BIBLIOGRAFIA DISARMATA: ERNESTO BALDUCCI

Ernesto Balducci (1922-1992). Era un 25 aprile quando Ernesto Balducci morì dopo un incidente stradale. E’ stato molte cose: un religioso, uno scrittore, un intellettuale e uno dei più importanti attivisti per la pace e il disarmo. Non ne avete sentito parlare moltissimo, in questi giorni, anche se ieri ricorrevano i trent’anni dalla sua morte, e forse non è un caso, in tempi in cui la parola pacifista è diventata un insulto, un motivo di aggressione verbale e di disprezzo pubblico. Pazienza. Vi riporto qui parte di un suo intervento al convegno di “Testimonianze” il 14 novembre 1981, poi riportato in apertura del libro dello stesso Balducci e Lodovico Grassi, La pace. Realismo di un’utopia.
Serve, credetemi.

“Cresce di anno in anno la paura della catastrofe atomica e di anno in anno, dinanzi a tale prospettiva, si fa più serrato il confronto tra gli utopisti, secondo i quali è possibile, in ragione della stessa smisuratezza del pericolo, uscire una volta per sempre dalla civiltà della guerra, e i realisti, secondo i quali il bene della pace, anche oggi come sempre, può essere custodito solo dall’equilibrio delle forze in campo. (…)

L’umanità’ è entrata in un tempo nuovo nel momento stesso in cui si è trovata di fronte al dilemma: o mutare il modo di pensare o morire. Essa vive ormai sulla soglia di una mutazione, nel senso forte che ha il termine in antropologia.
Non serve obiettare, contro il dilemma, che la mutazione non è avvenuta e noi siamo vivi! Non è forse vero che l’abisso si è spaventosamente allargato dinanzi a noi? D’altronde le mutazioni non avvengono con ritmi serrati e uniformi. In ogni caso si può già dire, con fondatezza, che si sono andate generalizzando alcune certezze in cui è’ facile scoprire il riflesso del messaggio di Hiroshima e dunque un qualche inizio della mutazione.
La prima verità contenuta in quel messaggio è che il genere umano ha un destino unico di vita o di morte. Sul momento fu una verità intuitiva, di natura etica, ma poi, crollata l’immagine eurocentrica della storia, essa si è dispiegata in evidenze di tipo induttivo la cui esposizione più recente e più organica è quella del Rapporto Brandt. L’unità del genere umano è ormai una verità economica. Le interdipendenze che stringono il Nord e il Sud del pianeta, attentamente esaminate, svelano che non è’ il Sud a dipendere dal Nord ma è il Nord che dipende dal Sud. Innanzitutto per il fatto che la sua economia dello spreco è  resa possibile dalla metodica rapina a cui il Sud è sottoposto e poi, più specificamente, perchè esiste un nesso causale tra la politica degli armamenti e il persistere, anzi l’aggravarsi, della spaventosa piaga della fame. Pesano ancora nella nostra memoria i 50 milioni di morti dell’ultima guerra, ma cominciano anche a pesarci i morti che la fame sta facendo: 50 milioni, per l’appunto, nel solo anno 1979. E più comincia a pesare il fatto, sempre meglio conosciuto, che la morte per fame non e’ un prodotto fatale dell’avarizia della natura o dell’ignavia degli uomini, ma il prodotto della struttura economica internazionale che riversa un’immensa quota dei profitti nell’industria delle armi: 450 miliardi di dollari nel suddetto anno 1979 e cioè 10 volte di più del necessario per eliminare la fame nel mondo. Questo ora si sa. Adamo ed Eva ora sanno di essere nudi. Gli uomini e le donne che, fosse pure soltanto come elettori, tengono in piedi questa struttura di violenza, non hanno più la coscienza tranquilla.
La seconda verità di Hiroshima è che ormai l’imperativo morale della pace, ritenuta da sempre come un ideale necessario anche se irrealizzabile, è arrivato a coincidere con l’istinto di conservazione, il medesimo istinto che veniva indicato come radice inestirpabile dell’aggressività distruttiva. Fino ad oggi è  stato un punto fermo.che la sfera della morale e quella dell’istinto erano tra loro separate, conciliabili solo mediante un’ardua disciplina e solo entro certi limiti: fuori di quei limiti accadeva la guerra, che la coscienza morale si limitava a deprecare come un malum necessarium. Ma le prospettive attuali della guerra tecnologica sono tali che la voce dell’istinto di conservazione (di cui la paura è un sintomo non ignobile) e la voce della coscienza sono diventate una sola voce. Non era mai capitato. Anche per questi nuovi rapporti fra etica e biologia, la storia sta cambiando di qualità.
La terza verità di Hiroshima è che la guerra è uscita per sempre dalla sfera della razionalità. Non che la guerra sia mai stata considerata, salvo in rari casi di sadismo culturale, un fatto secondo ragione, ma sempre le culture dominanti l’hanno ritenuta quanto meno come una extrema ratio, e cioè come uno strumento limite della ragione. E difatti, nelle nostre ricostruzioni storiografiche, il progresso dei popoli si avvera attraverso le guerre. Per una specie di eterogenesi dei fini – per usare il linguaggio di Benedetto Croce – l'”accadimento” funesto generava l'”avvenimento” fausto. Ma ora, nell’ipotesi atomica, l’accadimento non genererebbe nessun avvenimento. O meglio, l’avvenimento morirebbe per olocausto nel grembo materno dell’accadimento.

(…)

Tra i molti orizzonti che la scienza moderna ha dischiuso ai nostri occhi c’è anche quello, remotissimo nel tempo, delle origini della nostra specie. Ora sappiamo che gli uomini preistorici non erano più bellicosi di noi, a volte non lo erano affatto. E’ vero: la civiltà (ma questa parola ora la pronunciamo con più pudore) comincia con le istituzioni e tra di esse non manca mai la guerra. Ma questo nesso costante tra civiltà e guerra ci autorizza a dedurne che dunque la guerra è una legge insuperabile della specie? Troppe volte, nel passato, si attribuiva alla natura della specie quello che poi si è scoperto essere niente più che un portato della cultura. Ad esempio, la schiavitù. L’opinione comune, fino a due secoli fa, era che la schiavitù fosse un’esigenza naturale della società umana, proprio come aveva insegnato, nel IV secolo a. C., il filosofo per eccellenza, Aristotele. Oggi l’idea stessa di schiavitù ci ripugna. E cosi’: appena oggi si sta sfaldando il pregiudizio secondo il quale è la natura che vuole il primato dell’uomo sulla donna: da Aristotele a san Tommaso, a Kant, a Freud, su questo punto non ci sono state incertezze. Oggi anche nel diritto italiano è stata sancita la parità dell’uomo e della donna nel matrimonio. Ci si va convincendo che quanto si attribuiva alla natura non era che un portato della cultura.
Non potrebbe avvenire lo stesso per la “istituzione guerra”? Come c’è stata l’età della pietra e poi quella del bronzo e del ferro, non potrebbe esserci, dopo la civiltà della guerra, la civiltà della pace?
E’ vero, una transizione del genere appare molto improbabile anche agli autori di questa rassegna. Un’analisi obiettiva dell’attuale corso delle cose non può non portare alla previsione della catastrofe. Ma ciò che è improbabile, non per questo è impossibile. La paleontologia dimostra che la nostra specie ha saputo sottrarsi alla fatalità (quella fatalità che invece ha avuto la meglio su altre specie di animali e di ominidi), mettendo i propri ritrovati (il fuoco, ad esempio) al servizio del suo istinto di conservazione. In questi decenni la specie si trova in una congiuntura del genere: il fuoco atomico, che la sua intelligenza le ha messo tra le mani, può incendiare e distruggere sulla Terra ogni germe di vita o può diventare lo strumento per inaugurare una pagina totalmente nuova della storia umana, quella in cui il genere umano viva pacificamente nell’unica città che e’ ormai il nostro pianeta.
Per la prima volta questa utopia è diventata realistica, sia nel senso che essa è per la prima volta tecnicamente possibile, sia nel senso che essa è l’unica alternativa alla morte universale. Quel che le manca è, appunto, una cultura che sia al suo livello, cioè, come si e’ detto, al livello della voce della coscienza e dell’istinto, una cultura della pace che succeda alla cultura della guerra di cui noi siamo figli, così come alla cultura paleolitica successe, più di diecimila anni fa, la cultura neolitica che ancora sopravvive nelle sue istituzioni fondamentali.
E’ vero, il tempo è breve, cosi’ breve che è già un grave obbligo adoperarsi perchè non sia accorciato. Ed e’ questo che da ogni parte viene chiesto ai titolari del potere politico, in attesa che la mutazione antropologica si svolga secondo i suoi ritmi, sicuramente lunghissimi. Essa chiama in causa la societa’ in tutte le sue articolazioni organiche, anzi – non dovremmo aver paura a riconoscerlo – chiama in causa primariamente le singole coscienze. Difatti, alla base della pace c’e’ una virtu’ che non puo’ essere insegnata: e’ la fede dell’uomo nell’uomo e, in generale, la fede dell’uomo nelle risorse della sua specie, rimaste represse e mortificate dalla gelida stagione del cinismo morale. Non si obietti che questa fede nell’uomo non e’ in regola con i rigori della ragione, perche’ e’ appunto questa ragione che, sotto le forme del rigore, a nient’altro e’ intenta se non a codificare l’esistente e a proiettarne le forme nel futuro, e’ proprio questa ragione il primo bersaglio della fede morale. D’altronde anche questa ragione cinica ha le sue forme di fede, quella, ad esempio, di cui danno prova, a loro modo, coloro che propongono come seria l’ipotesi di una guerra al neutrone regionale e controllata!
La fede morale non e’ piu’ un semplice postulato, un’esigenza cioe’ senza riscontro nei fatti. Essa ha gia’ dalla sua parte alcuni processi in corso, il cui senso unitario si svela solo se si assume la civilta’ della pace come loro punto di riferimento e di sintesi. Si tratta di processi che stanno battendo in breccia, anno dopo anno, le premesse antropologiche della civilta’ della guerra. La prima di queste premesse e’ che l’uomo sia per natura aggressivo, di quell’aggressivita’ distruttiva che noi chiamiamo violenza. Come sopra si diceva, le ricerche antropologiche ci hanno condotto ad un punto in cui non ha piu’ senso dire che l’uomo e’ per natura pacifico o che l’uomo e’ per natura violento. La natura dell’uomo e’ nel suo farsi, e’ cioe’ nella sua cultura. Come dire che l’uomo e’ cosi’ come si fa. Insomma, una cultura della pace non contraddice a nessun dato irreformabile, scritto nei cieli o sulla terra. Osserviamo cosa avviene nella societa’ cresciuta all’ombra del fungo atomico”.

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