamente quello che sottolinei. Non è un caso che abbia citato per prima proprio l’aggravante razziale. Mi interessa però sapere se chi riflette su questo fenomeno ha altrettanto chiare le implicazioni di quello che dici tu.
E cioè che femminicidio, così alla grossa come viene inteso oggi, vuol dire proprio quello: ritenere più grave l’offesa a una categoria determinata di persone, cioè le donne.
Il che però è in evidente contraddizione con quello che il femminicidio vorrebbe invece significare in teoria: uccisione di donne *perché* donne. Offesa alla categoria *perché* si vuole offendere la categoria.
Cioè si sta scambiando il movente con il delitto. La causa con l’effetto. Non so se sia buona o mala fede, non mi esprimo. Però so che è pericoloso. Addirittura pericolosissimo in un ipotetico campo penale. Al limite, ma proprio al limite, della responsabilità oggettiva.
La contraddizione naturalmente si riflette sul come nel pratico entrare nella testa del maschio cattivo e vedere se effettivamente ha ucciso o picchiato quella donna *perché* donna – e non semplicemente *una* donna.
La risposta pratica che oggi si darebbe non è né quella di Maurizio di snobbare il problema, né la tua “dimostrazione” di impossibilità di arrivare a una definizione, né quella di Zauberei.
La risposta che si darebbe oggi è quella che tutti i giorni si dà per l’aggravante razziale: la trovi facilmente nei commentari o su internet.
Però prova a prendere quella risposta e ad applicarla al femminicidio; poi vedi quanti e quali dei casi che oggi contate come femminicidi, a occhio, supererebbero quel test.
Magari così sono più chiaro.
Per essere ancora più chiaro: a meno che non si voglia ritenere che ogni offesa a una donna sia un’offesa alla categoria delle donne, è necessario tracciare un confine.
E io sto chiedendo dall’inizio: dov’è questo confine?
@ Just
però, visto che mi hai citato, io ho parlato di genere, identità e orientamento sessuale. Nessun riferimento quindi alle donne. Se qualcuno ha inteso che qualcun’altro intende che uccidere una donna è più grave che uccidere un uomo, peccato.
@ Just
guarda, per allentare un po’ i toni: su Lipperatura si è discusso per anni sul confine tra letteratura di qualità, monnezzoni, letterarietà e robe varie. Figurati tu se possiamo tracciare confini per ciò di cui parliamo adesso. Nessuno può entrare nella testa della gente, si fanno distinzioni di sorta. Oltretutto da queste parti penso che non importi quasi a nessuno di come verranno giudicati questi casi in tribunale, ma di come e se è possibile non farceli arrivare in tribunale.
Just sinceramente io non capisco in base a cosa tu stabilisci che i dibattiti ei flame di rete possano rappresentare l’antesignano di ciò che diventerà decisione in ambito giuridico. Trovo questa posizione un po’ allarmista ma anche molto ingenua. questa continuità non si da mai in maniera così lineare manco con la stampa specializzata, ma figurati con una cosa come internet. Mi sembra più una tua paura, che una reale possibilità. La rete esprime in porposito pareri che risentono dell’orientamento politico di chi li propone: tu citi con angoscia quelli che chiedono l’aggravante di reato, un altro potrebbe avere il timor panico a leggere il commentarium del Giornale. Entrambi avreste torto, a considerare le sezioni di realtà che frequentate come assoluti nella soluzione di questo o quel problema, violenza di genere inclusa. Il tenore delle risposte legislative lo da l’orientamento politico di governo. Le risposte che forniscono nel concreto gli enti locali, riguardano invece non richieste di leggi ma percorsi che facilitino l’applicazione della legge. Si fanno per esempio molti corsi di aggiornamento alle forze di polizia, e presso le magistrature.
POi, davvero – non so in base a cosa tu decidi che chi si occupa di femminicidio – cioè tutte le persone che sostengono l’urgenza di un problema – ritengono l’omicidio delle donne più importante di quello degli uomini, o più importante comunque di altri tipi di reato. E’ un’inferenza indebita, che non ha fondamento. Posso capire che semanticamente la parola generi confusione, bon, capisco quello che tu dici, ma questa no. Si tratta di una specie di reato di cui ci si vuole occupare per stabilire la classe di interventi da attuare per prevenirlo o contrastarlo, come si fa non solo con altri reati ma tutto sommato in qualsiasi disciplina che implica uno scendere sul piano delle prassi.
Cioè non credo che a un medico che decide di occuparsi tutta la vita di artrosi deformante, uno vada a dire a stronzo, ma perchè non ti occupi di cancro che te credi che è meno urgente? Quello li non dice che è meno urgente il cancro, dice che accanto a quelli che si occupano di cancro ci sono altre malattie, di cui qualcuna sottostimata o poco curata, e di cui non si individua bene la costellazione sintomatica, e ce se mette – punto. E certo dice, ehi guardate anche qui, ma mi per quanto la media dei cretini implica una quota fisiologica in qualsiasi contesto, e il femminismo ci avrà il suo bravo tasso di persone idiote, mi sa che so pochette quelle che dicono che la mafia rispetto al femminicidio non conta niente, e annamo.
Comunico che qualche Tg Rai (scusate, non ricordo se era un regionale Lazio o Rainews, lo so, fa differenza) sta cominciando ad applicare la pas-condicio: insieme ai due tre casi quotidiani di femminicidio e/o aggressioni di uomini contro donne, ha dato notizia che una donna ha preso a padellate il marito. Non so, ma dover ricorrere alla vignetta della moglie che randella il marito col mattarello stendipasta mi dice qualcosa, d’antico.
Shane, perdonami se sarò diretto: non hai capito nulla e non posso fermarmi a rispiegartelo, altrimenti finiamo in polemica. Scusami.
Zaub: no. Continuate a vedere la questione che pongo come una cosa negativa, come un tentativo di smontare il problema. Non lo è. Trovami una traccia di benaltrismo in quel che ho scritto e ti fo ricca.
E sottolineo anche a te che chi prende le decisioni non è “il movimento femminista”, che al massimo si occupa di annunciare il problema, quindi dirmi che c’è una percentuale inferiore di idioti – ammesso che sia vero – non sposta il problema di un micron, bella di zio.
Ti faccio un paragone, così ci capiamo.
Per anni tutti hanno urlato contro la violenza sulle donne.
Giustissimo.
Per anni si è detto: ma perché non si fermano questi malandrini *prima* che colpiscano.
Siamo stati in pochissimi a dire: ragassi, occhio. Che si scivola verso una brutta china. Chiarite bene cos’è dentro e cos’è fuori, sennò finisce male.
Tante, tante, tantissime ci hanno detto le stesse parole e fatto la stessa resistenza che mi fai te ora. Eh ma che ne sai. Eh ma noi si sa quel che si fa. Eh ma tanto il legislatore è saggio. Eh ma tanto è solo un tuo riflesso pavloviano rettile maschilista. Eh ma l’argomento della china sdrucciolevole è una fallacia logica. Eh ma si vede che sei uomo e che c’hai paura che te castriamo e te leviamo il potere della viulenza. E tanto, tanto altro.
Non parlo di commentini su blog, ma di conferenze, convegni, articoli, recensioni e altra roba – diciamo – seria (sì, non sono un dilettante del problema – per chi volesse credenziali. E aggiungo anche che voto PD e sono ateo, così sgombriamo pure il campo dalla figura del pidellino catechista e retrogrado).
Com’è finita?
Andatevi a leggere com’è congegnato lo stalking. Venite a vedere come siamo costretti ad applicarlo. Per cosa viene usato. Vi ripeto, eh: venite. Non fidatevi di me. Realtà contro realtà.
Mi rendo conto che ora vi è difficile vederlo e accettarlo, che vi sembra una scusa per smontare il problema. Ma non lo è. Basta fare un piccolo sforzo di igiene.
Se vi sembra un discorso allarmista, prendete le parole di Sofri contro il negazionismo e applicatevele.
Detto questo, penso di aver detto tutto, anche troppo.
Non rubo altro spazio perché noto che si sta per finire a polemica. Troll, flame e quant’altro non sono il mio pane.
Buona fortuna.
Scusa Just, ma più di tutto non capisco perché mai dovrebbe finire in polemica. Io ho letto e ho cercato di risponderti. Se il punto a cui volevi arrivare è che rischiamo una legge che dice alla grossa che uccidere una donna è più grave che uccidere un uomo, io ti posso rispondere per me, e per ciò che leggo in giro. E non vedo in che altro modo se non dicendo che non è così che la vedo, che posso intervenire. Oltretutto anche finisse in questo modo non mi pare la fine del mondo.
Sono un “negazionista di buona volontà” (espressione che comprende in sé la falla logica della “Reductio ad Hitlerum”, l’argomento principe per screditare chi non la pensa come te in mancanza d’altro) e visto che sono uno di quelli che si è spinto “a confrontare le uccisioni di donne con le vittime degli incidenti stradali!” mi sento chiamato in causa direttamente. Se una donna teme per la sua vita sposandosi, dovrebbe temere 30 volte di più andando in macchina, visto che in Italia le probabilità di morire sono appunto 30 volte di più (128 femminicidi, contro 3.500-4.000 morti per incidenti stradali).
Ma questo non vuol dire sottovalutare il femminicidio. Caso mai è Adriano Sofri che sottovaluta e minimizza gli incidenti stradali e il loro drammatico impatto sociale.
Qui le mie osservazioni presunte “negazioniste”.
Invito a leggere bene il *titolo*, la *premessa* e la *conclusione*. E osservare un dato che non ha ancora osservato nessuno: l’età media di vittime e carnefici del femminicidio.
http://scrittorefreelance.blogspot.it/2013/05/femminicidio-forse-piu-un-problema-di.html
Per mia edificazione e istruzione, questo post è “negazionista”? Se sì, dove?
E’ interessante, ripeto ancora, come alla sollevazione di questo problema tante persone (che si autodefiniscono titolate, e di questo non posso che esser lieta) si affrettino, esattamente come dice Adriano Sofri nel suo articolo, a dire che no, le cose non stanno così, che sì, siamo ingenui perché il legislatore approfitterà della denuncia per fare leggi repressivissime (e magari – perché ho letto in molti thread che questa è la paura maggiore – si stanzieranno persino FONDI per prevenire il femminicidio!). E’ interessante notare con quanto paternalismo (noi cieche, noi sciocchine, noi incapaci di vedere la realtà, pat pat) si interviene accalorandosi su un problema su cui per anni è calato il silenzio. Vi offendete per la parola “negazionisti”. Io mi offendo per chi continua a usare la calcolatrice, ma è questione di punti di vista e di modi di intendere il mondo. Entrambi legittimi.
Caro Gianni,
Uno psicotarapeuta ben poco femminista, junghiano, un giorno mi ha spiazzato dicendomi che e’ sempre la cultura maschile che e’causa di incidenti stradali. L’auto puo’ diventare un’arma. Il desiderio di potenza,l’aggressivita’,persino la rabbia e la distruttivita’ trasformano le auto in armi. E come ben saprai, a causare piu’ incidenti gravi e mortali sono
proprio gli uomini. L’auto fra l’altro e’banale dirlo, e’la protesi fallica di molti maschi. Anche il problema degli incidenti stradali e’sempre legato alla cultura della ‘potenza’ o ‘onnipotenza’ che e’ alla base del mito della maschilita’, come condizione di superiorita’ rispetto alla donna. In effetti hai ragione dovremmo cominciare a scrivere anche di incidenti stradali ….
Sono folgorata dalla riflessione dello junghiano sugli uomini e le automobili come strumento di vanto e sopraffazione. E’ vero che gli uomini fanno piu’ incidenti e quasi sempre l’auto che si schianta di notte aveva un uomo al volante.
Sinceramente? Non sopporto più che anche fra i reati ci siano mode. No, non è una nuova sensibilità, è piuttosto l’ennesimo pacco di reati-fotocopia offertici dai giornali per avere, come sempre, un pubblico scandalizzato, stupito e istintivamente attratto alla lettura di quell’articolo nel mare delle notizie. I morti, per l’audience, non sono tutti uguali e creare una nuova fattispecie di reato non è per forza garanzia di un dibattito serio, ovvero scevro dalle reazioni immediate ed emotive. Promuovere la reazione emotiva e lo scandalo,poi, per me, serve solo a ragionare (e legiferare) colla pancia, oltre che, ovviamente, a vender carta stampata
Nadia e Alessandra Quattrocchi, sono d’accordo con voi. Non scherzo. Che sia d’accordo con voi – in buona fede e non per captatio benevolentiae – è dimostrato dalla premessa del mio post, che, con le dovute proporzioni, può essere in buona parte estesa anche al problema degli incidenti stradali (mediamente, gli uomini guidano in modo più rischioso e pericoloso rispetto alle donne, è vero, risulta ampiamente documentato anche dalle statistiche delle società assicuratrici).
Detto questo, bisogna intendersi sul significato politico del femminicidio.
– È un dramma che va combattuto con tutta la forza di cui è capace la società civile? Sì, sono d’accordo.
– È un indicatore sintetico e drammatico della condizione della donna in Italia? *Probabilmente* no, perché nei paesi socialmente più progrediti (Francia, UK, Germania, Finlandia ecc) sembra che ne accadano di più. Dire questo è “negazionismo”? Allora, se i numeri riportati qui sono giusti, in questo caso l’Onu è “negazionista” (seconda tabella, sotto il grafico):
http://noisefromamerika.org/articolo/femminicidio
(Ho evidenziato il *probabilmente* perché non sono dogmatico e fideista sull’argomento)
Saluto Just allora.
Per quanto riguarda Gianni Lombardi. Provo una specie di imbarazzo spontaneo, perchè mi rendo conto che la sua argomentazione ha anche una sua logica interna al tutto rispettabile, ma io avverto – sempre, non solo a proposito di questo argomento – una sorta di ritiro orrorifico, una specie di scandalo spontaneo. Ossia, a me le gare di morti fanno schifo, e per quanto viva in un contesto di crisi galoppante, siamo sempre in un paese le cui condizioni economiche e la cui storia democratica dovrebbe impedire soltanto il pensiero dello spareggio della sfiga.
Non è che quando cioè hanno introdotto la legge sulla cintura di sicurezza ho cominciato a sbraitare sulle donne, o l’obbligo di non fumare nei locali pubblici ho cominciato a frignare di mafia. Non è politico questo, non è morale. la comparatistica tra gli incidenti li furti e li stupri e le violenze razziste mi fa schifo e scusatemi sono in imbarazzo davanti a chi le propone. Trovo che le violenze correlate a un’aspettativa discriminatoria siano un oggetto politico, particolarmente politico rispetto ad altri, e penso che sia giusto che una fetta della cittadinanza ne comprenda la gravità e proponga soluzioni – se il problema non è visto, ed è decisamente poco visto io faccio la voce più forte, che non vuol dire negare gli altri ma occuparsi di questo di più di quanto si faccia. Anche sul piano privato – osservazione che mi rendo conto lascia il tempo che trova – io dinnanzi a una persona che quando si dice – guarda questo è morto – non ha le palle per dispiacersi e deve subito rinfacciarmi il fatto che di la sono morti due, a me genera una forte distanza. Io penso che non sarà mai in grado di occuparsi nè del morto uno nè de quell’altri. Mi arriva una sorta di puerile invidia per l’attenzione che ottiene una disgrazia che si tenta di distogliere parlando di un’altra. Tristezza.
(ma ste cose devo averle già dette, eventualmente mi scuso)
Scrive Just:
“Il che però è in evidente contraddizione con quello che il femminicidio vorrebbe invece significare in teoria: uccisione di donne *perché* donne. Offesa alla categoria *perché* si vuole offendere la categoria.
Cioè si sta scambiando il movente con il delitto. La causa con l’effetto. Non so se sia buona o mala fede, non mi esprimo. Però so che è pericoloso.”
.
Ho l’impressione che rigiri parecchio le parole. Provo a rispiegartelo.
La legge penale si basa sull’offensività e niente altro. Se Tizio uccide una persona in quanto donna che non resta nel ruolo che secondo lui dovrebbero avere le donne ha offeso due beni:
– la vita
– la libertò di una classe di persone cui è ascritta la vittima.
quindi è l’effetto, cioè l’offesa concreta di beni tutelati dalla Costituzione, a rilevare.
La logica del femminicidio è anche per così dire ‘terroristica’, cioè un individuo maschio ‘punisce’ una femmina che non sta al suo posto. Credo che sia impossibile non capire la concretezza di questo aspetto: offendere la vita e la libertà. Esattamente quel che accade per il razzismo, l’omofobia, la violenza sui disabili eccetera.
Scrive Gianni Lombardi:
“Sono un “negazionista di buona volontà” (espressione che comprende in sé la falla logica della “Reductio ad Hitlerum” l’argomento principe per screditare chi non la pensa come te in mancanza d’altro).
.
No guardi lei fa confusione. La ‘reductio ad hitlerum’ si ha quando il comportamento di tizio viene paragonato al nazismo.
Qui il comportamento di tizio non viene paragonato al nazismo, ma alla bizzarria di chi nega un dato storico evidente.
Se lei cerca ‘negazionismo’ per esempio sul Treccani on line, trova prima di tutto:
“Termine con cui viene indicata polemicamente una forma estrema di revisionismo storico”.
Quindi mettiamo da parte per favore la ‘reductio ad hitlerum’.
Sono stupefatto. C’è uno che sostiene che siccome si rischia una deriva legislativa repressiva è meglio non sollevare il problema, dà degli ingenui a tutti noi che ci accaloriamo, dice che ne sa più di noi perché si occupa della legge sullo stalking che fa schifo ma non dice perché (Just). Questo lo iscriviamo alla categoria sempre molto nutrita di quelli che la sanno lunga, quelli smagati, quelli che stanno sempre un passo avanti agli altri. Quelli che. Poi c’è un altro che zompa su a dire “e gli incidenti stradali allora?”, e come avesse scoperto l’uovo di Colombo rimanda alla mirifica esposizione di cifre del volonteroso notaio Patruno, del tutto inconsapevole del ruolo che proprio quel post, e qualcun altro, hanno avuto nel dare impulso al dibattito in corso qui; inconsapevole, insomma, che lo statistico dilettante Patruno è stato ampiamente confutato. E toccherebbe ricominciare daccapo, se uno ne avesse le energie e la voglia. Personalmente, preferisco lasciar perdere. E ancora quelli che hanno paura che si sancisca “che l’omicidio di una donna è più grave di quello di un uomo”, cosa da nessuno richiesta; quelli che levano alti lai contro le sperpero di fondi pubblici in iniziative “assolutamente inutili” (perché inutili? Chi ve l’ha detto, di grazia? Avete qualche argomento che non sia stato già ampiamente confutato? No, eh?); quelli affetti da miopia totale, che proprio non riescono a vedere la radice comune che determina il raggruppamento di una certa categoria di delitti sotto una denominazione unica e parlano di “illusione ottica” (potrebbero fare il paio con quelli che negli anni ’60 sostenevano, per motivi analoghi, che a non esistere era la mafia, e si troverebbero così in compagnia di molti illustri politici che fanno mostra delle proprie effigi nei libri si storia contemporanea); i fan del “minimo fisiologico”, convinti di non dover essere loro a dimostrare che tale oggetto fantasmatico esista, ma gli altri a dimostrare che non esiste, dato che loro non solo sono certi dell’esistenza, ma si spingono fino a stimarlo (0,5 morte ammazzate ogni 100.000 individui, rassegnatevi che sotto non si va, Ipse dixit ma non si sa chi sia l’Ipse, o forse sì, tale Verkko che nessuno avrebbe mai riesumato se non avesse tirato fuori tale perla, peraltro senza darne giustificazione metodologica alcuna). Più che un parametro statistico, un’entità metafisica, che come tale sta riscuotendo la giusta dose di venerazione dai novelli adepti, epigoni moderni del Gran Sacerdote Verkko. E questo è solo un campionario preso così, a pinzimonio, di idiozie che non sono nemmeno tra le peggiori. Ragazzi, ma vi rendete conto o no della gragnuola di cazzate a cui vi state attaccando, pur di negare un’evidenza palmare? Io mi sono quasi pentito di essermi speso nella guerra dei numeri: immaginavo, come penso anche Loredana, che sarebbe stato utile dare un supporto professionale per fare chiarezza; immaginavo di discutere con persone aperte ad evidenze non in linea con le proprie convinzioni a priori; ma no, tutto inutile, perché la maggior parte di chi si accanisce a negare non dà ai numeri alcun valore che non sia quello di talismano, un corno rosso da toccare apotropaicamente, una zattera di salvataggio a cui affidare la sopravvivenza delle proprie chimere. Nega, e sarai salvato. Dalle tue paure, dall’Uomo Nero, anzi no, dalla Vagina Oscura. Alzo le mani. Non vi serve uno statistico e neppure un esperto di diritto, né un epistemologo: a voi serve la psicanalisi. Non è un caso che le risposte più pertinenti ve le stia dando Zauberei, che di mestiere fa la psicologa. Pensateci, magari capita pure che ne cavate qualcosa.
Maurizio, a mio parere la psicoanalisi è la culla di pregiudizi sull’identità sessuale, in particolare il genderismo. Faccio soltanto un esempio, quando si parla di omogenitorialità, i pochi psichiatri che la criticano, contro un mare di evidenze, sono di formazione psicoanalitica. Questo naturalmente non significa che altri di formazione psicoanalitica/psicodinamica non abbiano aggiornato o tentino di aggiornare le loro posizioni aprendosi ad altri saperi.
Comunque attenzione a ridurre nel linguaggio la psicologia e la terapia alla psicoanalisi.
“C’è uno che sostiene che siccome si rischia una deriva legislativa repressiva è meglio non sollevare il problema” [Maurizio]
.
Quello che qualcuno invoca si chiama nel diritto ‘principio di precauzione’.
Il principio è applicabile dimostrando elementi concreti di pericolo. Quindi basta invitare queste persone a dimostrare quali sono questi elementi concreti. Io ancora non ne ho visti.
“[Il femminicidio” È un indicatore sintetico e drammatico della condizione della donna in Italia? *Probabilmente* no, perché nei paesi socialmente più progrediti (Francia, UK, Germania, Finlandia ecc) sembra che ne accadano di più. Dire questo è “negazionismo”? Allora, se i numeri riportati qui sono giusti, in questo caso l’Onu è “negazionista” (seconda tabella, sotto il grafico):
http://noisefromamerika.org/articolo/femminicidio” [Gianni Lombardi]
.
Mi sfugge la logica di questo discorso. Un indicatore viene costruito in un certo modo all’interno di un progetto di ricerca. Ma è chiaro che il numero dei femminicidi è significativo rispetto alla condizione femminile, e che si tratta di dati di realtà che non è ragionevole negare.
Se poi qualcun* pensa – ma voglio sperare che non sia così, mi sembrerebbe abnorme – che se in un altro paese c’è un femminicidio in più, dunque in Italia le donne ‘stanno bene’, ecco la cosa mi pare che dal punto di vista logico si commenti da sé…