Per puro caso mi imbatto in alcuni commenti sulla bacheca di un’amica scrittrice. Sotto una discussione che riguardava il decreto sicurezza, una maestra inveisce contro i radical chic, assicura che gli ebrei in Italia stavano benissimo alla facciaccia dei radical chic medesimi (almeno fino al luglio del 43: prima, durante le leggi razziali, era una pacchia, a quanto pare) e ne approfitta per inveire contro gli scrittori italiani presuntuosi che osano parlare di politica (salvo poi seguirne tantissimi su Facebook, ma pazienza), e giù sul che ne sapete voi andate a sporcarvi le mani eccetera.
Vi odio, è il senso.
Ora, non voglio tornare sulla questione dell’avversione verso gli intellettuali. Però vorrei fare un riassunto. Che peraltro abbiamo scritto insieme, Giovanni Arduino e io, ben sei anni fa, in Morti di fama. Libro in cui, ce lo diciamo spesso in questi giorni, siamo stati forse troppo ottimisti. Buona giornata.
1986. Un anno strano e tremendo, come molti di quel decennio, quando le cose avvenivano ed erano molto spesso sanguinose, ma era come se non se ne avesse una percezione completa, perché l’idea generale era quella di un paese felice e potente, cui non sarebbe stato negato un futuro radioso. O almeno divertente. In quell’anno, dunque, ci furono scintille fra Stati Uniti e Libia, e l’embargo di forniture di armi da parte dell’Italia. Si sfiorò la crisi, ma lo Space Shuttle Challenger esplose in diretta televisiva con dentro la prima insegnante dello spazio, Christa McAuliffe, e per un po’ si parlò d’altro in effetti, e poi vennero il maxi processo contro la mafia e l’acquisto del Milan da parte di Silvio Berlusconi, e la morte di Olof Palme, e il caffè al cianuro di Sindona. E poi, certo, ci fu Chernobyl, e non molto dopo lo scioglimento dei Queen, e la prima mucca pazza. Ecco, in quell’anno in cui, in fondo, si cominciava a capire che le cose non sarebbero andate poi così bene come si supponeva, alla radio si udirono parole mai udite pubblicamente.
Rottoinculocazzodimerdaaa,tuchetenevaiconquellatroiarottainculoinfigaa, diocane, porcodio.
Cosa era successo? Era successo che Radio Radicale, in grave crisi economica, aveva sospeso la programmazione ordinaria lasciando aperte tre linee telefoniche collegate a una segreteria per far sì che gli utenti potessero registrare le loro telefonate di solidarietà, che sarebbero state mandate in onda integralmente. Non andò così che in minima parte: quelli che andarono in onda furono, semplicemente, insulti. A volte con motivazioni più o meno esili (nord contro sud), nella maggior parte dei casi senza motivazione alcuna. Ne arrivavano mille al giorno: mille vaffanculo, mille accattoni-parassiti-parolai, pernacchie a ripetizione, accuse di “uomosessualità”, gag sessuali, insulti calcistici e insulti politici ma anche insulti all’ascoltatore che aveva appena riattaccato: “un gigantesco sfogatoio, in un’unica straordinaria trasmissione non-stop che concorrerà al “Premio Italia”, il più importante riconoscimento della radiofonia”, scriverà Panorama. Fu, in effetti, un esperimento importante, una prova generalissima non solo degli umori rissosi da sempre attivi nelle pance italiane, ma della possibilità di ottenere attenzione, e un istante di visibilità, attraverso l’odio: basta avere una tribuna pubblica, esprimersi con i giusti toni (i più livorosi possibile) e si diventa qualcuno. Certo, per perfezionare il meccanismo bisognerà aspettare la televisione, e soprattutto il Maurizio Costanzo Show, che della possibilità di ottenere fama attraverso l’insulto farà una filosofia.
Passo avanti.
E’ un giorno di primavera e gli anni Ottanta stanno per finire: è, per l’esattezza, il 23 marzo 1989, un mese e mezzo dopo la fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie, un mese meno tre giorni dall’assoluzione di Stefano Delle Chiaie al processo per la strage di piazza Fontana, tredici giorni dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, tre prima (a volte le coincidenze sono davvero meravigliose) della presentazione del World Wide Web: Summary da parte di Tim Berners-Lee (che fu, in pratica, l’atto di nascita della rete). Dunque, nella puntata del Costanzo Show di quella sera c’è un’insegnante che legge una sua poesia. Vittorio Sgarbi, presente come “polemista”, la definisce orribile, riceve in cambio un “lei è un asino poetico” e replica “e lei è una stronza”. La prima parolaccia della televisione, che emozione. Sgarbi venne querelato e condannato a pagare 60 milioni di risarcimento. Sarà la prima di una lunga serie di condanne e l’inizio di una folgorante carriera: in quello stesso anno, Sgarbi augura la morte a Federico Zeri, più avanti prenderà a secchiate Roberto D’Agostino durante un programma di Giuliano Ferrara, tirerà un tapiro in testa a Valerio Staffelli, darà della “scoreggia fritta” a Scalfaro, del “mafioso” a Peter Gomez, dell’”ateo bastardo” a Cecchi Paone, del “cornuto” a Mughini, della “puttana” a Irene Pivetti, della “troia irachena” a Zaha Hadid.
Lo sappiamo, vi ricorda qualcosa. Lo “stronza” di Sgarbi e la popolarità che gliene deriva aprono un varco: la televisione degli anni Novanta gioiosamente provoca la rissa, incoraggia i toni che coprono le parole degli altri. Vuole sangue. Vuole audience. I politici si adeguano, naturalmente: ma quando, con l’inizio degli anni Zero, viene il tempo della “gente comune”, dei partecipanti ai reality, dei tronisti di Maria De Filippi che sostituiscono il pubblico scampanellante e muto della Corrida che improvvisamente può prendere la parola e trasformarsi a sua volta in protagonista, tutto cambia. Anche la più oscura delle comparse diventa una star se insulta, aggredisce, ferisce: Tina Cipollari, la bionda opinionista di Uomini e Donne, viene gratificata con una rubrica su VIP dove può ricoprire di contumelie i concorrenti anche su carta. Danielona Ranaldi, che nello stesso programma inveiva come una baccante contro tronisti e corteggiatrici fu, prima di venir arrestata per spaccio, una stella. Con Internet diventa tutto ancora più facile, alla portata di tutti e persino comodo, perché si può diventare odiatori senza metterci la faccia.
Continua, temo.