Aldous Huxley (1894-1963). Si dirà: era un mistico, più che un pacifista. Vero: le due cose non vanno necessariamente insieme, ma a volte capita. Nel pacifismo credeva, però, e un suo quasi dimenticato romanzo, Cieco a Gaza, ne è testimonianza. Ma le parole di Huxley, oggi, servono parecchio.
Partiamo da Dostoevskij.
Nei Fratelli Karamazov, il Grande Inquisitore dice:
“Noi li costringeremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro ordineremo la loro vita come un gioco infantile, con canti infantili, con cori e con danze innocenti. Oh, concederemo loro anche il peccato, perché sono deboli e inetti (…) daremo loro la felicità degli esseri deboli, quali essi sono stati creati”.
Ora, come si sottolinea in un prezioso saggio, “Sul Mondo Nuovo di Aldous Huxley” a cura di Manuela Ceretta e Alessandro Maurini, quella che il Grande Inquisitore va spiegando nel suo meraviglioso monologo è non solo la debolezza della natura umana, ma il fatto che molte sottomissioni, se non tutte, si fondano sul piacere e sul consenso a quel piacere, laddove, e qui siamo già dentro Huxley, la scelta è fra libertà e felicità, e la felicità è data quasi sempre dalla sicurezza (ricordate le parole d’ordine del Mondo nuovo? Comunità. Identità. Stabilità.).
Ora, io non credo che esista un complotto che ci impone l’Happycracy che ha in mente Huxley, e non credo neanche che Huxley abbia, come spesso si pensa a proposito degli autori fantastici, capacità di preveggenza: anche se alcune cose danno un lieve brivido, come l’uso del soma che preconizza i futuri psicofarmaci, la condanna sociale verso la solitudine, la contrazione del linguaggio e della comunicazione fino a semplici battute. Penso, semplicemente, che come Dostoevskij sappia molto della natura umana, e sappia con quanta compiacenza, e addirittura con quanto piacere, andiamo incontro a situazioni che costituiscono una privazione della nostra libertà, e anzi un fraintendimento della libertà stessa.
E’ quello che avviene in questi giorni, e non solo sui social network: sono un mezzo a cui sempre più spesso affidiamo pensieri che non avremmo espresso in modo così crudo e così istintivo e permanente. Il prendere parte a una disputa virtuale collettiva ci fornisce, anche se lo neghiamo, un piacere, l’esprimersi su qualsiasi argomento e trovare che altri lo fanno e anzi ci spingono ad alzare il tiro ci fa sentire meno soli. Ci fornisce quelle tre parole: Comunità, Identità, Stabilità. Apparenti, certo, ma non meno vere.
E su questo Huxley metteva in guardia, ne I diavoli di Loudon:
“Pronunciate da un buon attore – ed ogni grande predicatore, ogni avvocato o politico di successo è, tra le altre cose, un attore consumato – le parole possono esercitare un potere quasi magico sugli ascoltatori. A causa dell’essenziale irrazionalità di questo potere, l’oratore pubblico anche meglio intenzionato, probabilmente fa più male che bene. Quando un oratore, con la sola magia delle parole e di una voce d’oro, persuade il suo pubblico della giustizia di una causa falsa, ne rimaniamo terribilmente impressionati. Dovremmo provare la stessa costernazione ogni qual volta osserviamo gli stessi inopportuni artifici usati per persuadere la gente della giustizia di una buona causa. La convinzione inculcata può essere desiderabile, ma queste basi sono intrinsecamente false, e coloro che usano gli stratagemmi oratorii per istillare convinzioni anche giuste sono colpevoli di favorire gli elementi meno apprezzabili della natura umana. Esercitando il disastroso dono della parola, essi approfondiscono il trance quasi ipnotico in cui vivono la maggioranza degli esseri umani e da cui è scopo e fine di ogni vera filosofia, di ogni religione genuinamente spirituale, di liberarli. Non solo, ma non vi può essere effettiva oratoria senza supersemplificazione. E non si può supersemplificare senza deformare i fatti. Anche quando fa del suo meglio per dire la verità, l’oratore di successo è ipso facto un bugiardo. E la maggioranza degli oratori di successo, è appena necessario aggiungerlo, non cercano neppure di dire la verità; essi cercano di suscitare simpatia per i loro amici e antipatia per gli opponenti”
E , infine, dimentichiamo anche gli ultimi freni perché, come Huxley sapeva, verremo distrutti non da ciò che odiamo, come temeva Orwell, ma da ciò che amiamo. E dimentichiamo il dodo, come scrive nel Mondo Nuovo:
“Libero come un uccello, diciamo noi e invidiamo quelle creature alate che si possono muovere a piacimento nelle tre dimensioni. Ahimé, ci siamo dimenticati del dodo. Quando un uccello impara ad ingozzarsi a sufficienza senza essere costretto a usare le ali, rinuncia al privilegio del volo e se ne resta a terra, in eterno. Qualcosa di simile vale anche per gli uomini”.
E la solitudine? Quella resta, anche ora. Ancora un brano, stavolta da Le porte della percezione
“Noi viviamo insieme, agiamo e reagiamo gli uni agli altri; ma sempre, in tutte le circostanze, siamo soli. I martiri quando entrano nell’arena si tengono per mano; ma vengono crocifissi soli. Allacciati, gli amanti cercano disperatamente di fondere le loro estasi isolate in una singola autotrascendenza; invano. Per la sua stessa natura, ogni spirito incarnato è condannato a soffrire e godere in solitudine. Sensazioni, sentimenti, intuiti, fantasie, tutte queste cose sono personali e, se non per simboli e di seconda mano, incomunicabili. Possiamo scambiarci informazioni circa le esperienze, mai però le esperienze stesse. Dalla famiglia alla nazione, ogni gruppo umano è una società di universi-isole”.
Siamo esattamente così, qualunque cosa si dica e si scriva in queste ore.