Ieri sera riflettevo su una semplice questione di narrazione: mi chiedevo, in effetti, come mai quando si parla di fase tre (e raddoppio dei contagi vero o paventato) si accosta il testo giornalistico a foto di aperitivi. Le persone escono per centinaia di motivi: lavoro, portar fuori i bambini, visite mediche, spesa, e, anche, volendo, incontrare parenti e amici. Sembriamo invece un popolo di fissati per lo spritz, i drogati della fata arancione, come se vivessimo in un perenne aggiornamento dell’heure verte. Tutti Verlaine. O tutti Zola, di contro, che protestava contro la dissoluzione e i guasti dell’assenzio. Così scrivevo, ma oggi torno a chiedermi quando è successo che l’antica consuetudine (torinese, all’inizio) del vermouth sia diventato rito identificativo di un intero popolo.
Andiamo a memoria. Non negli anni Sessanta, quando al massimo ci si interrogava sul Vodka-Martini “agitato” e non “mescolato” di James Bond, o sulle pubblicità degli amarissimi che fanno benissimo (!). Non nei Settanta, quando la compagna di conversazione (lunghe e complesse e difficili, quelle conversazioni) era semmai la birra gelata, e comunque nessun bar, in genere, ma scalinate e marciapiedi.
La tendenza si afferma dopo. E penso, per forza, ad American Psycho. Tutte quelle marche e quei vestiti e quei ristoranti che noi non capimmo subito, e molti li presero per provocazione e molti altri pensarono che Bret Easton Ellis fosse un misogino e che il romanzo parlasse di come fare a pezzi le donne. E intanto noi macinavamo tutti quegli spettacoli di teatro, il falso movimento, tutti quei vestiti fighi, quei prosecchi, quelle musiche, quei treni per Tozeur. Quei 190.000 dollari all’anno di Patrick Bateman. Quei maglioncini da ottocentomila lire, che a pensarci adesso vengono i conati all’idea. Le palestre e i primi bistroquet romani con le ostriche, cinquecentomila lire una cena per quattro. Tutte quelle marche. Bateman ne era ossessionato. Guarda Montgomery venire verso il gruppo, e Montgomery esiste solo in funzione di ciò che lo veste:
“Indossa un blazer bleu marin con bottoni in finta tartaruga, camicia a righine in cotone crespato, con impunture rosse, cravatta di Hugo Boss in seta stampata, pirotecnica, rossa, bianca e blu, e pantaloni di Lazo color prugna, con quadruplice plissettatura sul davanti e tasche oblique”.
Schiuma di un tempo lontano. Come tutti i cibi raccontati da Ellis/Bateman. Tutti quei bocconi prelibati. Cacciagione con salsa allo yogurt, felci dolci con fettine di mango, sashimi con formaggio pecorino, anatra affumicata con sciroppo d’acero, salmone alla griglia con aceto al mirtillo e guacamole, ravioli alle uova di asola con composta di mele, polpettone al sugo di chevre, snapper rossi con violette e pinoli, zuppa di burro d’arachidi con anatra affumicata e zucchine a rondelle. Rape gratinate. Sorbetti di pera giapponese. Pizza allo snapper rosso. Budino di jalapeño. Morgan Stanley. Lehman Brothers. Bum.
Quand’è che un momento di allegria e di distrazione è diventato un valore assoluto, in sé, intendo? E come mai quel valore assoluto è diventato un disvalore nelle narrazioni di oggi? Cosa ci inchioda a una convenzionalità? Infine, come usciamo da questi reiterati tentativi di schiacciare quello che siamo, di renderci ombre sul muro?
(Prosit, non è quello il punto, e lo sapete)
Forse l’idea della comunicazione istantanea, semplificata, rapida, nessun ragionamento,. Un’istantanea e un giudizio.
Per molti sarà quello il bello, ma per altri no. Più semplice tagliare corto, cinicamente sintetici
Forse perché gli aperitivi vengono vissuti erroneamente come mero assembramento edonistico, futilità irresponsabili; tuttavia il problema di fondo è un altro, costante e affaticante, in questo periodo in cui la definizione del rischio è in continuo aggiornamento. Ci sono oramai studi attendibili che mostrano che il contagio si è avuto prevalentemente in ambienti chiusi, istituti per anziani, ascensori, ambienti rarefatti, case in cui si è a contatto con persone positive; all’aperto il contagio (ovvero la carica di contagio che ci rende ammalati, perché è questa che conta, tema analizzato a più riprese su Radiotre Scienza ultimamente ) è altra cosa: se si rispettano le distanze fisiche, non è neppure necessaria la mascherina, (che andrebbe cambiata spesso e d’estate si incolla sul viso), la mascherina è indicata soltanto nel caso in cui non si riescano a rispettare le distanze fisiche, ovvero un assembramento molesto, che da noi per come vanno le cose, è altamente improbabile, le stesse immagini di aperitivi a Padova, sono di persone sedute all’aperto, a debita distanza. In molti paesi europei è solo la distanza fisica che conta, questo è il MUST, l’attenzione consapevole, la mascherina non è un must, sarebbe doverosa soltanto come difesa dallo smog, infatti a Pechino la indossano da anni. In altri termini persuadere le persone che la logica del contagio è un’altra rispetto agli aperitivi delle foto, è impresa da Sisifo; eppure ognuno di noi nel suo piccolo – come fosse un Ulisse di se stesso – può osservare, domandare, analizzare le cause del contagio, attraverso persone che conosce direttamente o indirettamente, attraverso la rete, e scoprire che le persone si sono ammalate a contatto ripetuto in luoghi chiusi, famiglie, ascensori, in luoghi asfittici, in luoghi di lavoro inizialmente non sanificati (con aerazione eccessiva che poi è stata ridotta) e in luoghi cui le distanze fisiche non sono state rispettate (adesso accade molto meno) in centri per anziani… e lo abbiamo tragicamente assodato. Il continuo additare, runner o consumatori di aperitivo all’aperto, sta ssumendo aspetti da paranoia che possono essere spiegati forse soltanto con la letteratura, DeLillo, ad esempio; la cronaca temo non riesca a starne al passo, è un continuo perder di forze e cadute di braccia.
Forse perché è più semplice dirigere il moto di rabbia verso ciò che consideriamo evitabile (correre, fare l’aperitivo), rispetto a quello che risulta inevitabile, per motivi diversi, riconducibili sostanzialmente all’incapacità totale di promuovere istanze collettive (ad esempio sul lavoro, ma non solo).
Per riprendere gli esempi fatti nel commento precedente: posso evitare di condividere l’appartamento con un congiunto malato di Covid, se chi amministra non mette a disposizione delle strutture per garantire la quarantena in sicurezza? No. Posso evitare di prendere l’ascensore se abito all’ottavo piano? No, gran parte delle volte. Posso evitare di andare in ufficio, se i miei superiori mi impongono di farlo, nonostante l’accordo col sindacato parlasse di rientro volontario? No, anche se lo faccio controvoglia, con la consapevolezza di espormi a un maggior rischio di contagio. Tutta questa frustrazione dove va a scaricarsi allora? Sul tipo che corre, o su quello che sorseggia lo spritz.
Concordo con le tue considerazioni, Enrica, per larga parte bisogna anche tener conto che c’è stata un’impreparazione a vario livello, dovuta all’esperienza totalmente imprevista, una disorganizzazione che non sta a me dire quanto colpevole (penso alla Lombardia); gli ascensori potevano essere sanificati meglio e presi da solo e non in compagnia, chi non poteva restare in casa con altri, avrebbe dovuto essere ospitato in luoghi adibiti a questo, come hanno fatto in Cina; questa frustrazione di cui parli è comprensibile, in più aggiungo io, che molte persone non riescono a guardare lucidamente le cose, anche attraverso analisi ponderare, sia perché le analisi ultimamente sono state ondivaghe, sia perché fisime collettive, paure di vario genere (appunto parlo di DeLillo) premono ormai su molta gente: la mascherina indossata da soli in auto o in luoghi in siamo soli con noi stessi è uno di questi effetti.
Concordo abbastanza con Domenico, questa pandemia è diventata una manna per igienisti e ipocondriaci che adesso tendono anche moltiplicarsi. Ma sia chiaro la situazione va tenuta sotto controllo e capisco le autorità che quindi fanno bene a tenere alta la guardia. Però detto tra noi anche a me sembra di poter dire che il contagio avvenga solo quando si entra direttamente in contatto ravvicinato e prolungato con il respiro di una persona affetta, non si spiegherebbe altrimenti il fatto che nonostante il virus giri a Milano e dintorni da gennaio o anche prima non si sia diffuso nelle altre città direttamente collegate. Voglio dire da Milano centrale partono tutti i giorni più di 100 treni ad alta velocità per Roma e Salerno, parliamo di centinaia di migliaia di persone, se bastasse toccare un corrimano per infettarsi o addirittura una valigia che tre giorni addietro è stata in metropolitana allora dovremmo essere tutti nella stessa situazione..