Questa mattina, senza alcun motivo preciso, mi sono ricordata di estati lontane, estati dei miei venticinque anni o giù di lì, quando andavo in vacanza con Isabella a bordo di una vecchia 126 rossa, una tenda canadese nel bagagliaio e molti vestitini di garza negli zaini. Montavamo la tenda in un campeggio al lido del Cavallino, a Jesolo, e da là prendevamo la motonave per Venezia, tutte le mattine e tutte le sere. Una volta l’equipaggio galante ci fece guidare la motonave. Un’altra volta un restauratore che lavorava a San Marco, altrettanto galante, ci ospitò in una notte di tempesta, a motonave ferma, in un’incredibile casa sott’acqua, con gli oblò invece delle finestre. Quasi tutti i giorni, la guida Touring fra le mani, camminavamo e ammiravamo, risparmiando sul cibo e cenando magari con una scatoletta di tonno e una birretta. Ma c’era un momento di quei pomeriggi di agosto in cui ci fermavamo a mangiare un gelato al gianduiotto da Nico alle Zattere. Dallo zaino, allora, tiravo fuori lo spartito del Don Giovanni di Mozart, per voce e pianoforte: aveva una copertina giallo pallido, che da brava ragazza avevo ricoperto con la plastica trasparente, per non rovinarla. Avevo un bellissimo quaderno, perché la passione per i quaderni belli non mi è mai passata, su cui prendevo appunti tra una cucchiaiata di gelato e l’altra, sognando che prima o poi avrei scritto un libro sul Don Giovanni. L’avrei fatto, in effetti, dopo una decina d’anni, ma questo non importa: importa quel percorso non canonico, se vogliamo non produttivo o non immediatamente produttivo. Non stavo facendo, allora, nulla che sarebbe stato concretamente utile per la mia vita, o per la mia carriera. Nei fatti, stavo facendo moltissimo per me, per i miei sogni, per incrementare l’amore per le cose belle: la musica di Mozart, la scrittura “a perdere”, senza alcun progetto editoriale, anzi, senza neanche poter sperare di pubblicare un giorno quello che stavo scrivendo, Venezia. E, sì, anche il gianduiotto.
Perché scrivo di cose così lontane? Perché temo che ci sia un equivoco: piccolo, per carità, e dunque evitabile a patto di parlarne. C’è un proliferare di libri che propongono modelli forti per le bambine, laddove persino la Barbie lancia la Barbie-magistrato, e anzi arriva in libreria un testo, 60 sogni di Barbie, dove si raccontano ragazze toste, aviatrici, medici di guerra, molto altro, e in giro serpeggia l’imperativo “Non ti distrarre, non ti arrendere, non ti lamentare, ma fai tesoro dell’esperienza”. Ecco, non necessariamente una bambina deve immaginarsi come tosta, ardita, vincente. Capisco, e lo capisco benissimo avendone scritto oltre dieci anni fa, la necessità di proporre modelli forti. Ma accanto a questi mi piacerebbe che qualcuno dicesse alle bambine: prenditi il tuo tempo, distraiti, impara, ama, osserva, ascolta, sogna. Soprattutto sogna. E sii infine chi vuoi essere. Sii libera, per favore.
Sono d’accordo con te, il rischio di passare da uno stereotipo all’altro è forte
Credo che il problema non riguardi solo le bambine e il mondo del femminile: l’utilitarismo è una brutta bestia che non guarda in faccia ai generi.