Wilfred Owen (1893-1918). Prima di raccontare quel poco che si può dire di uno dei War Poets che narrarono in versi gli orrori della Grande Guerra, mi piacerebbe scrivere un paio di cose sull’uso delle parole.
Un uso tossico, che com’è noto viene amplificato e quasi sollecitato da Facebook: ne sono consapevole da molti anni, eppure ogni volta mi stupisco, eppure ogni volta mi chiedo cosa spinga persone di aspetto mite (a giudicare dalle foto profilo, almeno), che si professano amanti di animali e tramonti, che sorridono con marito e figlio davanti a un aperitivo sul mare, ecco, mi chiedo stupidamente cosa spinga queste donne e questi uomini all’uso tossico della parola scritta. L’ultima occasione è stata la concessione – sacrosanta – della legge Bacchelli ad Aldo Nove: perfetti sconosciuti, e soprattutto perfette sconosciute, sotto la notizia pubblicata dall’Agi hanno dato il peggio della propria anima (c’è stato un assaggio tossico anche sotto la notizia della vittoria dello Strega Giovani da parte di Veronica Raimo, peraltro).
Storie vecchie, storie tristi, storie piccine, che certo non bisognerebbe riesumare quando parliamo della Storia grande, specie se quella storia riguarda la guerra. Eppure ci sono questi versi:
Se solo potessi sentire il sangue, ad ogni sobbalzo,
fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di bava,
osceni come il cancro, amari come il rigurgito
di disgustose, incurabili piaghe su lingue innocenti –
amico mio, non ripeteresti con tanto compiaciuto
fervore a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta
disperate, la vecchia Menzogna:
Dulce et decorum est
Pro patria mori.
Wilfred Owen, per la cronaca, si arruolò come molti altri giovani inglesi ispirati da parole tossiche in una guerra che si supponeva veloce e che fu quel che fu. Ricoverato in ospedale per uno shock da granata, conobbe Siegfrid Sassoon, il più celebre tra i War Poets. Che sopravvisse, perché Owen morì durante un’azione di guerra il 1 ottobre 1918.
Ogni parola può contenere un veleno, anche quella che ci sembra ininfluente. Sarebbe bello pensarci ogni volta che si posano le dita su una tastiera, anche se non sarà così.