Sul Venerdì di oggi, una mia intervista a Wu Ming per Altai. Eccola.
Venezia, 1569. L’Arsenale va a fuoco. Ne viene ritenuto responsabile Emanuele De Zante, spia del potente consigliere Nordio, che lo sceglie come capro espiatorio. De Zante fugge a Costantinopoli e si ritrova al servizio del nemico acerrimo della Serenissima, l’ebreo Giuseppe Nasi, che per realizzare un suo ambizioso progetto spinge il sultano Selim II alla guerra contro Venezia. Al suo fianco, si schiera un misterioso viaggiatore che si fa chiamare Ismail. Ma che un tempo ebbe molti altri nomi.
Questo è lo scenario di Altai, il nuovo romanzo dei Wu Ming appena pubblicato da Einaudi Stile Libero. Un libro importante: perché esce dieci anni dopo Q, il best-seller di esordio del collettivo, e perchè di Q, incredibile galoppata negli anni della Controriforma e delle rivolte contadine tedesche, ritrova le atmosfere e almeno alcuni personaggi. “Altai – dicono i Wu Ming – è figlio di un’esigenza molto forte, di una spinta ineludibile. In questi anni ci siamo spinti molto oltre il nostro primo romanzo, e per fare il punto del percorso bisognava ritornare a quella mappa, a quel sistema di riferimento. In senso lato Altai è un seguito, cioè viene dopo Q. Si svolge quindici anni più tardi, vediamo come sono proseguite le vite dei personaggi che nell’epilogo erano sul ciglio di un nuovo mondo, in attesa di essere ricevuti da Solimano il Magnifico. Non è un seguito lineare, però. Non è Q 2. I fili vengono prolungati ma anche deviati, seguendoli ci ritroviamo in un altro universo, c’è un’altra geografia, personaggi nuovi. Speriamo che questo “spiazzamento” sorprenda in positivo chi ha amato il nostro primo libro.
Quello che resta immutato è il rovesciamento storico che vi è proprio, come il racconto della battaglia di Lepanto dalle fila dell’esercito turco. Un modo per evidenziare il conflitto fra due civiltà?
Dumas diceva che la Storia era il chiodo al quale appendeva i suoi romanzi, vale a dire una sorta di sfondo dove proiettare la vicenda dei personaggi. Noi in quel muro di fondo cerchiamo piuttosto una crepa, ci infiliamo dentro una storia, e facciamo leva fino a farlo crollare. Così, oltre a dimostrare che quella costruzione era soltanto una delle molte possibili, possiamo provare a metterne in piedi un’altra. “Scontro di civiltà” è il nome che in questo caso diamo alla crepa, alla voragine, dove abbiamo infilato la trama di Altai. Serviva una prospettiva nuova, perché le crepe sono sul lato meno in vista del muro, dove pochi guardano. Basta cambiare ottica e lo scontro di civiltà sparisce: non esiste oggi e non è mai esistito, se non come artificio retorico.
La sconfitta sembra essere una delle grandi tematiche di Wu Ming. Quel che voi raccontate termina, sempre, con una perdita. Perché?
La scelta è quella di narrare da punti di vista obliqui, stranianti, lontani dalla storiografia ufficiale. Così capita spesso di dare voce a quelli che la storia definisce “i vinti”. A volte però le sconfitte sono tali solo in apparenza, solo se si guarda lo scenario da una prospettiva angusta. La necessità di ripartire dopo uno scacco avvia comunque un processo di crescita, di evoluzione. In Altai volevamo superare una visione della storia tutta ripiegata sull’avvenimento bellico, sullo scontro. La maggior parte degli storici sono maschi occidentali, se non altro per formazione culturale, così si tende a vedere i concetti di “vittoria” e “sconfitta” con occhiali in qualche modo machisti.
In Altai, il potere dei libri va a sovrapporsi con un altro sogno: quello di Nasi che pensa di poter creare un mondo nuovo. La narrazione è una delle vie maestre per riuscirci?
E’ impossibile costruire un mondo diverso se non si è in grado di raccontarlo. Si potrebbe dire che la forza della parola scritta e quella della tecnica sono gli estremi tra i quali si dibatte il protagonista di Altai. E’ grazie ai libri che riscopre ciò che aveva rimosso, la propria storia, il proprio dolore, il senso di fare parte di una comunità in cammino. Perché le narrazioni ci accompagnano sempre, dovunque andiamo, le incontriamo a ogni crocevia e sono il carburante che ci consente di proseguire, di non fermarci e morire. Finché ci sarà qualcuno disposto a raccontare, a raccogliere le storie lungo la via per condividerle con altri viaggiatori, nessuna sconfitta sarà mai definitiva.
Chi è in caccia di etichette potrebbe forse dire che Altai è un romanzo storico, dove i personaggi, tranne pochissimi, sono realmente esistiti. A me sembra anche il romanzo dell’amarezza per un’utopia sgretolata. E’ così?
E’ vero, il romanzo è pervaso di amarezza e malinconia, è attraversato da un senso di perdita, in dalle prime pagine. E’ solo una sfumatura, per quanto importante, dello spettro emozionale che abbiamo cercato di aprire e dispiegare nelle pagine di Altai. E’ il romanzo in cui abbiamo esplorato più da vicino il rapporto tra storia personale e vita pubblica, scelta politica, prospettiva etica. E’ il primo lavoro in cui il protagonista parla diffusamente della propria infanzia. Questa indagine è solo embrionale nei nostri lavori precedenti, qui forse siamo riusciti a portare la tematica su un altro livello di consapevolezza. E’ come se il collettivo, ora, cercasse risposte (o domande giuste) sul rapporto tra personale e pubblico, tra vita e produzione artistica e intellettuale.
Colpisce, anche rispetto a Manituana, la complessità e profondità dei personaggi femminili di Altai. Colpisce il modo in cui il mondo femminile bussa alla porta del maschile senza che ci sia comprensione reciproca. C’è, per la prima volta nei vostri libri, il desiderio e c’è il sesso. Ma i due universi, i due sogni non restano, infine, separati?
Forse leggendo in sequenza i nostri libri si nota: in noi si fa strada una crescente attenzione per i personaggi femminili, per come mettono alla prova le certezze maschili. Ci interroghiamo su come “femminilizzare” gli sguardi, i punti di vista. Proviamo a stare alla larga dai clichés, e non è facile. Sì, in Altai i sogni restano separati, in mezzo c’è un muro fatto di domande sbagliate, e questa separazione è il vero problema, è il dramma. Gli uomini non possono fare alcuna rivoluzione se non la fanno insieme alle donne. Nessun progetto sensato può rinunciare a oltre metà dell’intelligenza e sensibilità disponibile sotto il cielo. Gli uomini si trovano dunque a combattere contro se stessi, contro la propria stolidità e tracotanza. E’ una battaglia durissima, nessuno può farsi illusioni.
Bella intervista. Solo una domanda: ma quando i letterati parlano della “storiografia ufficiale”, non sarebbe il caso di sondare se sanno ciò di cui parlano? Cicero pro domo sua, tuttavia mi sembra che i nostri più che alla storiografia pensano al manuale del liceo. Dopo quello, un saggio storiografico non l’hanno più visto. Figuriamoci letto. Perché, così, senza pensarci troppo, uno storico medio potrebbe stendere una bibliografia di una cinquantina di volumi sull’argomento che si sono scelti i nostri. E tutti scritti consultando le fonti dei cosiddetti altri. Se poi uno è allergico alla saggistica non è che può mettere in croce la categoria degli storici, diciamo che è un problema suo.
@Barbara:”tuttavia mi sembra che i nostri più che alla storiografia pensano al manuale del liceo. Dopo quello, un saggio storiografico non l’hanno più visto. Figuriamoci letto. Perché, così, senza pensarci troppo, uno storico medio potrebbe stendere una bibliografia di una cinquantina di volumi sull’argomento che si sono scelti i nostri. E tutti scritti consultando le fonti dei cosiddetti altri. Se poi uno è allergico alla saggistica non è che può mettere in croce la categoria degli storici…”
Barbara io credo che tu stia parlando davvero a sproposito. Un esempio: per scrivere “Stella del mattino” Wu Ming 4 ha studiato per ANNI la figura di Lawrence d’Arabia su decine e decine di libri (parlo di saggistica storica specializzata, ad altissimo livello) molti dei quali in lingua inglese e in più ha visitato molti dei luoghi in cui T.E.L. ha vissuto.
E questo è da sempre stato il modus operandi di tutto il collettivo!!
Dimenticavo, alla tua frase “tuttavia mi sembra che i nostri più che alla storiografia pensano al manuale del liceo. Dopo quello, un saggio storiografico non l’hanno più visto” mi piace rispondere in modo molto semplice: uno dei Wu Ming è pure laureato in storia contemporanea!!!
Anna Luisa a me Wi Ming me so pure simpatici. Basta però con sta storia della storiografia ufficiale cinica e bara che tiene nascoste le informazioni chiave. Non è che esiste una storiografia informale e sotterranea. Esistono scuole storiografiche, storici, scuole di pensiero mica conventicole segrete. Saranno pure laureati e addottorati ma de metodo storico non capiscono una ceppa! Bravi – de gustibus – scrittori e fine. La storiografia è un’altra cosa.
Chi è Wu Ming?
Barbara per definizione la storiografia “ufficiale” è quella che si studia nelle scuole.
Dall’intervista non si evince che non vi siano stati storici che abbiano affrontato in altre luci le vicende umane. O quelle specifiche di “Altai”.
I Wu Ming hanno studiato, e pure tanto. Il problema è come lo hanno fatto e come hanno rielaborato il messaggio dei loro “maestri”. Mi spiego: la loro visione della storia non è per niente “sotterranea”: quanto dicono è già stato detto e ripetuto migliaia di volte negli ultimi trent’anni. Chi ha proposto per la prima volta una visione della storia dalla parte dei vinti, ha scardinato certo un modo di fare storia – ma questo è avvenuto decenni fa! Oggi quel pensiero, un tempo sovversivo, è diventato istituzionale (e chiunque abbia frequentato una facoltà umanistica negli ultimi dieci anni lo sa benissimo). Ecco perché trovo quest’intervista (e le idee di storia e letteratura che vi sono dichiarate) bolsa, noiosa e molto poco interessante.
Forse prima bisognerebbe leggere il romanzo, no?
Io sono solo a pagina 140 del libro e per ora ho registrato un continuo ribaltamento di prospettive, un brulichio di angoli di visuale. Mi pare un approccio troppo schematico e angusto quello di ridurre tutto quanto a “una visione della storia dalla parte dei vinti”.
Comunque attendo di arrivare alla fine del romanzo…
Scusate io non parlavo del romanzo. Gli scrittori fan quel che vogliono: sono liberi come l’aria, possono inventare universi paralleli e mondi sconosciuti. Ma quando rilasciano interviste e parlano di storia diventano comuni mortali. E la parte dell’intervista relativa alla storiografia è, a mio modestissimo avviso, una solenne sciocchezza.
No, io non lo leggerò Altai.
Scusa, Anna Luisa: a che cosa serve quest’intervista? A promuovere il libro, a suscitare interesse e curiosità nei potenziali lettori (e non c’è niente di male, anzi: intervistatrice e intervistati non restano in superficie, ma discutono a fondo del libro, dell’idea – ideologia? – di letteratura che c’è sotto e di un mucchio di altre cose – non solo la storia vista dai vinti, lo so -, certo, da parte dell’intervistatrice non c’è una domanda provocatoria, una messa in dubbio, una domanda ficcante, ma poco importa): ecco, io, potenziale acquirente/lettore non sono stato minimamente catturato, affascinato ecc. da quanto detto. Aggiungo, peraltro, che ho già letto in passato parecchie opere di Wu Ming, senza rimanerne incantato, ma anzi, formandomi quell’idea che ho esposto sopra e che trovo confermata dalle parole degli autori in quest’ultima intervista.
mah, sul fatto che la storia “dalla parte dei vinti” sia ormai istituzionalizzata avrei i miei seri dubbi, e invito a dare un’occhiata a uno qualunque dei programmi d’esame dei corsi di storia. Il nocciolo vero è che c’è stato un generale e istutizionalizzato fallimento dell’insegnamento della storia. Allora il mio problema è quanto un testo letterario riesca a veicolare anche – sottolineo anche, nel senso di non esclusivamente – una consapevolezza storica, uscendo fuori dai canoni della comunicazione storiografica accademica che – diciamocelo – ha uno status scientifico ma ammazza di noia. Con la conseguenza a mio avviso parecchio grave di allontanare anche i volenterosi dalla storia. In alcuni casi la letteratura riesce laddove la storiografia – quella che dovrebbe formare una visione condivisa di un passato comune – fallisce. non so se questo sia il caso di Altai, ma in altri romanzi del collettivo il tentativo c’è e mi pare riuscito.
“Siam concordi, serrati a una lega”, diceva il tizio. Ed ecco l’immancabile pistolotto della squaw lipperina ai bononian indians. Tutto si può dire, tranne che il gruppo non sia coeso.
Benedetti coloro che siedonsi su Frau Nicola, eretico dolciniano. Andiamo avanti così, facciamoci del mare d’ignoranza.
Dunque, tutto ciò a me fa molto ridere.
Per la prima volta decido di commentare su un blog, espongo le mie idee (mi pare pacatamente), mi firmo con nome e cognome e poi arriva uno che, per darsi un tono da intellettuale si firma Ekerot (ciccio, anche a me paice Bergman e anch’io, quand’ero piccino, mi trastullavo con un’iconografia mortifera à la Bataille, ma poi si cresce, eh…) e che non so manco chi sia e, poiché non mi straccio le vesti in segno di giubilo per l’ennesimo capolavoro dei cinque (che comunque, pur non apprezzandoli, rispetto), sostanzialmente dice che non esisto.
Tu senti puzza di troll. Io di merda.
E adesso buon divertimento, ché litigare attraverso una tastiera è grottesco.
Dire che noi raccontiamo la storia dal punto di vista dei vinti e’ certamente, come faceva notare Anna Luisa, una cruda banalizzazione, e infatti nell’intervista diciamo altro: parliamo di sfuggita del nostro ricorso a punti di vista stranianti, e diciamo che questo ricorso porta “spesso” (non sempre) a raccontare dal punto di vista degli sconfitti. Ma non sempre, nei nostri romanzi, gli sconfitti sono *la parte* sconfitta in una guerra. Raccontiamo molto piu’ spesso di sconfitte individuali, ottenute non sul campo ma sul piano esistenziale, come appunto capita al Lawrence d’Arabia di Stella del mattino (vincitore trionfale sul campo ed eroe di guerra, sconfitto su tutt’altro piano).
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Nel caso di Altai – dicendolo non rovino la lettura a nessuno – noi raccontiamo Famagosta dal punto di vista dei vincitori, e andrebbe anche ricordato che, a dispetto di quel che racconta la vulgata storica – Lepanto non fu per nulla una battaglia decisiva, non rappresento’ la sconfitta dell’impero ottomano, che non solo si tenne Cipro, ma nel giro di pochi mesi ricostrui’ completamente la flotta e continuo’ a dominare il Mediterraneo orientale.
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La storiografia “dal basso” affermatasi nel Novecento, la “microstoria”, la storia orale, les Annales, oltre ovviamente alla storiografia di ispirazione piu’ marxiana, tutto questo non e’ il nostro punto di approdo, ma il nostro punto di imbarco, partiamo da li’ e lo abbiamo sempre riconosciuto, noi siamo narratori sulle spalle di giganti storiografici. Non c’e’ quasi stata intervista su Q in cui non abbiamo nominato Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi. Ignoriamo talmente tanto le acquisizioni della storiografia contemporanea da aver definito Prosperi “un quinto autore di Q”, oltre ad aver presentato il romanzo insieme a lui in una libreria pisana, nel 1999. E l’altro giorno e’ stato ancora Prosperi a recensire il romanzo su Repubblica.
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Nello spazio di un’intervista su un settimanale e’ difficile approfondire, bisogna essere rapidi e stringati, e “fare a capirsi”. Questa non fa eccezione, tuttavia nel commentarla si sta proprio prendendo una cantonata, mi spiace dover farlo notare. Abbiamo accennato a punti di vista “lontani dalla storiografia ufficiale”, laddove “ufficiale” e’ un aggettivo connotato negativamente, che nessuno storico serio rivendicherebbe per se’, mai e poi mai.
E’ evidente che qui “storiografia ufficiale” significa storiografia burocratizzata e ministeriale (c’e’ dentro la parola “ufficio”, con l’idea di una registrazione del gia’ acquisito, senza un ulteriore interrogarsi), ma soprattutto significa storiografia *con l’elmetto*, dove lo storico, o meglio il divulgatore (vedi svariati libri-spazzatura su Lepanto) e’ il “colonnello” di un esercito che presidia un territorio conosciuto, non il guerrigliero che con pazienza e sacrificio mina le certezze gia’ accumulate.
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Dopodiche’, Paola Signorino ha ragione. Dire che nella storiografia mainstream il punto di vista dei vinti sia gia’ pacificamente acquisito e’ come minimo un azzardo. Per scrivere Manituana leggemmo decine e decine di libri di storici della rivoluzione americana che stanno radicalmente mettendo in questione il mito delle origini, e ci siamo accorti che la stragrande maggioranza dei titoli che ordinavamo era stata pubblicata dopo il 2003. Non che anche prima non esistessero opere e storici di valore (Howard Zinn con la sua storia dal basso della rivoluzione, o il decano Francis Jennings). Ma anche l’opera piu’ importante, l’opera capitale di Jennings e’ appena del 2000, e le opere di Zinn hanno avuto il loro massimo impatto dopo l’11 Settembre. La battaglia, insomma, infuria ancora. Anzi, nel caso del ruolo degli indiani e dei neri nella rivoluzione americana, e di quest’ultima vista dal campo comodamente definito “lealista”, la battaglia e’ appena iniziata.
Il punto di vista degli sconfitti, dei rimossi, dei dimenticati non puo’ mai essere dato per gia’ definitivamente acquisito, mai, perche’ l’oblio e’ una forza dinamica, continua ad avanzare, e la propaganda dei poteri costituiti che usano la storia pro domo loro e’ incessante.
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Ad ogni modo, per ampliare quanto dicevo all’inizio: non sempre “gli sconfitti” sono gli sconfitti. La guerra del Vietnam fu vinta dai vietnamiti, ma il punto di vista che ci viene ossessivamente riproposto (anche nella pubblicistica che critica la guerra con asprezza) e’ sempre quello degli USA, invariabilmente. Quanti libri o film dal punto di vista dei Vietcong avete letto o visto, negli ultimi trent’anni? Gli sconfitti sul campo sono i vincitori nella guerra della memoria pubblica, e i vincitori sul campo sono i veri rimossi. Insomma, le cose non sono tanto semplici. Ma non sara’ un’intervista su un settimanale a gettare su questa complessita’ tutta la luce necessaria.
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Dimenticavo: saluti a tutti da New York, sono qui per presentare Manituana, e’ una bella mattinata e ora esco a far du’ passi. Ciao.
Sì, ho tolto alcuni commenti. Pronta ad ospitarli di nuovo se i termini vengono moderati. Altai può piacere o non piacere, l’intervista può piacere o non piacere. Ma andare avanti a suon di “puzza di merda” “nessuna traccia di letteratura” (perchè? Vorrei i motivi), “permalosi” non mi interessa. Nè sotto questo post. Nè sotto altri.
Quindi, se qualcuno di lorsignori intende esporre critiche in modo articolato, ben venga. Altrimenti, per regolare vecchi conti nei confronti della sottoscritta o dei Wu Ming, la rete abbonda di blog. Accomodarsi.
Barbara, l’impermalimento dove lo vedi? Piu’ rilassato e conciliante di cosi’… Riscontro degli equivoci, cerco di scioglierli. Vengo chiamato in causa, in modo anche brusco, e allora mi sforzo di chiarire. E’ una filosofia di apertura e buona volonta’.
Altai per me, per noi, e’ una cosa davvero molto importante e sentita, e’ un pezzo sanguinante di vita. Se nel parlarne in un’intervista abbiamo dato adito a fraintendimenti, il minimo che posso fare e’ discuterne.
Se pero’ la cosa infastidisce, ne deduco che lo scopo non era capire qualcosa insieme a me e tutti noi, bensi’ fare polemica preconcetta. Spero non fosse questo il caso, anzi: facciamo in modo che non sia questo il caso, ok? Relax, don’t do it, when you want to go to it / Relax, don’t do it, when you want to come…
Vado allo Strand. Ciao di nuovo.
Non faccio in tempo a premere “invia il commento” che il commento a cui rispondevo e’ scomparso! Vabbe’, si diceva con una certa acredina che siamo permalosi 🙂 Relax tutti, ma proprio tutti. Corro via.
http://lapeperini.wordpress.com/2009/11/20/puzza-di-merda-in-lipperatura/
Non faccio in tempo a prendere il caffé e a rispondere a Nicola F. che metà degli argomenti con cui volevo intervenire sono stati esposti da Wu ming 1.
Ecchecazzo 😉
P.S.
Nicola, appena ho un attimo ti rispondo.
Gentilii Wu Ming e Lupperini,
mi scuso se ho usato toni poco consoni al blog, anche se permalosi non mi sembra esattamente un insulto sanguinoso. Io non ho alcun conto in sospeso da regolare né con lei né con Win Ming 1, 2, 3 e 4. Il blog è suo e cancelli pure ciò che crede inopportuno. Mi sembra di capire che qualunque critica avanzata all’intervista o ai contenuti della stessa sia considerata – de facto – una provocazione.
Mah, io un pochino Barbara la capisco. Anche pensando ai commenti lasciati da un Wuming – prob 1 – altrove. Sento spesso un atteggiamento verso i contesti accademici condito da un’ostilità che avverto come preconcetta. Sono convinta che per scrivere questo e altri lavori ci sia una seria ricerca dietro. Ma anche io spesso avverto nelle loro dichiarazioni un’idea stereotipizzata della storiografia, e delle ricerche in contesti accademici. Con questi ricercatori che corrispondo solo al tipo umano del vecchio barone fuori dal tempo concentrato sul De Santis e La Secchia Rapita. Si questo lo avverto spesso e lo trovo fuorviante. Poi sul libro non mi pronuncio – perchè non l’ho letto. Faccio comunque un in bocca al lupo agli autori.
Mi permetto:: una volta sono andato a una presentazione dei wuminghi. Uno dal pubblico gli ha chiesto: cosa ne pensate degli storici? Verranno sostituiti dai romanzieri storici? E uno dei wm rispose: no questa è una cazzata gigante. Senza gli storici, i romanzieri storici non sono niente. loo lavorano sulle fonti, noi lavoriamo sul loro lavoro.
@ Zauberei:”Sento spesso un atteggiamento verso i contesti accademici condito da un’ostilità che avverto come preconcetta. Sono convinta che per scrivere questo e altri lavori ci sia una seria ricerca dietro. Ma anche io spesso avverto nelle loro dichiarazioni un’idea stereotipizzata della storiografia, e delle ricerche in contesti accademici.”
Per la “lezione su 300” Wu ming ha utilizzato i libri di Furio Iesi, JP Vernant, G.L. Mosse. Nell’ultimo Giap, Wu Ming ha caldamente consigliato di leggere i libri dello storico Robert Darnton!
@Zaub: anch’io capisco il tuo punto, almeno in parte; però il fastidio verso i contesti accademici ha una sua ragion d’essere. In un paese che ha dato la patente di storico, divulgatore della storia patria, a Indro Montanelli, capirai che forse un problema c’è e chi si occupa di storia forse deve cominciare a preoccuparsi, quanto meno a tentare di superare il perimetro dell’accademia. il fastidio che invece viene manifestato sembra essere quello della professionalità offesa se qualcuno – che storico non è – tenta di utilizzare le acquisizioni della ricerca. Ora, tanto per restare sul tema, se io ho di fronte una classe di studenti matricole universitarie globalmente convinta che dal 1945 ad oggi il Partito Comunista Italiano abbia governato ininterrottamente, ecco, forse un romanzo come 54 – non solo quello, non solo un romanzo, non solo un manuale, non solo i film, ma l’insieme di tutti questi strumenti – forse mi aiuta a rendere l’idea di cosa sia stata l’Italia degli anni cinquanta. E non sto dicendo che questo deve essere il ruolo della letteratura, o dello scrittore o altro: semplicemente riconosco anche ad altre figure “intellettuali” – che onestamente usano gli strumenti del proprio lavoro – la capacità di costruire un orizzonte, un’ipotesi di passato. Dire “questi di storiografia non capiscono una cippa”, mi pare un modo per sottolineare l’intangibilità e la sacralità dello storico – la storiografia italiana, poi.. ma vabbeh su quello vado decisamente OT
Signora Lipperini (preferirei, con rispetto, definirla signora intolleranza), Lei che s’appella alle argomentazioni, senza, spesso, darle, ma di certo di professione fa la critica letteraria, valuti con disincanto alcuni stralci di Altai che di seguito riporto: “Le gambe iniziarono a correre, mentre sulle città colava un velo grigio. Colava sulla folla che sosteneva a gomitate…” “Colava sui corpi stesi a terra, simili a cadaveri ma nient’affatto morti perchè i morti furono soltanto una ventina…”Seme uscito in fretta e furia, giusto il tempo di abbassarmi i calzoni. Seme che si era liberato senza aspettarmi”.
Considero, modestissimamente, la scrittura del “collettivo” stanca, debole, abusata, per nulla “scandalosa”. Non vedo in questa narrazione neppure un possibile stile. La mia reazione ad una lettura, senza pregiudizi, è la non reazione. Qualche colore si libera dallo sbiaditissimo tessuto narrativo, solo per l’aspetto storico del volume.
@ Maria Luisa. Nulla da dire sul fatto che la Lipperini censuri chi non la pensa come lei e lo taccia subito di troll?
@ Nicola Frau. Scusa il ritardo nella risposta, nel frattempo, sono stata anticipata proprio sul tema “Vietnam raccontato dagli americani (gli sconfitti)” con cui avevo intenzione di tornare a parlare con te – partendo dal romanzo “Asce di guerra”- a proposito di “punto di vista degli sconfitti”; anche in quel vecchio libro di WM i confini nel rapporto vincitori/vinti sono sempre sfumati. Il protagonista, in teoria, dovrebbe essere un vincitore avendo preso parte alle lotte che hanno permesso la decolonizzazione di Cambogia/Laos etc… eppure, considerato il tipo di esistenza che ha vissuto, io non riesco a definirlo “un vincitore”. Non solo, il tracciato storico esplorato in quel libro confluirà poi nel conflitto vietnamita e qui ti rimando a ciò che sul Vietnam è stato scritto in precedenza da Wu Ming 1. Insomma, in tutta la produzione del collettivo a me pare che “lo sguardo”sia molteplice, articolato, incline a slittamenti inusuali, refrattario alla linearità.
Detto questo, se mi dici di aver letto svariate opere dell’autore multiplo senza rimanerne incantato, beh… è del tutto legittimo da parte tua non comprare Altai, ci mancherebbe!
A me premeva solo rilevare, al contrario di ciò che è stato fatto nei primi interventi, un’esplicita complessità nell’approccio storiografico da parte dei 4 scrittori, che spesso mi ha lasciata con un sacco di domande a cui non sono riuscita a dare risposte (il mio giudizio sulla figura di Lawrence d’Arabia per es. è rimasto, sotto certi aspetti, sospeso) anche a fine lettura.
Dinosauro, ma dove i Wu Ming definiscono “scandalosa” la loro scrittura?
Bah… Devo ammettere che una volta mi stupivo dell’astio preconcetto con cui alcuni accolgono qualunque nostra mossa e parola; oggi non piu’: lo includo, a priori e serenamente, tra le “condizioni atmosferiche” in cui mi trovero’ a lavorare.
Capisco bene che qualcuno voglia usare la tattica del riportare virgolettati a scopo di irrisione (tattica prevedibile ma che funziona *sempre*, con qualunque frase da qualunque libro di qualunque autore perche’, una volta estrapolata dal ritmo e dal respiro della pagina, qualunque frase puo’ essere “incorniciata” come ridicola), ma almeno non inventatevele, le frasi. Riportatele cosi’ come sono, pregasi di non virgolettare frasi fittizie, inventate da voi.
Certo, mi rendo conto che per riportare una frase testualmente e’ necessario avere a disposizione il testo, non basta aver orecchiato male l’mp3 del reading di una stesura provvisoria (“calava” che viene inteso come “colava”; “scostavo” che, ascoltato male, si trasforma in “sosteneva” etc.), pero’ insomma, un minimo di decenza: oggi il libro esiste, lo si legga e lo si giudichi, ma senza simulazioni o piccole truffe come questa. Se invece non lo si vuole leggere, si eviti anche di giudicarlo, e staremo bene tutti quanti.
Quanto invece alla decrepita impostazione del problema “e’ o non e’ letteratura”, ho gia’ detto la mia qui al punto 1 (“FALLACIA DEL ‘NON E’ LETTERATURA'”).
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Per la cronaca, ecco la vera versione del passaggio falsificato sopra:
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“Nelle ore e nei giorni seguenti, avrei udito mille storie intorno a quella notte, e in ciascuna volava un oggetto diverso. Tronchi di rovere scendevano in picchiata, macine da salnitro, secchi di pece, cadaveri arrostiti di uomini e cavalli, poi draghi, comete, esplosioni di stelle, la Madonna e Lucifero, Cristo crocifisso e Cristo risorto.
Dovevo raggiungere l’Arsenale, radunare i miei uomini, fermare e interrogare quanta più gente possibile. Le gambe iniziarono a correre, mentre sulla città calava un velo grigio. Calava sulla folla che scostavo a gomitate, calava sui feriti e li mutava in statue. Calava sui brentatori che accorrevano con tini da vino e sui vecchi ammutoliti dagli scheletri delle case. Calava sui canali di Castello, tanto ingombri di cenere e macerie che l’acqua sembrava di pietra. Calava sui corpi stesi a terra, simili a cadaveri ma nient’affatto morti, perché
i morti furono soltanto una ventina, e gli altri erano solo incapaci di rialzarsi, per paura che il cielo cadesse loro in testa.”
Barbara, per quanto mi riguarda, io considero utile la tua “entrata a gamba tesa”, perche’ ha dato modo a me e ad altri di chiarire alcune cose. In questo senso, e solo in questo, ritengo la tua critica una “provocazione”, perche’ appunto ha provocato qualcosa. Che problema c’e’? Secondo me, una certa acredine era fuori luogo, certe illazioni su un nostro presunto analfabetismo storiografico erano del tutto gratuite, e in generale la critica era del tutto infondata, come credo lo testimoni tutto il mio/nostro lavoro da 10 anni a questa parte, ma adesso abbiamo un fatto qualche passo oltre il fraintendimento, no? O e’ solo una mia vana speranza?
Bon, esco di nuovo, vado alla presentazione. Ciao.
Di ritorno dalla presentazione di Altai a Siena, la mia opinione: leggere il libro (chi vuole), ma non solo. E’ utile anche una esperienza diretta, e si possono chiarire le cose che non sono entrate nelle interviste, si scambiano opinioni. Gli incontri con autori che privilegiano il parlare direttamente del loro lavoro, senza essere individuati a priori da immagini e fatti personali, è molto diverso, non è affatto una piccola differenza.
@ wuming1 “E’ evidente che qui “storiografia ufficiale” significa storiografia burocratizzata e ministeriale”
Secondo me l’esempio che più calza riguarda la Costituzione Italiana. Ammetto che non avevo capito nulla della Costituzione fino a quando non ho ascoltato in una conferenza Maurizio Viroli, Professore di Teoria Politica all’Università di Princeton, non mi ha raccontato nuove info storiche, ma ha saputo infondere una tale pregnanza di significato a tutto ciò che riguarda gli articoli del “Documento”, ai padri costituenti, alle loro ragioni antifasciste…..
Solo ora riesco a decifrare la pochezza di chi, pensando di difendere i loro valori e le loro tradizioni, calpestano gli articoli della Costituzione.
@Anna Luisa causa influenza ho già finito Altai 🙂
Caro Wu Mung 1 ci terrei a chiarire un paio di punti. Il primo è che non volevo in alcun modo esprimere un giudizio sul libro o sul modo in cui chi fa letteratura usa la storia. Dal mio punto di vista quando uno scrive un romanzo è liberissimo di muovere le pedine come crede. Quella che tu chiami acredine, era ironia ma capisco che posso essermi espressa male. Detto questo, per me che sono storica è abbastanza fastidioso sentir parlare di storia ufficiale contrapposta a una sorta di storia ufficiosa. Nel tuo intervento hai citato Prosperi, gli Annales e altro. Non materiale clandestino. Storia e storiografia ufficiale. Ci sono le scuole, le interpretazioni ma non una contrapposizione tra ufficiale e ufficioso. Tanto per spiegarmi meglio – manuali a parte – non c’è un solo storico che consideri la battaglia di Lepanto come una svolta e una sconfitta epocale per l’impero Ottomano. Quella è un’interpretazione da manuale del liceo o da giornalisti improvvisati. Ci sono degli storici che la considerano epocale per gli occidentali ma questo è un altro discorso. Niente di personale. Vedo che altri interventi usano il termine ufficiale come ministeriale. E questo è tipico, assolutamente tipico, di chi non frequenta la storiografia ma i manuali. Tanto per restare su Prosperi, che io adoro, insegna persino all’Università ed è, in questo senso, del tutto ufficiale, ma è capace di usare il metodo per leggere la storia.
Ho recuperato il post CENSURATO del povero Nicola Frau qui:
http://www.lapeperini.wordpress.com
@ Simone A.
Ma guarda un po’ questa tua influenza con che tempismo si è manifestata ;-))
@Barbara:”Tanto per spiegarmi meglio – manuali a parte – non c’è un solo storico che consideri la battaglia di Lepanto come una svolta e una sconfitta epocale per l’impero Ottomano. Quella è un’interpretazione da manuale del liceo o da giornalisti improvvisati. Ci sono degli storici che la considerano epocale per gli occidentali ma questo è un altro discorso.”
Tanto per spiegarmi meglio?
@Anna Luisa. Questo blog ha ospitato gentilmente alcuni miei interventi – grazie 🙂 ma non trovo opportuno molestare ulteriormente il prossimo mio con la storiografia. Se non hai capito è possibile che io mi sia spiegata con poca chiarezza o che tu non sia al corrente del dibattito sulla battaglia di Lepanto. Scusa, ma questa non è proprio la sede adatta per discuterne. Sarebbe troppo OT e non si deve abusare della cortesia altrui.
Secondo me Dinosauro è WM1.
Sì.
E’ l’unica spiegazione. E’ WM1 talmente perverso che scrive sotto pseudonimo quella castroneria per poter poi smentire e rilanciare.
Sì.
Non può essere che così, anche perché non posso credere per davvero che Dinosauro abbia fatto una tale figura da pirla.
😉
Altai ce l’ho qui, vicino al computer. Me lo sto annusando da un paio di giorni (aspetto a iniziarlo, che poi va a finire che lo leggo tutto senza fermarmi!)
Secondo me Biondillo è troppo lecchino per capire che non si lascia il commento “I smell a troll” per poi censurare la giusta replica di Nicola Trau, scambiato per Luan. Ma quanto è diventata str… scorretta, sta Lippa???
@ Barbara:
qui davvero facciamo a non capirci. Tu scrivi:
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“non c’è un solo storico che consideri la battaglia di Lepanto come una svolta e una sconfitta epocale per l’impero Ottomano. Quella è un’interpretazione da manuale del liceo o da giornalisti improvvisati.”
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Infatti, riferendomi a Lepanto, ho parlato di divulgatori con l’elmetto e di libri-spazzatura. Tra i divulgatori, ovviamente, metto anche alcuni autori di manuali per le scuole (che pero’, certamente nei manuali divulgano, ma sono storici, docenti di storia), benche’ non sia il genere di pubblicistica a cui facevo principalmente riferimento. Mi riferivo di piu’ a gente come Arrigo Petacco, che nei media e’ invariabilmente presentato come uno “storico” e si e’ guadagnato sul campo, presso i “profani”, la patente di storico.
Ma proprio qui casca l’asino, cazzo. Ha ragione Paola Signorino. Se gli storici seri si rendessero conto che agli occhi e alle orecchie della massa la storiografia non e’ affatto quella che intendono loro, ma e’ quella dei Pansa e dei Petacco (e ancora troppo pochi se ne rendono conto); se si interrogassero in modo meno rigido e prevedibile sull’uso storico, politico e propagandistico della storia che viene fatto; se si scomodassero a uscire piu’ spesso dall’accademia e a sperimentare piu’ spesso forme diverse di narrazione storica; ecco, se facessero tutto questo, forse non rimarrebbero ogni volta a bocca aperta e senza argomenti efficaci quando si producono aberrazioni come il paraculo “Il sangue dei vinti” o la demenziale fiction sulle foibe “Il cuore nel pozzo”. Perche’ oggi lo “historikerstreit” e’ quello che si combatte fuori dalle universita’, non dentro. E’ quello che si combatte nei media, in tv, con le fiction, coi libri di merda. Uno che se ne rende conto e cerca di intervenire in modi “ficcanti” e’ ad esempio Sergio Luzzatto. Lo stesso Prosperi, coi suoi articoli, si muove in questo senso. Ma io ricordo una puntata di “Otto e mezzo” in cui Ferrara aveva opposto Pansa a Tranfaglia. Come ando’?
Ando’ che l’abominevole Pansa fu bravissimo: sogghignante, sprezzante, sarcastico, appariva come il ribelle che dice che il Re partigiano e’ senza vestiti, procurando scandalo tra i custodi della falsita’, mentre era lui a servire il sovrano di turno (l’ideologia anti-antifascista) ed era lui a dire un sacco di balle. Di contro, Tranfaglia era lento, bolso, sempre preso in contropiede, pareva quasi sonnecchiare. “Il sangue dei vinti” era appena uscito e gli storici lo stavano prendendo sotto gamba. Poi si e’ visto che pernicioso nuovo “senso comune” quel best-seller abbia contributo a imporre, e oggi c’e’ quasi da ricominciare da zero, per poter ancora parlare in modo sensato dell’immediato dopoguerra italiano.
Quando la storiografia vera si porra’ in modo efficace il problema di come *agire* contro questa egemonia della pseudo-storiografia *ufficiale* (cioe’ di regime, intruppata, militaresca, da blitzkrieg)?
Se si continua a reagire d’impulso e in modo corporativo e conservatore ogni volta che si solleva il problema, la risposta non puo’ che essere: mai.
Riporto qui, perche’ concordo al 100%, la riflessione che faceva Prosperi l’altro giorno sul rapporto tra storico e romanziere:
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“Chi legge un romanzo storico va in cerca di una verità diversa da quella che si aspetta da un libro di storia. Il romanziere riporta i morti a una vita fittizia, fatta di esperienze e di sentimenti in atto, ancora aperti al mutamento: e li deve però comporre entro un passato storico noto e già compiuto. Si apre così un gioco tra la vita che non conosce ciò che accadrà e i destini individuali e collettivi come disegno ormai svelato dal tempo. Lo storico ha modi e mezzi diversi, non conciliabili con quelli del romanziere, come Alessandro Manzoni finì col riconoscere: gli è vietata l’invenzione. Il che non gli impedisce però di percorrere insieme al romanziere un tratto di strada comune: quello del tentativo di capire, di farsi uomo d’altri tempi, di compiere un viaggio nel regno dei morti. La vita reinventata dal romanziere gli può far scoprire la povertà delle domande che pone alle sue fonti.
I protagonisti di Altai si spostano continuamente in un Mediterraneo più complicato e più crudele di quello che Fernand Braudel provò a raccontare in un libro un tempo celebre – un libro dopotutto molto francese e molto europeo. Quei calendari diversi che ritmano i capitoli del romanzo, quelle lingue franche dei dialoghi – l’italiano e lo spagnolo, il veneziano, il turco, il «giudesmo» – sono un buon reagente per il vizio dell’etnocentrismo. C’è voluta una paziente ricerca per rendere gli autori capaci di immaginare e raccontare la prodigiosa ricchezza di differenze di quel mondo mediterraneo. Ma c’è voluta la violenza religiosa e razziale dei tempi nostri per portarli ad affrontare coi loro mezzi una questione chiave di quel mondo e del nostro: gli ebrei, la loro identità in un mondo diviso tra cristiani e mussulmani.”
1. Gli “storici di professione” che producono una storiografia ideologicamente al servizio del potere: non è necessario che siano consapevoli di farlo. Basta che siano accademici, o convenzionali, o conservatori nel metodo, nel confronto, nel lavoro sulle fonti. De Felice era uno storico coi fiocchi, ma non esercitava l’arte del sospetto verso i documenti “ufficiali”, e questo metodo è passato ai suoi eredi – Sabatucci, per dirne uno: che è nondimeno uno storico attento, anche come autore di manuali. Ma anche Mieli, che è un dilettante e un divulgatore, a voler essere buoni.
2. Gli storici “con l’elmetto” e i loro “libri-spazzatura”: no solo Pansa, Petacco, Mieli. Anche, e soprattutto, quelli che non si presentano come storici, ma infilano i nomi sopra elencati come fonti storiche in luoghi insospettabili, dove in genere gli storici non vanno a guardare. Mario Giordano, ad esempio: cosa c’entra con la storia il suo libro-spazzatura sulla scuola? Niente. Ma andate a vedere le pagine che partono da L’Agnese va a morire (“la storia di un’eroina di nome Agnese che gloriosamente va in giro a spaccare la testa altrui”, p. 145) assegnata in lettura a suo figlio e, dopo aver esposto una visione della resistenza mutuata da Veneziani, chiede che Pansa venga adottato come libro di lettura nelle scuole. Queste nozioni di storia, proprio perché sottotraccia e al di sotto dei filtri critici, resteranno impigliate nei gangli mnemonici dei lettori. Anche se nelle biblioteche i libri di Claudio Pavone non mancano.
3. I non storici che creano false nozioni storiche: ad esempio, gli ospiti dei talk-show come “Porta a porta”. Nessuno, ad esempio, che abbia contestato a La Russa (ministro della difesa, mica caposezione in piazza San Babila) l’affermazione che i soldati italiani preferirono i campi di prigionia tedeschi all’arruolamento nella RSI perché quelli non erano certo campi di concentramento, e i rischi erano minori che tornare a combattere in Italia. Nessuno che si sia ricordato delle pagine di Mario Rigoni Stern sulla prigionia in Germania, per dire.
Quando si va a toccare il campo della storia, partendo dalle fonti e dal loro trattamento per arrivare alla divulgazione e al gossip storico, questo è il campo problematico con cui si ha a che fare. I romanzi storici dei Wu Ming (come molti narratori di storia, e non solo dell’ultima generazione) hanno il merito di toccare tutti i punti di questo campo.
Dimenticavo, al punto 1.: quanti storici dei rapporti tra Oriente e Occidente fanno proprie le considerazioni e il metodo delle pagine di Lévi-Strauss sull’Islam in Tristi tropici? Si dirà: ma Lévi-Strauss è un antropologo, non uno storico. Giusto: proprio per questo, quanto sfuggono alla pigrizia mentale e accettano di farsi contaminare da un metodo appartnente a una diversa disciplina?
Ariosto avrebbe voluto conoscere Wu Ming. Non ho ancora letto Altai -lo farò, perché m’interessa- ma vorrei insistere sul fatto che letteratura e storia non sono né due universi separati né un’unità indissolubile. S’interrogano a vicenda, in un gioco di specchi che impedisce distinguo troppo rassicuranti e identificazioni troppo facili. E’ il solito nodo del realismo: la letteratura che si appiattisce sulla realtà perde letterarietà (cioè rinuncia al piano estetico, che è anche filosofico, nella stretta tra forma e conoscenza che è lo specifico del discorso letterario), mentre la letteratura che rinuncia a priori alla realtà perde verosimiglianza, o credibilità, o validità. Il discorso è complicatissimo, come tutti sapete, ne hanno parlato persone ben più autorevoli, da Aristotele fino a Jameson, ma a me sembra un grandissimo merito dei WM quello di aver riportato al centro della discussione letteraria il problema del rapporto tra storia e letteratura, con tutte le domande che esso comporta (realismo, appunto, ma anche conoscenza, forma, linguaggio, fiction, tragicità della storia, rapporto tra vincitori e vinti, ecc.). La funzione pubblica del discorso letterario, soprattutto in Italia, secondo me, si è alternata tra la costruzione della retorica nazionale (unità patriottica o impegno civile dello scrittore, celebrazione della tradizione o poeta vate) e l’individuazione di punti di vista alternativi, una funzione critica (è vero quello che viene raccontato? se sì, perché è diverso da altri racconti? se no, perché leggere questa menzogna? è realistico e storico o immaginario e fantastico? come viene raccontato implica un punto di vista che orienta il lettore? chi racconta è fazioso? ecc.). Funzione istituzionale e funzione critica sono inesorabilmente in contraddizione, antagoniste, irriducibili. A me sembra che dopo decenni di funzione istituzionale i WM abbiano con forza (non da soli, certo) posto il problema di tornare alla funzione critica della letteratura. In più, hanno finalmente interrogato, come non si faceva almeno dal 1963, cioè da 45 anni, i problemi del rapporto tra scrittore e scrittura (con lo pseudonimo, la scrittura collettiva, il copyleft, ecc.), tra pratica e poetica (col NIE), tra tradizione e invenzione (con l’uso non della storia recente, ancora immersa nell’opinione, ma di quella depositata sui libri e ricostruita sui documenti). Ci fanno di nuovo riflettere sull’identità nazionale, parlando di vinti (sulla linea Verga-Tomasi), di senso della memoria (su una linea Manzoni-Levi), di racconto di storie con personaggi, voci, linguaggi (senza linea). Dopo il trionfo di forme ripiegate su se stesse, che pretendono di essere depositarie della verità in quanto irraggiungibili, e nel tempo dei racconti sulle proprie pance ingravidate, sui propri viaggi in treno e sulle proprie erezioni permanenti, i romanzi dei WM aprono finalmente uno spazio, letterario, che merita discussione e confronto. Ariostescamente, cioè nel nome dell’ironia, dello spostamento dello sguardo e della contraddittorietà delle opinioni.
Faccio una domanda a Wu Ming 1 che esula dal dibattito: se Altai è “in continuity” con Q, è necessario leggere prima quest’ultimo per capire il primo oppure si possono leggere entrambi separatamente?
Credo di adorare sempre di più il commentatore Girolamo.
PREMESSA O.T. Quando cerco di entrare in questo blog (solo in questo blog) con Mozilla, mi appare una scritta IT WORKS! (che? sono stata bannata?!)
Internet explorer, invece, a causa di qualche componente aggiuntivo – mi hanno detto – è diventato del tutto instabile e inaffidabile, per cui tra qualche minuto mi pianterà in asso.
Il tempo solo di dire: d’accordissimo con Stefano Jossa e Girolamo, pure con Wu Ming1, tranne che per un punto.
Il punto è questo: non credo che gli storici ignorino il problema, sia dal punto di vista del linguaggio da usare che degli spazi a disposizione.
Sul linguaggio ci devono lavorare loro, sicuramente. Ma riguardo agli spazi? Perchè è vero, come dice Girolamo che ragion critica e ragione istituzionale confliggono da sempre, ma in questi tempi probabilmente ancora di più, e allora gli spazi per gli storici, fuori delle accademie (e forse pure dentro, non lo so: come siamo messi a cattedre?) non è che abbondino.
Di questi argomenti si è parlato spesso a Fharenheit (spero non ci sia conflitto di interesse a citarla), rimando a due puntate di cui non metto il link per non essere spammata oltre che bannata: Chi può scrivere la storia? e La storia secondo me (si trovano facilmente nell’archivio delle puntate, digitando il titolo).
E, sempre a testimonianza di quanto gli storici abbiano presente il problema, cito due titoli abbastanza recenti: Vuoti di memoria di Stefano Pivato (Laterza) e La storia negata a cura di Angelo del Boca (Bloom), oltre a tutti gli altri libri di Del Boca sul colonialismo italiano. Solo per fare degli esempi, ma ce ne sono altri.
Io sono davvero convinta che questo ritorno alla storia da parte degli scrittori sia un modo per opporsi alla deriva degenerativa della ‘storia fai da te’, e Prosperi mi pare che lo dica molto bene.
E dunqeu preferisco chiudere qui, prima di essere chiusa.
ah, Altai non l’ho ancora letto, se mi piace o no aspetto a dirlo a fine lettura.
Un comportamento eccentrico, a quanto pare, ma non sono tanto brava per fare altrimenti.
@ The Daxman, al volo: non credo sia strettamente necessario leggere prima Q, penso che Altai stia in piedi da solo, ma certo chi ha letto Q cogliera’ molti riferimenti che agli altri sfuggiranno.
@ Valeria: viva la tua “eccentricita’” 🙂
@barbara: “Quella è un’interpretazione da manuale del liceo.”
Di grazia: e chi scriverebbe le interpretazioni nei manuali da liceo se non storici?
Ho recuperato la risposta di Nicola Trau alle baggianate di Ekerot e Lipperini sui troll (= chiunque non adori Wu Ming), e berlusconianamente CENSURATA dalla sempre più nevrotica titolare di questo blog, qui:
http://www.lapeperini.wordpress.com