La discussione sulla Gpa e sul “reato universale”, come è immaginabile, è andata avanti e purtroppo ha spesso raggiunto toni molto duri, e divisivi. Come ho scritto qualche giorno fa, l’argomento è complesso e difficile ed è inevitabile che le posizioni siano diverse: ripeto che molte mie amiche care sono su posizioni lontane dalla mia, e ci sta, e non per questo smettono di essere mie amiche, grazie alla dea, e non per questo smetto di amarle e di stimarle.
Però c’è un’argomentazione che non mi piace affatto, e che respingo: l’idea che si possano bollare le donne che hanno posizioni diverse, o giustamente contraddittorie e incerte, come “false femministe”. Questo, a mio parere, è intollerabile: perché vorrei tanto sapere come si prende la patente di femminista, e se bisogna superare un esame di teoria e come e dove, o se funziona come la psicostasia dell’antico Egitto, quando Anubi pesa il cuore del defunto sulla bilancia e decide dove mandare la sua anima.
Ma ci sono molti altri modi di intervenire. Ho ricevuto ieri una mail di Marzia Bisognin. E’ una doula, è cofondatrice del Melograno di Bologna, che unisce operatrici con diverse competenze per accompagnare il tempo dei 1000 Giorni: dalla gravidanza ai primissimi anni di vita dei bambini e delle bambine. E trovo bello, giusto e aperto il loro intervento. Leggetelo.
Categoria: Di madri ce n’è più d’una
E così è passato l’emendamento che permette ai No Choice di annidarsi nei consultori, agitando, si suppone, gli spettri che hanno sempre evocato, e sussurrando la parola “assassina” più o meno apertamente. Inutile che assicurino che non lo faranno. Lo hanno sempre fatto. Anche se ora, sul sito di Pro Vita & Famiglia, assicurano:
“non è assolutamente vero, come propinato da fake news ideologiche in questi giorni, che l’emendamento farà entrare le associazioni pro life nei consultori.”
Ah no? L’emendamento approvato dice che le Regioni possono “avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità”.
Vediamo la qualificata esperienza. Non so quanta possa chiamarsi “esperta” la «onlus laica e aconfessionale» Pro Vita&Famiglia. La stessa che nel 2018 riempiva le città con il manifesto «Sei qui perché tua mamma non ha abortito», che nel 2020 ha pubblicato le immagini di due feti con la scritta «Quale dei due è stato concepito da uno stupro?”», che ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare per far sì che il medico della ecografia pre-aborto sia obbligato a far sentire alla donna il battito cardiaco.
Noto che le discussioni sul materno si moltiplicano e, come spesso avviene, si irrigidiscono. Le cause sono infinite, come sempre: un episodio di cronaca, un libro (come quello di Michela Murgia, “Dare la vita”, che al solito viene preso come attacco personale a chi ha figli – e che noia, e basta con i personalismi, anche, non siete il centro dell’universo – e non come la traccia di una possibilità), altro.
Ben 12 anni fa scrivevo qualche considerazione, in “Di mamma ce n’è più d’una”. Con qualche variante, temo che valga sempre.
Le elefantesse di Dumbo sono quelle che dicono “Tesoro” all’elefantino, tranne poi bisbigliare perfidie quando scoprono che le sue orecchie sono più grandi del normale.
Le madri-elefantesse farebbero oggi qualcosa in più: direbbero che la colpa di quelle spropositate orecchie va ricercata in qualche debolezza, o errore, o inadeguatezza, della mamma di Dumbo. Le cattive madri, additate in ognuna delle centinaia di migliaia di discussioni in rete (o davanti alla scuola all’ora di uscita, o al parco, o sul luogo di lavoro, o dove volete) sono quelle che prendono tempo per sé. Che danno ai figli gli omogeneizzati “per poter fare altro”. Che li piazzano davanti alla televisione “per poter fare altro”. Che fumano. Che, anche, lavorano.
Una delle cose che mi ha colpito di più nella terribile storia della mamma lasciata sola in ospedale, crollata per stanchezza, e risvegliatasi senza più il figlio: la reazione di alcune altre madri. Certo, sono prevalenti, e importanti da leggere, le testimonianze sulla solitudine e sull’abbandono della madri. Però è quella parte a turbarmi, tanto.
Ripropongo un brano da “Di mamma ce n’é più d’una”. Dieci anni fa. Dieci.
Ieri sera una commentatrice su Facebook mi chiedeva perché continuare a parlare di aborto. Bene, in effetti non dovrebbe, nel migliore dei mondi possibili, esserci la necessità di discutere sul diritto di decidere se essere madri o meno. Non dovrebbe, ma quel che avviene intorno a noi (Ungheria, Polonia, Stati Uniti) ci ricorda che nessun diritto è acquisito per sempre.
C’è un secondo punto. Non si è mai smesso di interrogarci e discutere su questo, all’interno dei femminismi, e ogni discussione, anche quando si attesta su posizioni lontanissime, è importante, purché non si vada a scardinare la questione centrale: diritto di scelta, ancora una volta.
Oggi riassumo gli interventi di Lucetta Scaraffia e Elena Stancanelli, sempre su La Stampa.
Uso per un po’ questo blog come memorandum, perché la discussione che si sta sviluppando in questi giorni sull’aborto e su cosa, a proposito di interruzione di gravidanza, pensi la ministra per la famiglia e natalità e pari opportunità non è una scaramuccia, non è un attacco, non è una schermaglia. Riguarda, invece, la conservazione della memoria comune (insieme, ovviamente, a quella che è e resta la tutela di un diritto).
Il riassunto degli interventi di Giulia Siviero, Lea Melandri, Emma Bonino, Bleue Blissett
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