BIBLIOGRAFIA DISARMATA: QUELLI CHE SI ALLONTANANO DA OMELAS

QUELLI CHE SI ALLONTANANO DA OMELAS (1973). Un racconto, stavolta. Anzi, la parte finale del meraviglioso racconto di Ursula K. Le Guin. Il dilemma di ogni giorno: salverai il bambino prigioniero e condannerai la prospera città di Omelas alla disperazione e alla miseria, o continuerai lo stato delle cose? Oppure te ne andrai?
(la traduzione è di Roberta Rambelli)

 

“La porta è sempre chiusa a chiave; e non viene mai nessuno, solo che qualche volta – il bambino non sa cosa sia il tempo – la porta fa un rumore terribile e si apre e lascia apparire una persona, o parecchie persone. Una, magari, entra e sferra un calcio al bambino per costringerlo ad alzarsi. Le altre non si avvicinano mai, ma sbirciano con occhi impauriti e disgustati. La ciotola del cibo e la brocca dell’acqua vengono riempite in fretta, la porta viene richiusa, gli occhi scompaiono. La gente sulla porta non dice mai niente; ma il bambino, che non è vissuto sempre nel ripostiglio e può ricordare la luce del sole e la voce di sua madre, talvolta parla.- Sarò buono – dice. – Fatemi uscire, per favore. Sarò buono. – Loro non rispondono mai. Un tempo il bambino urlava per invocare aiuto, di notte, e piangeva parecchio; ma adesso si limita a piagnucolare, “ehhaa, ehhaa”, e parla sempre meno spesso. È così magro che le sue gambe non hanno polpacci; il ventre è gonfio; vive di una mezza ciotola di farina di granturco e di grasso al giorno. È nudo. Le natiche e le cosce sono una massa di piaghe infette, perché sta seduto di continuo tra i suoi escrementi.
Tutti sanno che è lì, tutti gli abitanti di Omelas. Alcuni sono venuti a vederlo, altri si accontentano di sapere che è lì. Tutti sanno che deve stare lì.
Alcuni di loro comprendono perché, e alcuni no; ma tutti capiscono che la loro gioia, la bellezza della loro città, la tenerezza delle loro amicizie, la salute dei loro figli, la saggezza dei loro dotti, l’abilità dei loro fabbricanti, perfino l’abbondanza dei loro raccolti e il benigno clima dei loro cieli, dipendono interamente dall’abominevole infelicità di quel bambino.
Di solito ciò viene spiegato ai bambini tra gli otto e i dieci anni, appena sembrano in grado di comprendere; e quasi tutti quelli che vengono a vedere il bambino sono giovani, sebbene spesso un adulto venga (o torni) a vedere il bambino. Per quanto la cosa sia stata loro spiegata bene, i giovani spettatori sono sempre scandalizzati o nauseati da quello spettacolo.
Provano disgusto, al quale si ritenevano superiori. Provano collera, sdegno, impotenza, nonostante tutte le spiegazioni. Vorrebbero fare qualcosa per il bambino. Ma non possono far nulla. Se il bambino venisse portato alla luce del sole, fuori da quel posto fetido, se venisse pulito e nutrito e confortato, sarebbe davvero una bella cosa; ma se questo avvenisse, in quel giorno e in quell’ora tutta la prosperità e la bellezza e la gioia di Omelas avvizzirebbero e verrebbero annientate. Queste sono le condizioni.
Scambiare tutto il bene e la grazia di ogni vita di Omelas per quel piccolo unico miglioramento: gettare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità di renderne felice una sola: questo significherebbe veramente lasciar entrare il rimorso tra quelle mura.
Le condizioni sono rigorose e assolute: al bambino non si può rivolgere neppure una parola gentile. Spesso i giovani tornano a casa in lacrime, o in preda a una rabbia senza lacrime, quando hanno visto il bambino e fronteggiato il terribile paradosso. Magari ci rimuginano sopra per settimane o per anni. Ma col passare del tempo cominciano a rendersi conto che, anche se il bambino potesse essere liberato, non guadagnerebbe molto dalla sua libertà: il piccolo e vago piacere del calore e del cibo, senza dubbio, ma poco di più. Etroppo degradato e scemo per conoscere la vera gioia. Ha avuto paura troppo a lungo per poter essere libero dalla paura. Le sue abitudini sono troppo squallide perché possa reagire a un trattamento umanitario. Dopo tanto tempo, probabilmente si dispererebbe perché non avrebbe intorno i muri che lo proteggono, e l’oscurità per i suoi occhi, e i suoi escrementi su cui sedersi. Le loro lacrime per la tremenda ingiustizia si asciugano quando incominciano a percepire la terribile giustizia della realtà e ad accettarla.
Eppure sono le loro lacrime e la loro collera, la prova della loro generosità e l’accettazione della loro impotenza, a costituire forse la vera fonte dello splendore delle loro vite. La loro non è una felicità svampita e irresponsabile. Sanno che loro, come il bambino, non sono liberi.
Conoscono la pietà. Sono l’esistenza del bambino e la conoscenza della sua esistenza a rendere possibile la nobiltà della loro architettura, il significato della loro musica, la profondità della loro scienza. È a causa del bambino che sono così gentili con i bambini. Sanno che se quell’infelice non fosse là a piagnucolare nel buio, l’altro, il suonatore di flauto, non potrebbe suonare una musica gaia mentre i giovani cavalieri si allineano, bellissimi, per la corsa, nel sole della prima mattina d’estate.
Adesso credete in loro? Non sono un po’ piú credibili? Ma c’è un’altra cosa da aggiungere, e questa è veramente incredibile.

Talvolta uno degli adolescenti (maschio o femmina) che va a vedere il bambino non torna a casa per piangere o ribollire di rabbia: anzi, non torna a casa per niente. Talvolta anche un uomo o una donna di età più avanzata tace per un giorno o due e poi se ne va via da casa. Costoro escono in strada e s’incamminano soli per la via. Continuano a camminare ed escono dalla città di Omelas, attraverso le bellissime porte.
Continuano a camminare, attraverso le terre coltivate di Omelas. Ognuno va solo, giovane o ragazza, uomo o donna. Cade la notte: il viandante deve percorrere le vie dei villaggi, tra le case con le finestre illuminate di giallo, e procedere nell’oscurità dei campi. Da solo, ognuno di loro si dirige a ovest o a nord, verso le montagne.
Proseguono. Lasciano Omelas, procedono nell’oscurità, e non tornano indietro. Il luogo verso cui si dirigono è un luogo ancora meno immaginabile, per molti di noi, della città della gioia. Non posso descriverlo. È possibile che non esista. Ma sembra che loro sappiano dove stanno andando, quelli che si allontanano da Omelas.”

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