Quando la letteratura dice “io”, e lo dice sempre più spesso e in ogni forma, e anzi a questo punto sa che, almeno per un altro po’ di tempo, più dice io e più incontrerà successo, è normale che le altre forme narranti ripetano “io”. In verità, hanno cominciato prima le altre forme: la televisione e poi, ovviamente, i social. Dunque, non mi stupisce che anche le lettere sanremesi continuino (Chiara Ferragni non è la prima) a dire “io” per poi provare a declinare il noi, senza davvero volerlo fare, credo.
Naturalmente non propongo un paragone ma un’alternativa possibile. Un altro modo di dire “io”. E, soprattutto, un altro intento. Dal discorso di Annie Ernaux per l’accettazione del Nobel per la letteratura.
“È così che ho concepito il mio impegno nella scrittura, che non consiste nello scrivere “per” una categoria di lettori, ma “partendo” dalla mia esperienza di donna e di immigrata interna, dalla mia memoria ormai sempre più lunga degli anni attraversati, dal presente, fornitore incessante di immagini e parole degli altri. Questo impegno come pegno di me stessa nella scrittura, e sostenuto dalla credenza, divenuta certezza, che un libro possa contribuire a cambiare la vita personale, a spezzare la solitudine delle cose subite e seppellite, a pensarsi in modo diverso. Quando l’indicibile viene alla luce, è politico”.
Categoria: Ancora dalla parte delle bambine
Fra i suoi colleghi, che piaccia o meno, Stephen King è fra i pochissimi che abbia cercato di cambiare prospettiva. Lo ha fatto nel suo romanzo d’esordio, Carrie, affrontando un tema delicato come quello del bullismo femminile. Lo fa in Rose Madder, che Stephen King scrive nel 1995: uno dei romanzi dove parla esplicitamente di violenza contro le donne. Di donne, in realtà, King ha sempre scritto, arrivando a scegliere come esergo per Sleeping Beauties, scritto con il figlio Owen, i versi di Born A Woman di Sandy Posey: “E se sei nata donna/Sei nata per essere ferita”. Quando Spleeping Beauties uscì, nel 2017, parecchi Fedeli Lettori Kinghiani (maschi) storsero il naso: quell’idea di un mondo privo di donne e di una Gilania idilliaca tutta femminile sembrò ad alcuni una resa al politicamente corretto, e qualcuno arrivò ad accusarlo di essere diventato “una suffragetta invasata”.
Alla fine della discussione di ieri sera alla Casa internazionale delle donne, ha preso la parola una ragazza. Ho 23 anni, ha detto, e ogni mattina mi sveglio cercando i motivi per andare avanti, per farmi strada in un mondo difficilissimo per una ragazza. Come fate?, ha chiesto. Voi che siete molto più grandi, come riuscite ad arrivare alla fine della giornata?
Quello che mi è venuto da dire, lì per lì, è stato: per te, per le ragazze come te, per la speranza (hope, sempre lei). Poi però ci ho ripensato, e credo che ogni grande battaglia si possa condurre in due modi: o come il trono di spade (se giochi a questo gioco, vinci o muori), con la determinazione feroce di procedere facendo fuori chiunque incontri sul tuo cammino. Oppure, e non è detto che funzioni per tutte, mettendo in conto che non vincerai nella lotta per il potere, ma potrai vivere una buona e bella vita.
Ci sono persone che attirano odio, qualunque cosa facciano o dicano. Hanno certamente anche consenso, e ammirazione, e affetto, ma c’è una vastissima parte di commentatori e commentatrici che reagiscono come i cavalli al nome di Frau Blücher in Frankenstein Jr.
Ad attirare odio, spiace dirlo (anche perché la precisazione attirerà a sua volta i distinguo di coloro che nitriscono – magari in modo meno clamoroso – davanti al sospetto di femminismo) sono le donne: per meglio dire, un certo tipo di donne. Ovvero: autorevoli, visibili, poco etichettabili in questa o quella schiera o appartenenza. Donne competenti ma non miti, sorridenti ma affilate quando serve.
Due studiose ci stanno lavorando, per capire cosa scatti nella mente di molti e molte.
Per chi sostiene che l’attacco verbale non sia violenza, inviterei alla lettura di questi commenti, uno per uno. Anche quando non riguardano – come spesso avviene – la persona fisica, mirano alla ridicolizzazione, allo scherno, alla riduzione a macchietta, alla – direbbe la meravigliosa psicologa sociale Chiara Volpato – deumanizzazione della persona in questione.
Ieri sera una commentatrice su Facebook mi chiedeva perché continuare a parlare di aborto. Bene, in effetti non dovrebbe, nel migliore dei mondi possibili, esserci la necessità di discutere sul diritto di decidere se essere madri o meno. Non dovrebbe, ma quel che avviene intorno a noi (Ungheria, Polonia, Stati Uniti) ci ricorda che nessun diritto è acquisito per sempre.
C’è un secondo punto. Non si è mai smesso di interrogarci e discutere su questo, all’interno dei femminismi, e ogni discussione, anche quando si attesta su posizioni lontanissime, è importante, purché non si vada a scardinare la questione centrale: diritto di scelta, ancora una volta.
Oggi riassumo gli interventi di Lucetta Scaraffia e Elena Stancanelli, sempre su La Stampa.
Uso per un po’ questo blog come memorandum, perché la discussione che si sta sviluppando in questi giorni sull’aborto e su cosa, a proposito di interruzione di gravidanza, pensi la ministra per la famiglia e natalità e pari opportunità non è una scaramuccia, non è un attacco, non è una schermaglia. Riguarda, invece, la conservazione della memoria comune (insieme, ovviamente, a quella che è e resta la tutela di un diritto).
Il riassunto degli interventi di Giulia Siviero, Lea Melandri, Emma Bonino, Bleue Blissett
Dunque, ieri su La Stampa è uscito un mio articolo sulla neoministra per la famiglia, natalità e pari opportunità Eugenia Roccella. Oggi la ministra Roccella mi risponde. L’articolo è sul quotidiano e per correttezza non lo riporto integralmente. Però ho alcune cose da dire. Vado per punti.
Uno su tutti. Non ho mai contestato la possibilità che si possa cambiare, anche radicalmente. Contesto un’affermazione: “le femministe non hanno mai considerato l’aborto un diritto”, che è in contraddizione con quanto viene affermato nel libro. Si cambia idea anche su questo, è legittimo. Ma se cambiare è legittimo, si usa la prima persona singolare. Io, non le femministe. Anche perché è difficilissimo, a meno di non scrivere un saggio (e grazie al cielo c’è chi lo fa) dar conto delle diversità delle posizioni dei movimenti di allora e delle diramazioni che ne sono seguite.
Io ho una piccola fortuna, e la tengo cara. Fra le tante mail che ricevo, ci sono quelle, discrete e gentili come chi le invia, di Roberta Dapunt, che scrive poesie bellissime. Poco fa mi ha mandato questa. Pensata, dice, così: “Ieri sera ho letto la notizia della ragazza morta perché picchiata dalle forze dell’ordine in Iran, non voleva cantare insieme al coro l’inno di lode dedicato alla guida suprema Alì Khamenei. Mi tremavano le mani. Le ciocche di capelli nel mondo ormai sono diventate un simbolo di ribellione, e però un simbolo appunto, continuiamo a far sapere”.
E’ un regalo, e io lo condivido, perché così bisogna fare in questi tempi oscuri.
Se c’è un’argomentazione che trovo, senza mezzi termini, ignobile, è il “dove sono le femministe?”. Viene brandita dalle destre, d’abitudine, con quei bei titoloni che fanno tanto comodo a coprire sprezzo e distrazioni. A volte viene brandita anche dalle donne, a sorpresa: avvenne, a mia memoria, per le donne curde, quando chi nelle lotte non si era mai visto twittava la stessa frase. Non so quali siano i motivi: se disinteresse, disinformazione, altro (e sull’altro non indago). Anilda Ibrahimi scrive un articolo sul Domani dove lamenta il disinteresse delle giovani donne verso le sorelle iraniane: è falso. E, oltretutto, questo dare la colpa alle giovani per ogni cosa è insopportabile. A meno che Ibrahimi, con quel “dove sono le femministe?” non intendesse “alcune” femministe, e si chiedesse perché Tizia e Sempronia non avessero parlato. Se così fosse, la risposta è semplice: non sono necessarie le singole, è necessaria la comunità. E quella c’era, eccome se c’era.
Molti anni fa (era il 2005), mi infilai in una polemica letteraria sulla cultura popolare: brutto termine, in verità, almeno in italiano, perché le due parole sembrano annullarsi a vicenda in un contesto come il nostro, purtroppo. Allora, come oggi,…